Nei discorsi dei primi giorni di questa epidemia era tutto un affannarsi alla ricerca del cosiddetto “paziente zero”, quello che per primo avrebbe portato l’infezione in Italia. Ora se ne parla un po’ meno, se non per attribuire (con sollievo e un po’ di maligna soddisfazione) ad altre nazioni (mentre scrivo queste note, sabato 7 marzo 2020, si parla di un presunto paziente zero tedesco) la “responsabilità” di avere portato il contagio in Europa. Evidentemente non cambia assolutamente nulla, a livello medico ed economico, se questo presunto “paziente zero” sia italiano o tedesco. Il punto interessante da discutere, l’unico a cui possa prendere parte qualcuno (come chi scrive) che non possiede nessuna competenza specifica su questo tema, è l’impensato nascosto nella stessa espressione “paziente zero”. Per un pensiero piuttosto sbrigativo prima di 0 non c’è niente da numerare, e quindi il paziente zero sarebbe quello attraverso cui l’infezione comincia. L’impensato dell’espressione “paziente zero” è appunto che prima di questa sfortunata (o malvagia) persona non ci sarebbe stata traccia di infezione. In sostanza, prima si stava bene.

Il “paziente zero” segna cioè il passaggio da una condizione originaria di salute, ad una condizione successiva segnata dalla malattia. Il punto di passaggio fra le due condizioni sarebbe appunto quello occupato dal cosiddetto “paziente zero”. In questo senso il “paziente zero” non è tanto una figura concreta, effettivamente esistente, quanto piuttosto un operatore metafisico, quello appunto che interrompe il normale stato di salute e porta con sé l’eccezionale stato di malattia. Per questa stessa ragione è così importante trovare questa entità, perché se si riesce a individuarla dovrebbe essere possibile, almeno in linea di principio, ricostruire tutti i suoi spostamenti e quindi bloccare l’ulteriore espansione del contagio. Qui ovviamente non si discute dell’opportunità medica di individuare il cosiddetto “focolaio” di un’infezione; il punto che ci interessa non ha a che fare con la medicina, bensì con il pensiero di chi non è medico, cioè tutti noi che crediamo, o meglio vogliamo credere, che fra stato normale e stato di eccezione esista una differenza essenziale. Proprio perché la posta in gioco del concetto di “paziente zero” ha a che fare con l’interruzione della normalità, questo paziente deve esistere. Perché solo se si riesce a individuarlo si può continuare a credere che se non ci fosse stato lui la normalità avrebbe continuato a scorrere liscia e senza problemi.

Anche se ormai è stucchevole riferirsi ai Promessi sposi (bene o male tutti quelli che sono passati per una scuola italiana hanno sentito parlare della storia della peste a Milano), non può non colpire come Manzoni, quando parla degli “untori”, sottolinei proprio questo punto. Non è che l’untore esista effettivamente, piuttosto è necessario che esista, altrimenti la peste – in quanto interruzione della normalità della vita – sarebbe incomprensibile, appunto perché la malattia deve essere l’eccezione: «Con una tal persuasione che ci fossero untori», scrive appunto Manzoni, «se ne doveva scoprire, quasi infallibilmente: tutti gli occhi stavano all’erta; ogni atto poteva dar gelosia» (Manzoni 1985, p. 574). Non è che chi cerca trova, piuttosto si trova solo quello che si è già deciso – in modo del tutto inconsapevole – che si sarebbe trovato.

Ma che cos’è, effettivamente, questo “paziente zero”? In realtà è importante distinguere fra il cosiddetto “index case” e il “primary case” (Giesecke 2014, p. 2024). Il “primary case” si riferisce alla persona che introduce un’infezione in un determinato gruppo sociale, ad esempio una classe di scuola o un pronto soccorso di un ospedale. L’“index case”, invece, è il primo caso di un paziente portatore di un’infezione di cui le autorità mediche di un certo luogo vengano a conoscenza. Non è affatto detto che “index case” e “primary case” coincidano nella stessa persona, anzi è molto probabile che non coincidano affatto. Nella maggior parte delle epidemie, scrive l’epidemiologo svedese Johan Giesecke, il “primary case” è infatti del tutto sconosciuto. Lasciando ora da parte la medicina, e tornando alla filosofia, possiamo riformulare in questi termini questa distinzione: il “primary case” avrebbe a che fare con l’ontologia, cioè con la costituzione reale del mondo; l’“index case”, invece, ha a che fare con la gnoseologia, cioè la nostra possibile e fallibile conoscenza del mondo. Nella maggior parte dei casi abbiamo a che fare solo con un “index case”, ma il nostro pregiudizio ontologico pretende che non sia solo un’entità conoscitiva, vuole anche che esista materialmente. Vuole cioè che “index case” e “primary case” siano sinonimi.

Il cosiddetto “paziente zero”, che non a caso è più una nozione giornalistica che scientifica, è il collasso di questa fondamentale distinzione. In questo senso il “primary case” non sembra così lontano dall’untore dei Promessi sposi: in entrambi i casi si vuole trovare il “responsabile” di un’infezione. La medicina, invece, come ogni attività scientifica ha a che fare effettivamente solo con “index cases”. È da qui e solo da qui che possono comincare le misure mediche di cura e prevenzione. Come dice il virologo dell’Università di Padova Giorgio Palù in un’intervista rilasciata al giornale online Il Bo Live: «La diffusione del virus non avviene più ormai per importazione, ma è diventata una diffusione autoctona, simil-endogena. Il virus si è ben adattato alla specie umana forse da più tempo di quanto si possa immaginare ed è trasmesso anche da portatori asintomatici; a questo punto, non ha dunque più senso cercare il paziente zero».

Ma che vuol dire che «non ha più senso cercare il paziente zero»? Qui, come abbiamo già detto, non interessa la medicina che giustamente non si pone questo problema, bensì l’impensato nascosto nel concetto di “paziente zero”. In questo senso l’impossibilità e anche l’inutilità di trovare quello che più propriamente è opportuno chiamare il “primary case” significa che l’infezione c’era da prima che ce ne accorgessimo (“index case”), cioè che in qualche modo c’è sempre stata. D’altronde lo 0 è un numero intero, e l’insieme ℤ dei numeri interi contiene appunto il numero zero (0), i numeri naturali positivi (1, 2, 3, …) e gli interi negativi (-1, -2, -3, …). Ammesso quindi che il “paziente zero” esista, siccome 0 è un numero intero, allora devono esistere anche il “paziente -1”, e poi il “paziente -2” e così via. Appunto, l’infezione c’era già comunque. Ma questo significa che è la stessa distinzione fra stato normale, non infetto, e stato eccezionale, infetto, ad entrare in crisi.

La vita è questa indistinzione. Peraltro che tutta questa discussione nasca da un virus è particolarmente interessante, perché lo stesso virus per la biologia si trova «in una sorta di limbo tra vivente e non vivente» (Villarreal 2020, p. 3). In effetti il virus sembra fatto apposta per mettere in crisi le nostre distinzioni: da un lato si tratta di una sorta di sacchetto proteico (capside) che contiene materiale genetico, DNA o RNA. Dall’altro un virus può vivere e riprodursi solo infettando una cellula vivente. Quindi contiene l’essenza della vita, il materiale genetico, ma di per sé non è propriamente vivo: tuttavia «i virus sono importanti per la vita: costituiscono il confine in continuo divenire fra la sfera biologica e quella biochimica» (ivi, p. 9). Non sono vivi ma sono essenziali per la vita. Forse non è una caso che un pensiero che si diffonde venga definito “virale”.

Ma che significa, infine, che il “paziente zero” propriamente non esiste? Significa che non c’è alcun inizio assoluto, cioè che l’inizio è già sempre iniziato, come anche che la fine non finisce mai di finire. Per indicare questa condizione Jacques Derrida, un filosofo passato di moda, usava il concetto di “différance”:

Ogni concetto è in via di diritto ed essenzialmente inscritto in una catena o in un sistema all’interno del quale esso rinvia all’altro, agli altri concetti, per gioco sistematico di differenze. Tale gioco, la différance, non è più, allora, semplicemente un concetto ma la possibilità della concettualità, del processo e del sistema concettuale in generale (Derrida 1997, p. 38).

Il pensiero comincia quando il paziente zero non è altro che il transito fra il paziente -1 e il paziente (+)1. Pensare vuole dire non avere paura di quel transito. Al contrario, il “paziente zero” è propriamente il nulla del pensiero. Cioè un pensiero che si limita a cercare un untore, cioè un’entità – possibilmente inesistente – in cui il pensiero si possa finalmente arrestare soddisfatto e compiaciuto di sé.

Riferimenti bibliografici
J. Derrida, “La différance”, in Margini della filosofia, Einaudi, Torino 1997.
J. Giesecke, “Primary and index cases”, The Lancet, 384, 2014.
A. Manzoni, I promessi sposi, Einaudi, Torino 1984.
L.P. Villarreal, “I virus sono vivi?”, Virus, I Quaderni delle Scienze, n. 8, marzo 2020.

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