«Una delle cause principali della malattia filosofica», scrive Wittgenstein nelle Ricerche filosofiche (I, § 593), è «una dieta unilaterale: nutriamo il nostro cervello con un solo tipo di esempi». La filosofia si ammala, si potrebbe dire, quando basa le sue costruzioni teoriche su di un solo esempio, che però viene trattato come un caso esemplare, cioè come un caso che può rappresentare tutti i casi possibili. Una “dieta unilaterale”, pertanto, senza che ce ne accorgiamo conduce ad un radicale impoverimento dell’immaginazione. Siccome mangiamo, ad esempio, solo spaghetti, nemmeno ci viene in mente che esistono anche i rigatoni, gli strozzapreti, i paccheri e così via.
La “dieta unilaterale” della filosofia, una dieta che tranne poche eccezioni è la stessa da millenni, consiste nel vedere il mondo sempre e solo dal punto di vista degli animali, come gatti e cani (questo è un problema nel problema; se la filosofia avesse preso in considerazione animali diversi, una talpa oppure un ragno, sarebbe stata comunque molto diversa), e in particolare l’animale più importante di tutti, l’animale umano. In effetti il filosofo (almeno finora), è un essere umano, una donna o un uomo. È comprensibile (ma non per questo giustificabile), allora, che quasi sempre il filosofo veda il mondo a partire da sé. Ora, il problema non è questo, perché da qualche parte si deve pur cominciare, il problema è che questo punto di partenza diventa anche il punto d’arrivo. Il mondo come lo vede un essere umano diventa il mondo com’è. E così il fatto che il mondo che stiamo descrivendo è il mondo come lo vede, o vorrebbe vederlo, un essere umano viene completamente rimosso. Il nostro mondo, o meglio il mondo del filosofo, diventa il mondo.
Ma che significa vedere il mondo da un punto di vista diverso da quello di un essere umano? Proviamo, quasi solo per gioco, a vedere il mondo così come lo potrebbe vedere una formica con i sui occhi compositi. Quella qui sotto è una simulazione di quello che potrebbe vedere una formica con occhi composti da qualche centinaio di ommatidi (gli occhi elementari che formano l’occhio composto). “Cos’è il mondo?”, si chiede una formica filosofa (tralasciamo il fatto che per le formiche il senso fondamentale in realtà è l’odorato). “Il mondo è nebuloso, senza confini netti fra una cosa e l’altra, tutto sfuma in tutto”. L’ontologia, per una formica, è aerea, mobile, onirica. “Il mondo è come un sogno”, dirà a questo punto un’altra formica, che ha letto Freud, e non teme di mischiare la filosofia con la psicoanalisi (diversamente dai suoi colleghi umani, che invece pensano che il mondo sia fatto di compartimenti separati, e che la filosofia non abbia nulla a che fare con l’entomologia, e tanto meno con la psicoanalisi). La stessa distinzione fra sopra e sotto, fra terra e cielo, per una formica finisce per svanire, perché al suo sguardo tutto, in un certo senso, è sopra, perché la formica di fatto coincide con la terra (vive anche dentro la terra). Ma se tutto è sopra, se non c’è un sotto da contrapporle, allora non c’è nemmeno un sopra (quella di Deleuze, detto di passaggio, è una filosofia che una formica filosofa potrebbe apprezzare). Un’ontologia completamente diversa da quella umana, ma pur sempre un’ontologia.
Ma che succede se proviamo a introdurre nella nostra dieta filosofica non solo le formiche, ma anche le piante? Già la stessa domanda, “come vede il mondo un cespo di insalata?”, sembra fuori luogo, se non ridicola. Le piante non hanno occhi, non vedono nulla, l’insalata sta lì nell’orto, finché qualcuno non la tagliuzza e la condisce con olio e aceto oppure una lumaca ne mastica un bordo. “Qui non c’è niente di filosofico”, diranno insieme e soddisfatti il filosofo umano e la filosofa formica, che possono concordare (da animali) in un comune disprezzo verso il mondo vegetale. Il libro di Emanuele Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza (2018), invece, mostra ancora una volta che la filosofia può cominciare solo quando il filosofo interrompe la sua “dieta unilaterale”, e si permette uno sguardo letteralmente inumano sul mondo.
Coccia, in questo libro, rovescia completamente la prospettiva usuale, e prova a vedere il mondo dal (peraltro cieco) punto di vista della vita vegetale. La metafisica, cioè la filosofia più ambiziosa che ci sia, per Coccia non comincia con l’antropologia, e tantomeno con la zoologia, comincia piuttosto con la botanica. Prima di capire che cambiamento comporti questo radicale cambio di prospettiva, torniamo però ancora una volta alla questione della “dieta unilaterale”, cioè alla “malattia filosofica”. In realtà questa dieta nociva è proprio la dieta che, invece, viene oggi raccomandata, in particolare nei dipartimenti universitari; dove da un lato si fa un gran parlare di interdisciplinarità e commistione dei saperi, dall’altro, però, si vede con sospetto se non disprezzo ogni tentativo di praticarla davvero. Coccia (che, prima di dedicarsi alla filosofia, ha studiato in un istituto tecnico agrario), nelle pagine finali del suo libro descrive con estrema efficacia questa malattia, che ha il nome tecnico di “specialismo”:
«Come ogni forma di disciplina, questa etichetta ha anche una natura, e soprattutto, uno scopo specificamente morali e non gnoseologici: serve a limitare la volontà di sapere, a punire gli eccessi, a imbrigliarli non dall’esterno, ma dall’interno del soggetto. Ciò che chiamiamo specialismo comporta un lavoro su di sé, un’educazione cognitiva e sentimentale nascosta o, molto spesso, dimenticata e repressa. Questa ascesi cognitiva non è per nulla naturale: al contrario, è il risultato instabile e incerto di lunghi e faticosi sforzi, il frutto avvelenato di un esercizio spirituale praticato su di sé, di una castrazione prolungata della propria curiosità» (p. 141).
Ma perché lo specialismo è una malattia, più propriamente un’infezione che quando contagia la filosofia rischia di scatenare una malattia mortale? Perché, così come sa chiunque abbia osservato anche distrattamente un giardino lasciato a sé, «le cose e le idee sono molto meno disciplinate degli uomini: si mescolano le une alle altre senza curarsi di proibizioni ed etichette; circolano liberamente senza attendere l’autorizzazione […]; si strutturano secondo forme e forze che non corrispondono mai a quelle che fabbricano il corpo sociale» (p. 143). Proviamo a trasformare questa affermazione (di puro buon senso) in una massima per il (futuro) filosofo: se vuoi essere un filosofo, non devi praticare una “dieta unilaterale”. Mangia di tutto, permetti alla curiosità di curiosare, come un cane che gironzola annusando le ruote delle macchine parcheggiate, o un’edera che si arrampica su un lampione di periferia.
Partire dalla botanica, cioè dalla vita delle piante, significa immaginare una metafisica non basata sulle distinzioni e le discipline, sulle distinzioni e i confini stabiliti da un decreto ministeriale; significa una metafisica basata sulla “mescolanza”. Perché le piante sono questa stessa mescolanza. Una metafisica botanica prende sul serio la mescolanza. Una mossa che di colpo mostra la parzialità, se non la meschinità, delle categorie su cui abbiamo finora basato la nostra immagine del mondo. Si parte, allora, da una constatazione elementare, contadina, terra terra: «il nostro mondo è un fatto vegetale, prima di essere un fatto animale» (p. 18). Si tratta semplicemente di prendere sul serio questa constatazione. La filosofia, da Cartesio in poi, comincia (senza nemmeno accorgersi di questa mossa antropomorfica e antropocentrica) con l’animale umano, l’animale che dice di sé “cogito, ergo sum”; la filosofia comincia allora con la coscienza.
Ma il mondo, non solo non è principalmente umano, non è nemmeno principalmente animale, il mondo è soprattutto – in senso quantitativo e filogenetico – vegetale. Al principio non c’è il verbum, piuttosto in principium erat acetaria. Tutto comincia con l’insalata (ma forse prima ancora con le carote). E come sta al mondo una pianta? Le piante, diversamente dagli animali (umani e non), non fanno qualcosa al mondo – istituendo così il più radicale e inestirpabile dei dualismi metafisici, quello fra oggetto e soggetto – le piante «coincidono con le forme che inventano; per loro tutte le forme sono declinazioni dell’essere, e non del fare o dell’agire» (p. 23). Un cespo di insalata produce una forma, ma questa forma non si contrappone al mondo, come la diga del castoro al fiume che blocca o lo Space Shuttle rispetto all’atmosfera; la forma dell’insalata è il mondo sotto forma di insalata. Non c’è nessun dualismo, nessuna gerarchia, nessun soggetto contrapposto ad un oggetto. L’unitarietà dell’essere non viene minacciata (d’altronde le piante sono tenaci e miti, si accontentano senza fare storie del posto in cui sono capitate, soleggiato o no, umido o sassoso): «ai paradossi della coscienza, che rappresenta le forme solo a condizione di distinguerle da sé e dalla realtà di cui esse sono i modelli, la pianta oppone l’intimità assoluta fra soggetto, materia e immaginazione: immaginare è sempre diventare ciò che si immagina» (p. 23).
Coccia ci parla di piante (con una competenza specialistica che è raro trovare in un filosofo; alla filosofia fa sempre bene uscire dalla filosofia), ma allo stesso tempo delinea i contorni di una metafisica alternativa rispetto a quella incentrata sull’animale e in particolare su Homo sapiens. Oltre alla categoria della “mescolanza” l’altro concetto fondamentale di questo libro è quello di “respiro”. Le piante respirano, cioè le piante sono il caso più evidente (al punto che sempre di nuovo ce ne dimentichiamo, perché è troppo doloroso vedere chi vive in un modo così radicalmente diverso dal nostro), di entità naturali letteralmente fatte solo di aria, cioè di spirito. Più propriamente le piante trasformano la luce del sole nella vita della terra. Senza le piante non ci sarebbe ossigeno, e tutto quello che ne segue (senza insalata non c’è nemmeno il filosofo): «le piante sono il respiro di tutti gli esseri viventi, il mondo in quanto respiro» (p. 68). Ma essere respiro significa essere scambio, transito, passaggio: «la foglia – che è il corpo del respiro delle piante – è la forma paradigmatica dell’apertura: la vita capace di essere attraversata dal mondo senza esserne distrutta» (p. 39). Nel respiro la pianta è mondo attraversato dal mondo, è essere che lascia trascorrere l’essere.
Coccia usa anche un’altra espressione, per delineare questo dono metafisico delle piante, “immersione”. In questo caso lo stesso Coccia si permette, per una volta, un’analogia animale, benché non del solito animale filosofico, il gatto (pensiamo a Derrida), bensì del pesce, che in fondo vive nell’acqua come una pianta nel mondo: «l’essere-nel-mondo di ogni vivente dovrebbe essere compreso a partire dall’esperienza del mondo del pesce. Questo essere-nel-mondo, che è dunque anche il nostro, è sempre un essere-nel-mare-del-mondo. È una forma di immersione» (p. 45). Essere immerso significa che il nostro essere non si contrappone del mondo, così come la forma del pesce non è che il calco mobile del mare attraverso cui si sposta. Coccia non ne parla, ma un uccello in fondo è il pesce del cielo (forse per questo il pesce volante era così amato da Nietzsche). “Immersione” come modello del puro stare al mondo, senza oggetto né soggetto, immanenza e trascendenza, attività e passività: «il mondo per un essere immerso – il mondo dell’immersione – non contiene […] propriamente parlando, dei veri oggetti. In esso tutto è fluido, tutto esiste in movimento, con, contro o nel soggetto. Tutto si definisce come elemento o flusso che si avvicina, si allontana o accompagna il vivente, a sua volta flusso o parte di un flusso. Si tratta, letteralmente, di un universo senza cose, di un enorme campo di eventi a intensità variabile» (pp. 45-46).
Ma cos’è un mondo “senza cose”? La risposta è semplice, una risposta in cui la botanica trapassa (la mescolanza) immediatamente nell’etica (e forse anche nella teologia): è un mondo inappropriabile. Se non ci sono cose non può nemmeno esserci un proprietario (che è quella cosa che possiede delle cose), e tantomeno la cosa posseduta. Il comunismo non è rosso (che è il colore del sangue animale), il comunismo è verde. E come si vive, quando si vive nel mondo così come ci vive una pianta? Come un pesce, ci dice Coccia, ma l’immagine migliore non è nemmeno questa: «se l’essere-nel-mondo è immersione, pensare e agire, operare e respirare, muoversi, creare, sentire saranno inseparabili: un essere immerso infatti si relaziona al mondo non più come un soggetto si rapporta a un oggetto, ma come una medusa vive nel, con e attraverso il mare, che le permette di essere ciò che è. Non c’è alcuna distinzione materiale tra noi e il resto del mondo» (p. 46). La medusa non è che acqua immersa nell’acqua, senza per questo smettere di essere comunque qualcosa, nel flusso del mare. La medusa è un flusso che temporaneamente si è raccolto in una specie di gorgo animato, un gorgo che come tutti i gorghi prima o poi torna al mare, al flusso della vita: «in questo mondo tutto è in tutto. L’acqua di cui il mare è costituito non è semplicemente di fronte al pesce-soggetto, ma è in lui, nell’atto di attraversarlo, di uscirne» (p. 46).
Rimane solo un passo, dal respiro all’acqua, dall’immersione alla compenetrazione, e siamo nella musica. Qui riecheggia il “divenire-musica” deleuziano, cioè quell’esperienza di radicale partecipazione che annulla i dualismi della metafisica animale: «quello del mondo come immersione sembrerebbe un modello cosmologico surreale, eppure ne facciamo esperienza più spesso di quanto immaginiamo. In effetti, viviamo l’esperienza del pesce ogni volta che ascoltiamo musica» (p. 46). La musica non è là mentre noi saremmo qui; la musica, come l’acqua, è un solvente metafisico che scioglie ogni dualismo, e ci riporta alla condizione del pesce nell’acqua, della medusa fatta d’acqua, delle foglia che è aria. È impensabile, una metafisica verde, perché la metafisica animale, la nostra metafisica, al contrario non fa che distinguere il soggetto dagli oggetti, l’umano dalla bestia, l’agente dalla cosa prodotta, il proprietario da ciò che possiede. Eppure la metafisica verde è l’unica metafisica che ci resta da pensare.
La sfida della filosofia che viene, cioè della filosofia che parte dal respiro delle piante, è la sfida di un pensiero che pensi il proprio stesso congedo come pensiero delle distinzioni e delle classificazioni, pensiero linguistico e quindi giuridico, pensiero biopolitico (la biopolitica, come intravvede l’ultimo Foucault, è coestensiva al pensiero umano, cioè al pensiero dell’animale che parla): «l’immersione è, prima di tutto, un’azione di compenetrazione reciproca fra soggetto e ambiente, tra corpo e spazio, fra vita e milieu. Essere immersi significa trovarsi nell’impossibilità di distinguerli fisicamente e spazialmente: perché vi sia immersione, soggetto e ambiente devono penetrarsi attivamente l’un l’altro» (p. 53). Ma questo significa, infine, che in questo mare della vita si perde ogni traccia individuale? La medusa non è una persona, ma non smette di essere una medusa: «se le cose formano un mondo, è perché si mescolano senza perdere la loro identità» (p. 66).
Riferimenti bibliografici
E. Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza, Il Mulino, Bologna 2018.
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino 2009.