L’intelligenza non sta dentro le nostre teste. Secondo un ostinato pregiudizio dualistico la mente è una prerogativa solo umana; tutto il resto del mondo, dagli animali passando per le piante fino alle cose, ne è sostanzialmente privo. Un pregiudizio che non smette di essere operativo anche se estendiamo di un po’ i confini del mentale, ad esempio come fanno gli studiosi del comportamento animale, oppure da ultimo i botanici cognitivisti. Il punto è che la mente rimane qualcosa che sta dentro, di cui le cose, invece, sono prive (cosa vuol dire, per la metafisica, un’entità priva di mente). Eppure secondo il Platone del Timeo, «si deve dire che questo mondo è un essere vivente [κόσμον ζῷον], dotato di anima e di intelligenza» (30 C). La mente non sta dentro, la mente, il pensiero, il ragionamento è fuori, nel mondo, direttamente nelle cose. Questa uscita verso il mondo può essere indicata in due modi, solo apparentemente contrapposti: da un lato viene chiamata ontological turn, la svolta ontologica, che supera d’un balzo il dualismo mente/corpo, e segue il pensiero mentre si sparpaglia per il mondo; dall’altro è il ritorno dell’animismo, che da caratteristica della mentalità primitiva (secondo l’antropologia evoluzionistica) diventa una visione del mondo che, come ci dice Platone, lo vede pervaso di intelligenza a tutti i livelli, dalla materia ai droni, passando anche per la materia grigia della neocorteccia.
Questa intelligenza diffusa e non umana è il tema delle Menti parallele di Laura Tripaldi, una chimica filosofa (in effetti se c’è una scienza intrinsecamente filosofica questa è senza dubbio la chimica), un libro che racconta la “nuova” scienza del pensiero “all’interfaccia”. In effetti lo scacco del dualismo mente/corpo, ossia il dualismo interno/esterno, non consiste tanto nel trascinare fuori la mente dal chiuso del cranio, quanto dal proporre un’idea diversa di intelligenza, che nasce dall’incontro fra le cose. La mente è superficiale, fra interno ed esterno appunto: «L’interfaccia, in chimica, è definita proprio come la regione in cui due sostanze, dotate di proprietà chimico-fisiche diverse, si incontrano» (Tripaldi 2020, p. 18). In questo modo il dualismo che contrappone il dentro al fuori (lo spirito alla materia) viene disattivato, e l’intelligenza diventa una proprietà puramente relazionale:
L’idea dell’interfaccia come regione materiale, in cui due sostanze possono mescolarsi producendo un corpo ibrido e completamente nuovo, può essere il punto di partenza per ripensare, più in generale, il nostro rapporto con la materia che ci circonda e davvero tutti i corpi con cui entriamo in relazione si modificano e ci modificano a loro volta, non possiamo più illuderci che la materia sia semplicemente un oggetto passivo su cui proiettiamo la nostra conoscenza. Allo stesso tempo non possiamo nemmeno rifugiarci nell’idea, certamente comoda, che la conoscenza di ciò che non è umano ci sia completamente preclusa: che la materia che ci circonda sia, in fondo, del tutto aliena e inconoscibile, e che non abbia davvero nulla a che fare con noi. Abitando l’interfaccia, abbiamo l’opportunità di ridefinire la conoscenza della materia come un processo creativo e collaborativo a cui ogni materiale partecipa attivamente. Ogni volta che entriamo in relazione con un nuovo materiale, costruiamo uno spazio fisico di interazione reciproca, che modifica il mondo che ci circonda e che ci apre la possibilità di modificarci a nostra volta (ivi, pp. 20-21).
Disattivare la distinzione fra interno ed esterno significa anche disattivare quella fra attivo e passivo. Infatti, se il pensiero nasce solo all’interfaccia, allora «anche i corpi che abbiamo sempre considerato inerti e passivi rivelano una capacità nascosta di intessere una rete di relazioni con noi e con il mondo che li circonda» (ivi, p. 21): e questo significa che le cose non sono mai semplici cose, come vorrebbe la metafisica dualista. In realtà spostare l’intelligenza “all’interfaccia” significa smontare la stessa distinzione metafisica fra cose e non cose, cioè le menti. Se infatti il pensiero si forma solo all’incontro, allora da un lato non c’è più alcuna ragione del privilegio accordato alla mente, dall’altro non c’è nessuna ragione che giustifichi il pregiudizio negativo per le cose. Il mondo non è fatto di entità mentali da un lato e di cose dall’altro: il mondo, cioè il cosmo animato di Platone, è fatto di relazioni intelligenti, a qualunque livello.
Se per molto tempo ha predominato la convinzione che l’essere umano detenesse una sorta di monopolio sull’intelligenza, questo nuovo sguardo scientifico ci ha permesso di scoprire che non soltanto gli animali più vicini a noi, come i mammiferi, ma anche gli organismi invertebrati, le piante e i funghi sono, in realtà, soggetti al centro di un ricchissimo universo percettivo e relazionale, che mette radicalmente in discussione la nostra idea di che cos’è una mente. Molti di questi soggetti possiedono menti orizzontali e delocalizzate: sono capaci di pensare non con un organo specifico, ma con tutto il proprio corpo, se non, addirittura, al di fuori dei confini del loro stesso organismo. Scoprire l’intelligenza dei materiali non è soltanto un esercizio concettuale, volto a estendere la nozione di intelligenza anche al dominio della materia non (strettamente) vivente. Al contrario: investigare queste menti materiali significa soprattutto cercare di trovare la radice comune di tutte le intelligenze nella vitalità intrinseca della materia che le compone (ivi, p. 21).
Ma che cos’è, propriamente, una “intelligenza all’interfaccia”? La melma giallastra che si può vedere qui sopra – si tratta del Physarum polycephalum (un protista, mixomiceto) – a suo modo pensa e ragiona. Il punto da sciogliere è, evidentemente, tutto in quel a suo modo. L’animismo contemporaneo chiede intanto di disgiungere il pensiero da un organo specifico come può essere il cervello di un mammifero, e in più, e forse soprattutto, chiede di superare la distinzione metafisica (in fondo la più spiritualistica che ci sia) fra pensiero e azione. Questa melma pensa-facendo-muovendosi. Il corpo coincide con l’attività del pensiero:
Physarum polycephalum si muove in cerca di cibo espandendosi in modo quasi omogeneo nell’ambiente circostante, per poi ritrarre le parti del proprio corpo che risultano inutili per il suo nutrimento, formando una rete di tubicini giallognoli simili a un bizzarro sistema circolatorio. Quando si ritrae da una superficie, la melma deposita una sostanza che segnala al suo corpo di non espandersi più in quella particolare regione, costruendo una vera e propria memoria spaziale del proprio ambiente. Questa capacità di ricordare ciò che la circonda, anche se in modo non convenzionale, unita alla sua capacità di controllare il flusso del proprio endoplasma sfruttando una struttura proteica simile a quella dei nostri muscoli, permette alla melma policefala di colonizzare il proprio ambiente con un’efficienza molto simile a quella umana pur senza avere un cervello e, probabilmente, senza averne alcuna coscienza. Poiché Physarum non ha occhi o organi di senso propriamente detti, non può coordinare il proprio movimento sulla base di una rappresentazione della realtà che lo circonda. Il suo comportamento intelligente emerge da una moltitudine di meccanismi biochimici semplici che agiscono localmente in ogni parte del suo corpo (ivi, p. 63).
L’esito finale di questa svolta ontologica o animista consiste, ovviamente, nella messa in questione di un’altra distinzione consolidata, quella fra fenomeni viventi e fenomeni puramente materiali. Non si tratta solo di sottolineare come la chimica di base della vita non sia diversa da quella degli aggregati non viventi, quanto piuttosto ridefinire la natura stessa della materia. Il presupposto dualistico, quello che privilegia il soggetto umano rispetto al resto della natura (l’antropocene comincia quando un mammifero dotato di parola si dice “io”), si basa su un’idea della materia come, appunto, semplice materiale inerte in attesa di ricevere una forma. Si tratta invece di cominciare a vedere che questa materia bruta non esiste, o meglio esiste solo nei sogni dualistici dell’antropocentrismo.
In realtà «la materia chimica, organica o inorganica che sia, è attiva e dinamica, capace di formare organizzazioni complesse su diverse scale, di evolversi e di modificare spontaneamente la propria struttura in risposta all’ambiente» (ivi, p. 148). Ma senza la “materia” non ha più senso tracciare una distinzione assoluta fra vita e non vita, e quindi fra vita e morte: «Parole come organico e inorganico hanno perso il loro significato originario, basato su una distinzione metafisica tra vita e non-vita, per trasformarsi in definizioni operative, utili a costruire relazioni, e non barriere, tra gli innumerevoli stati dinamici che la materia può assumere» (ivi, p. 163). Più in generale, questo nuovo animismo pieno di chimica e di biologia, permette anche – ed è forse l’acquisizione teorica più rilevante – di abbracciare una visione del mondo di cui l’umano occupa una posizione importante ma nient’affatto centrale. La vita è intelligente, la materia è intelligente. D’altronde che cosa è il virus se non un’incomprensibile – per noi limitate creature dualistiche – intelligenza non umana?
La lezione più importante che possiamo imparare da questi sistemi è che l’intelligenza emerge dalle relazioni: un insieme di interazioni semplici in una collettività di elementi può far emergere proprietà che le singole componenti del sistema, da sole, non possedevano. L’intelligenza può essere considerata, allora, una proprietà emergente di quei sistemi che abbiamo imparato a chiamare sistemi complessi, in cui una molteplicità di relazioni parallele producono dal basso diverse forme di auto-organizzazione. La parola parallelo, in questo contesto, serve a sottolineare che, all’interno di queste strutture, non esiste un’organizzazione gerarchica precostituita: non c’è nessuna “cabina di comando” che dirige il comportamento delle parti e non esiste un manuale di istruzioni che indica alle singole componenti come organizzarsi le une rispetto alle altre. Quello che è interessante di questa visione dell’intelligenza è che non dipende dalla natura specifica delle componenti che la costituiscono, e per questo è stata osservata trasversalmente in numerosi ambiti diversi: dalla fisica quantistica alla biologia, dalla psicologia all’informatica (ivi, p. 190).
Laura Tripaldi, Menti parallele. Scoprire l’intelligenza dei materiali, Effequ, Firenze 2020.