Dalla fondazione dei Fasci di combattimento, il 23 marzo 1919, alla rivendicazione, con il discorso parlamentare del 3 gennaio 1925, degli atti di violenza perpetrati negli anni e culminati con l’omicidio dell’onorevole Giacomo Matteotti. A guidarci è Benito Mussolini stesso (Luca Marinelli) che ora agisce sulla scena e ora si rivolge a noi spettatori, in un meccanismo capace di creare tanto complicità quanto distanza. Stiamo parlando degli otto episodi della serie M. Il figlio del secolo, diretta da Joe Wright, sceneggiata da Stefano Bises e Davide Serino, e ispirata all’omonimo romanzo di Antonio Scurati. Un progetto molto atteso e tuttavia capace di sorprendere quanti hanno avuto l’occasione di vederlo in anteprima durante l’81ª edizione della Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia.

Come nell’opera di Scurati, anche qui il fascismo è restituito in quanto fenomeno strutturalmente violento, di una violenza radicata nell’orizzonte storico, politico e culturale del Primo dopoguerra. Contro un’interpretazione del fascismo in quanto movimento che avrebbe mostrato la propria brutalità soltanto dopo (con le leggi razziali o l’ingresso in guerra), la serie concepisce un Mussolini capace di intercettare la delusione, il dissenso e la condizione traumatica dei reduci della Prima guerra mondiale – in quanto “vittoria mutilata” – con finalità di destabilizzare il sistema sociale e politico oppure, opportunisticamente, di ristabilizzarlo. Da quelle che possono sembrare come delle semplici risse da taverna, nella Milano degli anni dieci, al ruolo di banda armata al servizio delle classi dirigenti, svolto durante il biennio rosso; dalla marcia su Roma fino alla ferocia dell’assassinio di Matteotti, protagonista della serie è la violenza e la catena di chi se ne serve. Dal primo all’ultimo episodio, siamo dunque immersi in una pozza scura, fatta d’inchiostro e di sangue, dalla quale non si vede spiraglio: costretti a fare i conti con il carattere rivoltante della storia, con una visione del mondo che eleva la meschinità a grandezza, con una gestualità coincidente con la meccanica del manganello, con l’idraulica dell’olio di ricino.

Nel tentativo di descrivere la serie, qualcuno ha esaltato il carattere per così dire antintellettualistico di una narrazione adrenalinica o, comunque, scandita dal principio di azione. Nel tentativo di fare i conti con una tessitura audiovisiva particolarmente complessa – che, a tratti, può ricordare Il divo (2008) di Paolo Sorrentino o, in alcuni passaggi, Jackie (2016) di Pablo Larraín, entrambi co-produttori della serie di Wright – altri hanno parlato di tono postmoderno. Quanto rischia tuttavia di sfuggire attraverso il ricorso a tali etichette è l’originalità e raffinatezza di un racconto del periodo tra gli anni dieci e gli anni venti del Novecento che si misura con le forme mediatiche ed espressive dell’epoca, nel tentativo di riconcepire il discorso storico come un’archeologia dei media. La composizione intermediale e l’immagine stessa di Mussolini non sono del resto comprensibili se non in riferimento a una serie di dispositivi tecnologici e drammaturgici eminentemente novecenteschi.

Se la sequenza di apertura propone un rimontaggio di immagini d’archivio del Ventennio, il racconto degli otto episodi si struttura interamente attraverso la messa in scena finzionale. Per chi ha in mente Vincere (2009) di Marco Bellocchio – al quale Wright sembra rendere omaggio in almeno due occasioni: l’incipit, con la ripresa di immagini da Stramilano (1929), usate anche da Bellocchio nei titoli di testa, e le sequenze dedicate al personaggio di Ida Dalser – M. Il figlio del secolo non fa ricorso a “prelievi” da archivi cinematografici dell’epoca. Piuttosto, in tutti gli episodi, assistiamo a una serie di “inserti”, ovvero a un continuo gioco con i formati dell’immagine, dove i personaggi di finzione sono come elevati – anche soltanto immaginativamente, nella continua smania del potere – al rango di documenti storici. In molti casi, il carattere intermediale del film si sviluppa al livello scenografico, attraverso l’incastonarsi di immagini, l’una nell’altra (i finestrini dei treni e delle autovetture, sistematicamente trasformati in schermi; la sequenza vaticana, ultra-pop, con fondali caravaggeschi) che assegnano allo spazio un carattere frattale. Il montaggio stabilisce dunque collegamenti e rime tra il processo di tecnologizzazione del Paese nel corso degli anni venti e la meccanizzazione dei corpi, delle espressioni e dei gesti, fino a quando quest’ultimi non perdono la propria elasticità e il volto diventa una maschera e gli arti una protesi.

Per dirla in poche parole, quanto sorprende di questa serie, è l’idea di riconcepire l’estetica intermediale – fulcro della sperimentazione cinematografica degli ultimi decenni – in chiave eminentemente “attrazionale”. Ciò si rende possibile attraverso la ripresa di soluzioni tecniche e linguistiche del cinema delle origini e delle avanguardie storiche (il riferimento al futurismo), nonché mediante l’indagine del rapporto tra le forme mediatiche e i corpi che le ricevono, subiscono e propagano. Il ricorso alle diverse forme e formati dell’immagine sopra descritto, l’utilizzo di musica elettronica ad alto volume (composta da Tom Rowlands dei Chemical Brothers) come colonna sonora originale e tutte le risorse espressive dell’audiovisivo sono qui utilizzate con il fine di produrre continui shock percettivi e successive forme di straniamento. Se il legame tra fascismo e violenza è il tema della serie, la messa in scena e il montaggio ci costringono a fare i conti con il regime di spettacolarizzazione della politica novecentesca e le sue derive, in quello che potremmo descrivere come un “cine-gomito”.

A rendere straordinaria l’interpretazione di Marinelli non è dunque la somiglianza, né la capacità di calarsi nei panni di Mussolini. In un certo senso, la sua non è neppure un’interpretazione di Mussolini. Come si può leggere nei titoli di coda, il suo volto e il suo corpo si prestano a impersonare “M”. Anziché confrontarsi con l’uomo, Marinelli ci restituisce la complessità di una macchina, di un dispositivo al contempo mediatico, scenico e politico. Come si vede anche nel teaser della serie, tale dispositivo ha due facce, due fronti di azione e interazione. Da un lato, Mussolini prende parte alle vicende narrate, partecipa a congressi, pestaggi e raggiri; orchestra strategicamente i suoi manipoli, prendendo ora le distanze dagli assassini commessi e ora rivendicandoli. Dall’altro lato, Mussolini si rivolge continuamente al pubblico, con molteplici intenzioni ed effetti: spesso ci spiega la strategia di quanto ha fatto o sta per fare, mentre talvolta adotta un registro ironico o sarcastico. In alcuni momenti ci porta dentro al film, nel suo tempo storico. Altre volte si ha l’impressione di averlo accanto in sala, nel nostro presente.

A prima vista, l’interpellazione del pubblico da parte dell’uomo politico può richiamare il personaggio di Frank Underwood nella serie House of Cards. Ma il Mussolini di Wright è una figura eminentemente novecentesca, è figlio del cinema. Nel carattere duplice del dispositivo sopra descritto, Mussolini è qui concepito come rimediazione di alcune figure caratterizzanti l’alba della settima arte. Più precisamente, si colloca tra Maciste e Fregoli. Tra l’illusione di poter operare una trasformazione del mondo attraverso l’azione eroica e la concretezza di un trasformismo eminentemente scenico. Rispetto al superomismo di Gabriele D’Annunzio –  figura paterna e ingombrante che aleggia nei primi episodi, per essere spazzata via – Mussolini è l’incarnazione del mito dell’automa politico. Rispetto al trasformismo politico di Giovanni Giolitti – elegante e istituzionale, sempre uguale a sé stesso, negli episodi centrali della serie – Mussolini è burattinaio e burattino, capace di tutto.

Come già nel libro di Scurati, a essere continuamente scritti, stampati e pronunciati nella serie, attraverso l’interpretazione di Marinelli, onnipresente, sono dunque i documenti storici, gli articoli di giornale, i discorsi parlamentari. In un rapporto di paradossale complicità e distanza, fino al disgusto, subiamo dapprima la loro forza percussiva e manipolatoria e dunque ripercorriamo contropelo un archivio fatto di materiali quantomai eterogenei. Da una puntata all’altra, ad emergere è qualcosa come un paradigma della violenza che passa attraverso immagini, discorsi e gesti apparentemente diversi eppure imparentati: la dinamica del braccio che si contrae e si allunga velocemente, come se non facesse più parte del corpo, come se fosse un manganello esso stesso; la meccanica del braccio che si alza e distende, va a fare ornamento, amplifica l’automa. Com’è che saluta un corpo assuefatto alla violenza? È dal gomito che si riconosce un fascista.

M – Il figlio del secolo. Regia: Joe Wright; sceneggiatura: Stefano Bises, Davide Serino; fotografia: Seamus McGarvey; montaggio: Valerio Bonelli; musiche: Tom Rowlands; interpreti: Luca Marinelli, Francesco Russo, Barbara Chichiarelli, Benedetta Cimatti, Lorenzo Zurzolo, Gaetano Bruno, Paolo Pierobon, Vincenzo Nemolato; produzione: Sky Studios, The Apartment, Pathé; origine: Italia, Francia; anno: 2024.

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