He can neither believe,
nor be comfortable in his unbelief.
Nathaniel Hawthorne su Melville

Un grande romanzo può avere una storia banale ma non un personaggio insignificante. Il personaggio deve costituire un rilievo. Melville chiama – in L’uomo di fiducia – questi personaggi “originali”, analoghi ai “fondatori di una nuova religione”, capaci di dare inizio al mondo. Nessun grande romanzo può farne a meno. Neanche i suoi, soprattutto i suoi. Achab, Pierre, Billy Budd, e in primo luogo Bartleby (protagonista del racconto forse più bello che sia mai stato scritto) lo sono. Spesso il personaggio dà il nome al romanzo stesso. E non solo quelli di Melville, ma anche Don Chisciotte, Madame Bovary, Anna Karenina.

Se il romanzo è in primis invenzione del personaggio è perché questo, sottratto alla storia, diviene intercessore dell’autore, della sua visione estetica ed etica del mondo. Se il personaggio “originale”, come una «lampada Drummond girevole» (Melville 2014, p. 244), illumina il mondo, ciò significa che ciò che viene raccontato deriva da lui. All’opposto dei generi classici, dove il personaggio è il precipitato dell’intreccio (Edipo è la sua storia). Un mondo e un personaggio che derivano da un intreccio, e dunque da un’azione raccontata, possono ambire ad essere verosimili. Nulla più. Era l’idea aristotelica.

Ma il romanzo, soprattutto americano, disfa tutto questo. Taglia i ponti con l’aristotelismo (che resta solo nelle maldestre scuole di sceneggiatura). Nessuna importanza ha la verosimiglianza. Ciò che conta è la verità dell’espressione. Verità che è dell’ordine del divenire, di una processualità che la scrittura romanzesca stessa istituisce: «Scrivere è una questione di divenire […]. È un processo, ossia un passaggio di Vita che attraversa il vivibile e il vissuto» (Deleuze 1997, p. 13).

Questa espressione necessita di personaggi intercessori, la cui originalità coincide con la loro malattia (mania o psicosi), cioè con la loro incapacità di modificare con un’azione efficace la situazione. In Melville non è in gioco che questo. Il personaggio “originale” o si rifiuta di agire (Bartleby) o la sua azione è eccessiva (Achab), misteriosa e ambigua (Pierre), paralizzata dalla sua innocenza (Billy Budd). La formula in Bartlebly (“I would prefer not to”), la caccia ossessiva di Achab, la scrittura di Pierre, la balbuzie di Billy Budd, sono i vari segni che inceppano l’azione, disfano l’ordine mimetico e liberano un divenire del personaggio, che viene destituito della sua posizione e della sua funzione sociale (scrivano, capitano, promesso sposo o marinaio) e psicologica (proiezioni e identificazioni).

La verità dell’espressione di Melville e della grande narrativa americana ci dice che la linea di fuga percorsa è in primo luogo fuga da se stessi. Lawrence, in pagine giustamente famose, lo dice chiaramente: «Away from what? In the long run, away from themselves» (Lawrence 2003, p. 15). Via dalle proprie origini, dall’eredità europea, lontani dalla funzione paterna: «I libri eccellenti dovrebbero essere tutti dei trovatelli, senza padre né madre» (Melville, in Hawthorne 2006, p. 1085). Liberare la potenza dell’espressione per sottrarsi al potere della rappresentazione. Disfare l’origine, metterla in movimento, renderla processo: creare una zona di indiscernibilità e di indifferenziazione tra il soggetto e il mondo. Perché fare questo significa liberare la vita dalle trappole del “vissuto” (era l’idea di Deleuze) e dell’esperienza. A meno di non riportare quest’ultima sotto i tratti di una “esperienza pura”, di quell’«empirismo radicale» di cui parla William James, che ha al centro le relazioni «congiuntive», e la più congiuntiva di tutte che è il cambiamento come «transizione continua» (James 2009, p. 29).

Cambiare, dunque, entrare in un movimento inarrestabile. C’è tutta una geografia melvilliana, ma che non prevede l’Ovest. Nessuna terra dell’oro (al massimo un pellegrinaggio in Terrasanta, come in Clarel), semmai una deriva nello “spazio liscio” del mare. Ma c’è anche tutto un cromatismo che aspira, che attiva il processo di deriva. È il bianco, che va dalla giacca bianca che identifica nel romanzo omonimo il narratore («Beh, non era una giacca bianca bianca, ma, in tutta coscienza, abbastanza bianca lo era», Melville 2016, p. 15), al biancore elusivo e spettrale di Moby Dick, che aspira il soggetto: «Questa elusiva qualità fa sì che il pensiero del bianco, quand’esso […] sia accoppiato con un qualunque oggetto in se stesso terribile, accresca questo terrore fino all’estremo limite. Testimoni, l’orso bianco polare e il pescecane bianco dei tropici», Melville 1987, p. 219).

Il soggetto nel suo divenire viene destituito di se stesso, del proprio controllo, della propria coscienza. E assume una “personalità”: «Nel mezzo dell’impersonale personificato si drizza qui una personalità» (ivi, p. 524). Distinta dal carattere. Se quest’ultimo identifica il contrarsi di abitudini e una disposizione (prevedibile) all’azione, la personalità è – come dice Harold Bloom (2016) – «il trascinamento del soggetto sotto la spinta di una forza che lo eccede». La “personalità” è tale perché trascinata, esposta al fuori, in una condizione di passività che la colloca in un divenire senza più controllo: «È Achab, Achab? Sono io, Signore, che sollevo questo braccio, o chi è?» (Melville 1987, p. 558).

Da dove si parte per divenire? Dalle “identificazioni” che paralizzano il soggetto, gli tolgono la possibilità di incontrare la vita, lo assorbono conducendolo al riconoscimento di “particolarità” comuni, con gli avi e con i contemporanei. È Pierre, che parte dalle somiglianze con la madre («fra loro c’era una somiglianza sorprendente», Melville 2015, p. 19) e dai ritratti del padre («il ritratto è più degno di rispetto dell’uomo», ivi, p. 282), per passare dal volto di Isabel, dal suo primo piano-volto, dove l’idealità si fa enigmatica e dove inizia la creazione di una zona di indifferenziazione con la sorella-amante. Enigma che riconosce la fidanzata Lucy: «Dimmi la storia di quel volto, di quel volto dagli occhi neri, luminoso, implorante […]. Qualche volta ho pensato che non avrei sposato il mio carissimo Pierre, fino a che l’enigma di quel volto non fosse stato svelato» (ivi, p. 53). Quel volto disfa tutto questo, il progetto ideale di vita, il contesto bucolico d’origine, il fidanzamento, ed apre ad un movimento di indeterminazione, che è allo stesso tempo deriva urbana, perdita di tutto (dell’eredità materiale e simbolica), anche dell’identità sessuale. E le “Ambiguites” del titolo sono le tante che segnano la perdita di “particolarità” e le zone di prossimità tra personaggi e mondo.

Deleuze nel suo splendido testo su Melville riconosce che questa assenza di “particolarità” (quella a cui rimanda lo stesso Bartleby) è la condizione per la costituzione dell’uomo americano, dell’uomo democratico, della fratellanza universale, sotto ogni maschera, ruolo sociale, vissuto, profilo psicologico, carattere. La potenza della grande letteratura americana sta in questo, nell’essere espressione di questa fratellanza e della comunità in quanto comunità di incontro (con i continui tentativi di minarla):

L’augusta dignità di cui parlo non è la dignità dei re e degli abbigliamenti, ma quella traboccante dignità che non ha investitura di drappi. La potrete vedere risplendere nel braccio che vibra una picca o che pianta una caviglia: quella democratica dignità che, su tutti, irradia senza fine da Dio, da Lui! Il grande Dio assoluto! Il centro e la circonferenza di ogni democrazia! (Melville 1987, p. 147).

La circonferenza democratica contro ogni piramide gerarchica è sempre da costituire, nuovamente da fondare, definisce sempre un continuo movimento che porta non a dire che nonostante le differenze siamo “uguali”, ma che lo siamo proprio per quelle differenze. Solo attraverso l’incontro tra eterogenei percepiamo una “comune umanità”. E in questo il tratto nazionale di una letteratura e di un’arte sconfessa ogni nazionalismo: «Non si può versare una sola goccia di sangue americano senza versare il sangue del mondo intero […]. Più che una nazione siamo un mondo» (Melville 1983, p. 185). Esprimere una comunità a venire, la forza vitale di una “comune umanità” è stato il compito della grande letteratura americana di metà Ottocento. E questa invenzione è passata per una forma (shape) che ha saputo plasmarsi e plasmare creativamente il mondo, sottraendosi ad ogni prevedibile staticità mimetica (form).

Mettere in movimento il mondo, destituirlo della sua solidità, rendendolo liquido, o soggetto ad uno sguardo in movimento. Il primo-piano volto è solo un passaggio del disfacimento dell’idealità del ritratto, ma poi bisogna giungere ai movimenti della “modernità”, quelli che coniugano continuità e contingenza. Non tanto i tagli del montaggio alternato di Dickens dunque (che Griffith e il cinema classico hanno saputo riprendere), quanto i movimenti di macchina continui: «Sono le due grandi Figure originali che si ritrovano dappertutto in Melville, Panoramica e Carrellata, processo stazionario e velocità infinita» (Deleuze 1997, p. 111). Sono le grandi figure del cinema moderno, di cui Welles, il più melvilliano dei registi (e non solo per il “Rosebud” di Moby Dick e per la originale riduzione teatrale che fa di quest’ultimo testo nel 1955), è stato il massimo interprete.

Alla Panoramica e alla Carrellata forse va aggiunta una terza Figura, il Paesaggio. Che integra e guida le prime due. Nei dieci frammenti che compongono Le Encantadas, le complesse costruzioni dei grandi romanzi melvilliani scompaiono, rimangono gli sketches che tracciano dell’arcipelago delle Galapagos un paesaggio dell’anima. Nel movimento laterale da un’isola all’altra, da una storia all’altra, si inscrive il punto di vista panoramico dall’alto: «Salire su un’alta torre di roccia non è solo una bellissima cosa in sé, ma è il modo migliore per giungere ad una visione panoramica della regione circostante» (Melville 2010, p. 73).

L’adozione di due punti di vista (in movimento e statico) nella restituzione frammentaria di un arcipelago e la trasformazione di ogni isola in set di piccole storie avventurose trovano come cornice un paesaggio apocalittico, dove genesi e fine coincidono. Non più ritratti, né volti, né personaggi “originali”, ma un paesaggio arido e apocalittico come inizio e fine di tutto, come ultimo divenire che non consente più cambiamento alcuno: «Ma la speciale maledizione delle Encantadas […] è che niente cambia; non cambiano né le stagioni né le afflizioni» (ivi, p. 58).

E nell’ultimo sketch finisce come inizia, con un’immagine di morte, un epitaffio: «Sono qui – sepolto tra le ceneri!» (ivi, p. 147). L’isola deserta dove la fine coincide con l’inizio è l’arresto del grande patchwork americano, di un divenire dove la linea di fuga dall’Europa diventa la linea di fuga dall’America stessa («Le Encantadas diventano un volontario nascondiglio per ogni sorta di rifugiati», ivi, p. 144). E come la linea di fuga cercata può sconfinare in quella di morte.

La contemporaneità di Melville è pari alla sua inattualità. Se l’attualità è di chi del presente condivide ideologie e dispositivi asserventi (nel loro reciproco sostenersi), la contemporaneità è di chi, apparentemente ritraendosi, indica la strada. Melville rimarrà molti anni in silenzio, come il suo Bartleby, ma ci ha detto con impari forza in un momento d’oro della letteratura americana che il confine tra l’invenzione della comunità a venire e la sua dissoluzione è labile; che il patchwork è sempre sul punto di lacerarsi; che il soggetto senza “particolarità” può molto spesso trasformare la sua fuga in morte. Ma non c’è alternativa a percorrere tale via, se non rinunciare ad incontrare la forza della vita, la sua verità. Ma “Che cos’è la verità?” si chiede Melville alla fine del suo diario europeo. Quale che sia la “verità”, essa non è scindibile dalle tante maschere che la travisano e la nascondono, cioè la “falsificano”.

E il «Questa Mascherata potrà avere un seguito» – frase che chiude L’uomo di fiducia, ultimo romanzo pubblicato in vita da Melville – non significa altro che ogni “mascherata” non potrà che avere un seguito. L’alternativa tra verità e falsità (come adeguamento allo stato di cose) deve essere superata dalla verità del divenire, inscindibile dalla potenza dell’espressione e dalla creazione, cioè dalla verità a-venire: di un soggetto, di un popolo, di una nazione, dell’umanità intera.

Riferimenti bibliografici
H. Bloom, Il canone americano. Lo spirito creativo e la grande letteratura, Rizzoli, Milano 2016.
G. Deleuze, Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1997.
W. James, Saggi di empirismo radicale, a cura di S. Franzese, Quodlibet, Macerata 2009.
D.H. Lawrence, Studies in Classical American Literature, Cambridge University Press, Cambridge 2003.
H. Melville, Redburn, White-Jacket, Moby-Dick, Library of America, New York 1983.
Id., Moby Dick o la Balena, Adelphi, Milano 1987.
Id., Hawthorne e i suoi muschi, in N. Hawthorne, Tutti i racconti, a cura di S. Antonelli e I. Tattoni, Donzelli, Roma 2006.
Id., Le Encantadas o Isole Incantate, a cura di C. Spila, Manni, Lecce 2010.
Id., L’uomo di fiducia, a cura di S. Perosa, Feltrinelli, Roma 1984.
Id., Pierre o le ambiguità, a cura di V. Fidomanzo, Medusa, Milano 2015.
Id., Giacca bianca, Mattioli, Fidenza 2016.

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