Prima del virus (d’ora in poi l’unità di misura temporale sarà divisa in PV e DV) l’emergenza era ambientale. Era il tempo dell’Antropocene, cioè l’epoca (citiamo dall’Enciclopedia online Treccani) «in cui l’ambiente terrestre, nell’insieme delle sue caratteristiche fisiche, chimiche e biologiche, viene fortemente condizionato su scala sia locale sia globale dagli effetti dell’azione umana, con particolare riferimento all’aumento delle concentrazioni di CO2 e CH4 nell’atmosfera». Ora ovviamente siamo ancora nell’Antropocene, perché il tempo delle ere geologiche è scandito dai milioni di anni, eppure è come se ne fossimo giù usciti. Non nel senso, ad esempio, che l’inquinamento in Cina e nelle altre zone del mondo che si sono fermate per contenere l’epidemia (come nella pianura padana) sia diminuito. Perché è vero, è diminuito, ma tutti lo sappiamo e a questo punto anche lo speriamo (ci dispiace Greta, ma non vediamo l’ora di tornare allo smog e al consumismo) che presto l’aria tornerà puzzolente e inquinata.
Quello che sta succedendo, e credo che stia succedendo in tutte le parti del mondo in cui, come oggi a Roma in questo pomeriggio domenicale di una splendida giornata primaverile, tutto è fermo e silenzioso per bloccare la diffusione del virus, è che gli animali hanno preso il nostro posto. Semplicemente. Questa mattina sul presto, in un silenzio simile a quello di una jungla poco prima dell’alba, si sentivano solo le grida sgraziate delle cornacchie. Erano tante, sono sempre state tante, solo che prima non si potevano sentire, sovrastate com’erano dai mille e cari e confortevoli rumori della città. Ci si accorge allora degli animali, animali di città, di cui tanto si parla e si scrive (ad esempio il libro di Roberto Marchesini, Animali di città), ma proprio perché se ne parla nessuno veramente li vedeva. Ecco, ora si sentono, si sentono solo le loro voci.
Ci sono le cornacchie, ma naturalmente non ci sono solo loro. In casa da qualche giorno si sente improvvisamente il ronzio di qualche mosca, che vola stordita verso le finestre, attratta dalla luce del sole. Dov’erano queste mosche? Forse c’era qualche uovo nascosto fra i libri più alto nella libreria? Non lo so, ovviamente non è importante, è che ora in questo silenzio inumano quel ronzio è fortissimo. C’è sempre stato, eppure è come se fosse la prima volta che lo si può ascoltare. Le mosche, le cornacchie.
Qui vicino c’è una grande villa, piena di alberi e prati, chiusa agli umani da un’ordinanza comunale. Non ci sono umani nella villa. Un divieto che non vale per gli animali. Da molti anni la villa è stata colonizzata (mentre Homo sapiens pensa di colonizzare Marte il parrocchetto del collare – Psittacula krameri – colonizza Villa Doria Pamphilj) da dei pappagalli verdi, che sfrecciano fra le palazzine del quartiere in piccoli stormi urlanti. Sono velocissime fantastiche apparizioni iridescenti. Si sono sempre sentiti, per la verità, ma ora si sentono di più. Ieri ce n’era un gruppetto rumorosissimo fra i rami di un ligustro (Ligustrum ovalifolium); sotto il povero alberello (con molti rami secchi) si era radunato un piccolo gruppo di umani (rispettando le distanze di sicurezza), ma quelli non se ne sono minimamente preoccupati. L’albero, la via, la città, non sanno che sia il Covid-19. Anche perché in fondo il Coronavirus non si comporta molto diversamente da loro; si sposta dove trova spazio, dove c’è vita da colonizzare e da prendere.
A Roma, in questi giorni, si sentono solo loro, gli animali. Ma gli animali ci sono sempre stati, è questo il punto, solo che ora è evidente che ci sono: i delicati richiami dei piccioni (ce n’è uno proprio ora, mentre scrivo queste righe, che si muove sulla ringhiera del balcone del mio studio, mi fissa senza paura), i gatti in amore (l’estro è indifferente alla pandemia), i cani che abbaiano la notte. Lo hanno sempre fatto, ma ora si sentono di più, forse se ne sono accorti anche loro, c’è più spazio “sonoro” per il loro abbaiare che arriva più lontano del solito; in effetti non c’è nulla che ne ostacoli la propagazione (siamo sempre lì, contagio, diffusione, spillover). E poi ci sono i gabbiani, i veri nuovi padroni della città. Anche loro sono in città da molti anni, ma anche per loro vale che ora si vedono di più. Ad esempio sui terrazzi condominiali, ora che anche gli umani vi si avventurano per stare all’aria aperta, ebbene succede spesso che lassù si trovino faccia a faccia, letteralmente, con qualche gabbiano che non gradisce affatto che lo si disturbi nel suo territorio.
Il virus, allora, ci dice che l’Antropocene è finito (in realtà non è mai nemmeno cominciato). È finito nel senso che finalmente possiamo smettere di pensarci come quelli che, nel bene e nel male, controllano il mondo, lo inquinano e lo salvano, lo amano e lo sfruttano, lo depredano e lo venerano. Non siamo il centro del mondo, non lo siamo mai stati. Il mondo, come il gabbiano qui sotto, non sa nulla di noi e delle nostre preoccupazioni. Il mondo non sa nemmeno che gli abbiamo dato un nome, come l’abbiamo dato al virus che ci sta facendo morire e impazzire, Covid-19. Le nostre parole non possono nulla contro il mondo.
Ce n’è una controprova, infine. Nel silenzio animale delle nostre città anche le voci degli uomini smettono di essere voci linguistiche. Nel vuoto delle strade si sente qualche voce umana, indistinta e come timorosa, perché tutto questo silenzio ci fa diventare discreti, come i topi che corrono via costeggiando un muro. Una voce così remota e misteriosa che, come il miagolio è l’incomprensibile verso dei gatti, così il parlare non è altro che il verso borbottante degli animali umani. Il linguaggio non parla più. L’Antropocene è finito.
Riferimenti bibliografici
R. Marchesini, Animali di città, Red Edizioni, Milano 1997.