Ci sono dei libri che manifestano un’urgenza. L’ultimo spettacolo. I funerali sovietici che hanno fatto la storia di Gian Piero Piretto è uno di questi. Si avverte, dietro la magistrale ricostruzione che incrocia antropologia sociale e storia delle idee, lo sgomento di chi riconosce nella stagione politica del putinismo la riproposizione di una tanatopolitica, quella che ha segnato gran parte della storia dell’Unione Sovietica. Una storia, e questo è stato uno degli elementi del risveglio del 24 febbraio 2022, che non è mai completamente finita e la cui fine Putin sta cercando di ribaltare da più di vent’anni.

Il percorso che traccia Piretto comincia dai funerali dei giovani progressisti russi che, già dalla metà del XIX secolo, intendevano trasformare il rito in manifestazione politica. Non si tratta però di un superamento della ritualità cristiano-ortodossa, ma del rovesciamento di un dispositivo teologico-politico che nella negazione riafferma sé stesso. Come nei funerali cristiani, il rito ateo dei progressisti russi, poi ripreso dai bolscevichi, deve tenere insieme il piano terreno (la sofferenza per il dipartito) e quello trascendente (il riconoscimento del senso di un’esistenza all’interno di un ordine che lo trascende). Lo spettacolo del rito deve esibire il Logos che struttura e informa la comunità politica nella quale abitiamo. Non è mero ritorno alla Madre Terra, ma glorificazione di quel senso della Storia, alla quale il popolo sovietico si sarebbe votato.

Dato tale orizzonte, possiamo immaginare due tipologie di funerale, costantemente richiamate da Piretto. Il funerale di Stato, il cui esito massimo è stato prevedibilmente quello di Stalin, celebrato il 9 marzo 1953, e il funerale contro lo Stato, usando l’occasione per dar vita ad assemblee che omaggiano figure non allineate come Pasternak o Achmatova. Da una parte, il processo di auratizzazione della morte, dall’altra il tentativo di far emergere una conflittualità politica, lì dove il dissenso facilmente era indicato come tradimento della causa comunista. Dietro questa polarità, si intravede però un movimento più complesso, che costringe anche il rito più auratico a svelare la sua dimensione politica, così come il rito politicizzato, ricordando l’eroismo del defunto, ricorre in forma minore alla strategia bolscevica di una celebrazione del senso di quell’esistenza e del suo ruolo all’interno della storia.

Il processo di auratizzazione, nell’epoca della riproducibilità tecnica delle immagini, sfrutta tutti i canali di comunicazione, dalla pittura al cinema, dalle stampe alla radio, dall’allestimento delle camere mortuarie ai mausolei ai canti per i bambini, per costruire l’aura sacrale intorno al leader morto. A nulla valgono, al tempo del funerale di Lenin (27 gennaio 1924), le poche voci dissonanti (la moglie Nadežda Krupskaja, Trockij, la rivista Lef) che chiedono di non trasformare il leader in un’icona religiosa. Anche queste voci dissonanti vivono una contraddizione: chiedono di non santificare qualcuno di cui celebrano ripetutamente l’immortalità, condividendo perciò l’aura sacrale che il Partito sta creando attorno al leader scomparso. Ma lì dove quelle voci dissonanti chiedevano di non mummificare la lezione di Lenin, il lavoro del Partito, in nome di un rito che deve farsi agente di mobilitazione per la causa comunista, si muove nella direzione opposta. Ogni immagine è controllata, soppesata, deve passare il vaglio di una censura, che in questo modo imbalsama la parola e il corpo di Lenin. Tale mummificazione prevedibilmente si amplifica con la morte di Stalin, ma è la storia stessa a incaricarsi di produrre un contraccolpo.

Il documentario Il Grande Addio (1953), curato da alcuni dei principali registi del regime, con le immagini del cordoglio del popolo e dei dirigenti girate da centinaia di operatori sparsi per il blocco sovietico, pur se pronto in tempi brevissimi non sarà distribuito, come ad anticipare la lotta per la successione e soprattutto il nodo politico, il culto della personalità, su cui si arresterà e imploderà il mito della Rivoluzione. Quello stesso archivio di immagini sarà rimontato e rieditato e privato di qualsiasi voce di commento, in tempi recentissimi, dal regista Loznitsa (in ucraino Loznycja), che farà emergere in Funerali di Stato (2019) la dimensione allucinatoria nella quale viveva il popolo sovietico, spaventato di quello spazio di libertà che la morte del dittatore avrebbe potuto aprire e semmai commosso per aver perso il Padre, colui che era diventato il baricentro esistenziale anche per chi ne aveva sofferto le persecuzioni. Loznitsa nel finale di Funerali di Stato monta una famosa Ninna nanna del 1940, che cantava di uno Stalin che darà forza e mostrerà la via. Quei funerali di stato sono l’istante in cui il popolo sovietico ha la possibilità di un risveglio. In una breve sequenza verso la fine di Funerali di Stato, vediamo gli operai impegnati nella costruzione di una diga, mentre un pallone aerostatico trasporta un gigantesco ritratto di Stalin, che rischia di travolgerli: la Storia teologizzata, resa spettacolo di se stessa, cancella quegli stessi individui che vorrebbe emancipare.

Prima che i funerali di Stato diventino farsa di se stessi, in una Stagnazione che lentamente conduce all’implosione del mito della Rivoluzione, c’era stato un ultimo bagliore, quello dell’ultimo vero trionfo del mondo sovietico, il primo astronauta nello spazio, Jurij Gagarin, morto in circostanze non del tutto chiarite (un incidente in volo, in un collaudo che non avrebbe dovuto creare difficoltà a un pilota del suo valore) il 29 marzo 1968. In quel caso, assistiamo però a un altro meccanismo tipico, anche al di fuori del mondo sovietico: rimuovere gli elementi di contrasto che c’erano stati con il Potere, in questo caso il desiderio di Gagarin di non essere ridotto a testimonial e le sue critiche alla cattiva organizzazione di alcune missioni spaziali, che avevano condotto anche alla morte dell’astronauta Komarov. Per Brežnev, Gagarin era diventato una sorta di dissidente interno, anche per un comportamento non inappuntabile (si parlava di alcolismo e di alcuni ricoveri in ospedali psichiatrici). La sua morte permette di riaffermare il mito della conquista dello spazio e, celebrando l’astronauta, ne cancella dalla memoria collettiva gli elementi che disturbano il processo di auratizzazione. Ma è un funerale che al contempo sancisce la fine dell’illusione della generazione chruščëviana, quella del socialismo dal volto umano, in grado di vincere la competizione con il mondo atlantico sul piano della tecnologia e dell’immaginario.

I funerali contro lo Stato raccontati da Piretto sono perlopiù quelli di poeti, artisti, musicisti, cantautori: Esenin, Majakovskij, Prokof’ev, Achmatova, Pasternak, Vysockij. Alcuni di questi saranno trasformati in monumenti, con effetti grotteschi, se messi in relazione con l’esistenza vissuta; per altri il Partito cercherà di far scivolare nel silenzio la celebrazione. Anche soltanto girare riprese non autorizzate del funerale della Achmatova o portare a spalle il feretro di Pasternak è un gesto di ribellione, che vuole celebrare non tanto un progetto politico alternativo, ma un’esistenza che, pur tra tutti i compromessi e le negoziazioni che impone vivere sotto un regime, è riuscita a rimanere fedele a sé stessa. Sono vite non tanto di anti-comunisti, ma di “a-comunisti”, di persone che non hanno ceduto alla tirannia della Storia, ossia di chi identifica senso ed emancipazione in un logos supposto che dovrebbe guidare «la marcia dell’umanità».

Rispetto alla polarità descritta, funerali di Stato e funerali contro lo Stato, c’è una terza tipologia, che sfugge all’auratizzazione che comunque avvolge anche chi ha resistito al Potere, ed è quella che trova la sua forma esemplare nella morte spesso senza sepoltura delle vittime dell’assedio di Leningrado (8 settembre 1941-27 gennaio 1944). Quelle morti non saranno celebrate; Stalin, che detestava Leningrado, liquidò il Museo dell’Assedio già nel 1948, nel corso di purghe rivolte a esponenti politici della città, accusati di anti-leninismo. È un Museo che non chiede di celebrare una vittoria, non chiede di esaltare e sacralizzare eroi, ma soltanto di ricordare quella sofferenza innocente. Sempre Loznitsa, nel suo lavoro di ricostruzione dell’inconscio cinematografico del mondo sovietico, ha provato a seppellire quelle vittime con L’assedio (2006), rimontando materiale in parte inedito, girato con scopo propagandistico appunto durante l’assedio.

L’antidoto alla tanatopolitica, alla sacralizzazione della morte in nome della Storia, l’aveva prefigurata Ejzenštejn, a migliaia di kilometri di distanza dalla madre patria, quando girò il suo film più libero, quel Que viva Mexico! che non potrà completare e montare. Mi riferisco alla sequenza finale, alla ripresa del Giorno dei morti che, se in via ufficiale doveva celebrare la concezione progressiva del rivoluzionario, in modo speculare a film come La corazzata Potëmkin o Ottobre, più in profondità celebrava una vita finalmente slegata dalla necessità di dover esibire un logos, un senso. «Tra il rumore delle macchine delle fabbriche, la sfilata delle truppe, i discorsi del presidente e gli ordini del generale, la Morte avanza danzando! Non una sola ma molte: molte cadaveras, scheletri… Che cos’è? È il corteo di Carnevale», scriveva Ejzenštejn negli appunti a una prima stesura, immaginando un corteo di maschere, di identità fuggevoli, e al termine il sorriso di un bimbo che si leva la maschera, come il fanciullo eracliteo che gioca con il tempo. Una vita che non deve indicare una direzione, la prefigurazione del compimento della Storia, e proprio per questo finalmente libera.

Riferimenti bibliografici
S.M. Ejzenštejn, ¡Que viva México!, a cura di C. Bassotto e S. Cavagnis, CINIT, Venezia 1999.

Gian Piero Piretto, L’ultimo spettacolo. I funerali sovietici che hanno fatto storia, Raffaello Cortina, Milano 2023.

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