Non siamo più abituati all’idea di un evento che non sia sempre anche mediatico. Non lo siamo più da quando ciascuno di noi ha con sé una protesi tecnologica con la quale insieme produce e consuma contenuti mediali in tempo reale. Ma ancora più addietro, è nella fase ruggente della televisione e della presa diretta che il couplage tra l’evento e i media che lo creano, lo definiscono e lo riproducono ha assunto una saldatura pressoché perfetta, rendendo quasi ridondante quel binomio non più pensabile separatamente.

Se non il primo tra questi, certo i funerali di Iosif Vissarionovič Džugašvili, meglio noto come Stalin, furono un momento dove tale connubio si mostrò in termini assoluti, benché completamente originali. Era il 9 marzo del 1953, l’inverno russo dava cenni timidi di disgelo, la neve fioccava qua e là. Il resoconto in diretta non era ancora nell’orizzonte dei possibili, pertanto venne realizzato un film, Il grande addio, per la regia congiunta di Dziga Vertov, Mikhail Ciaureli e Sergej Gerassimov. Si trattava evidentemente di un’operazione apologetica e monumentalizzante, che mostra il cordoglio e il dolore per la scomparsa del grande leader negli Stati socialisti e nel popolo russo.

Di quelle immagini epocali sono molti i momenti che rimangono impressi, e certamente le orazioni funebri, riprese dal basso, non lasciano impassibili, nonostante la loro stringatezza e smodatezza retorica. Fu in particolare Lavrentij Pavlovič Berija, appena nominato vice Presidente del Consiglio e che sarebbe stato liquidato di lì a poco in modi ancora ignoti, a indicare un motivo specifico per definire la grandezza di Stalin: la capacità di risolvere l’annosa questione della nazione, la coesione territoriale che permette la coesione sociale ed interetnica.

Chissà se Sergei Loznitsa ha pensato a queste parole quando ha iniziato State Funeral, montaggio lineare dei documenti d’archivio che testimoniano l’evento nella sua interezza, dal momento dell’annuncio pubblico sino alla chiusura della commemorazione; di certo, è questa una potente linea che attraversa il film e ne definisce la potenza riflessiva di natura saggistica. Si tratta di un’opera che eccede ampiamente il semplice intento documentale che traspare dalle note di regia e dal cartello finale che enumerano i crimini di Stalin, in qualche modo mettendo le mani avanti — o meglio, indietro in questo caso — verso possibili fraintendimenti del senso di tale operazione.

È piuttosto un’operazione titanica: un film di montaggio che affronta la Storia dalla prospettiva concentrata di quattro giorni, dal 5 (data dell’annuncio pubblico della morte di Stalin) al 9 marzo, la tumulazione nel mausoleo accanto a Lenin, disponendo i segmenti filmati (e splendidamente restaurati) in modo da creare campi e controcampi, raccordi in asse, dando statura cinematografica a un materiale pensato per tutt’altro piano di regia, compresa una classica scansione in tre atti che rendono l’idea di una sceneggiatura impeccabile, benché assente, che non ha bisogno di nessuna voce fuori campo per rendersi intelligibile.

State Funeral è davvero un tour de force di montaggio, un’opera insieme monumentale e anti-monumentale: erige un monumento fatto di documenti d’archivio che ambisce a scalzare dal piedistallo della Storia quel monumento organico, da vivo e da morto, che è stata la figura di Stalin. Un monumento a rovescio, che rigenera le tracce documentali riconfigurando l’evento nella sua dimensione mediale e scardinando dall’interno le forme di estetizzazione della politica dalla quale quelle tracce originariamente dipendevano. Un film che scompagina i regimi di storicità che hanno configurato quell’avvenimento, riarticolando la narrazione in una semplice sequenzialità cronologica segnata però da continui salti di intensità patemica e retorica che fanno infine collassare per ipertrofia quei valori cultuali che definiscono l’orizzonte estetico di quelle immagini.

La traiettoria disegnata dal film sembra spingere così l’icona staliniana a un tale punto di saturazione da farla implodere, mostrando che il processo di “destalinizzazione”, iniziato nel 1959, fosse già inscritto in quel corpo mummificato che solo una finzione poteva presentare come immortale. Lo fa rilavorando dall’interno le retoriche del potere, che vengono infatti usate per descrivere una situazione iniziale che si sfilaccerà piano piano. Morte, omaggio, commemorazione: una micronarrazione tripartita che procede per scarti minimi e inizia raccogliendo le passioni di tutti i cittadini sparsi su oltre 22 milioni di chilometri quadrati per farle infine confluire nell’angusto spazio sacrale che si irradia dalla salma posta all’interno del mausoleo, punto cieco di un potere che si pensa centripeto ma si scopre moribondo.

Uno straordinario montaggio parallelo inaugura il racconto: la voce monocorde che annuncia la scomparsa di Stalin si diffonde attraverso gli altoparlanti in ogni angolo del Paese, mentre le immagini ricompongono, in quei giorni forse davvero per la prima e ultima volta, una geografia unitaria dell’Unione Sovietica. Dalle sponde del Mar Nero a ovest sino ai ghiacci dell’oblast’ di Magadan nell’estremo nord-est, popoli diversi si ritrovano simultaneamente uniti nell’inoperosità del lutto. Un intero continente, sterminato e sconosciuto, si dispiega sotto i nostri occhi, mentre i volti delle lavoratrici e dei lavoratori reagiscono — ora attoniti, ora imperturbabili, ora commossi — alla notizia della morte del Padre della Patria.

È l’immagine di Stalin fatta icona a esercitare ancora questo potere; nelle officine Kirov verrà addirittura tenuta sospesa con una gru, come la felliniana statua del Cristo in elicottero in La dolce vita di qualche anno più tardi. Immortale e sempre giovane, Stalin è il suo ritratto dipinto (La Pravda in prima pagina a corredo della notizia lo userà infatti al posto di una foto), ma quell’icona non è compatibile con la prima immagine del film, quella che orienta in latenza il senso del racconto: l’immagine di un corpo imbalsamato, morto, posto in un robusto feretro pronto per essere venerato. Non già icona ma reliquia, la cui potenza lenitiva è oscurata dallo strascico di dispositività necropolitica propria della sua vita: 500 persone, si calcola, morirono schiacciate nella calca durante questi tre giorni.

Se icona e reliquia definiscono la polarità polemica del primo movimento, massa e mummia sono le coordinate attorno al quale ruota il secondo. Milioni di persone si riversarono in strada, disponendosi in lunghe code per rendere omaggio al leader deceduto. La massa necessaria alla riuscita dello spettacolo della politica giunge così numerosa perché quel numero è irripetibile, nonostante le dichiarazioni dei delegati da tutto il mondo e dei membri del comitato centrale; Stalin è morto e non tornerà in vita: viva Stalin!

Donne e uomini, giovani e anziani, civili e militari sono ora raggruppati in uno spazio fisico circoscritto (le strade di Mosca) che progressivamente converge sempre più nello spazio ideale della congiunzione tra il corpo politico e il corpo del politico. L’ostensione della mummia — un tentativo estremo di tenere ancora unito quel doppio corpo sovrano (quello fisico e quello politico appunto) ritardandone l’inevitabile scissione — rende quello spazio ideale concreto, trasportando il culto della personalità nei territori patologici della necrofilia. Ma sarebbe ingeneroso limitare quelle immagini soltanto a questo; in quei volti, nelle loro lacrime e nella loro compostezza, nei loro silenzi come nei loro singhiozzi, sfila una galleria di ritratti straordinaria, esaltata dall’intreccio tra spezzoni a colori e spezzoni in bianco e nero che si sostengono vicendevolmente a livello referenziale, generando quasi un’impressione di iperrealismo che per un istante sospende, se ci si lascia coinvolgere sino in fondo, il confine tra realtà e finzione.

Culto e potere, infine, sono le due direttrici sovrapposte che compongo l’ultima parte, quella dei funerali veri e propri. L’ufficialità e la concentrazione — in senso propriamente debordiano — dell’evento spettacolare consentono una varietà di punti di vista e angolazioni di ripresa sino a qui impossibile, magnificando la Piazza Rossa come palcoscenico politico. Resta straordinaria la carrellata laterale che passa in rassegna i funzionari del PCUS, sacerdoti di una religione politica che dispensa sacramenti dall’alto di uno scranno secolare. Ma ci si lascerebbe ingannare a vedere in quella carrellata il preludio al rinnovarsi del culto: nessuno infatti riuscirà ad affiancare l’icona di Stalin (e di Lenin prima di lui) nell’immaginario sovietico, al punto che si riterrà più prudente rimuoverne le insegne denunciandone le forme cultuali.

Il Paese si ferma ancora una volta, gli operai e i taglialegna, i contadini e i pescatori attendono all’estremo saluto in piedi, cappello in mano, ovunque si trovino. Nessun rumore viene proferito dagli astanti: benché il sonoro sia il frutto di un mixaggio a posteriori (molto efficace), quelle labbra chiuse sono il segno di una modalità di elaborazione del lutto lontano, infinitamente lontano, dalla necessità odierna di riempire il vuoto dell’assenza con il fragore degli applausi.

È in questi dettagli che State Funeral si dimostra una grande opera politica, capace di tenere assieme tempi e luoghi diversi, storie e geografie distanti, restituendo l’evento nelle sue componenti antropologiche, un grande saggio entomologico sul potere e la sua efficacia. È sin troppo facile convocare Pasolini e le sue osservazioni sul piano-sequenza, ma davvero mai come qui la relazione tra morte, montaggio e configurazione del senso della vita si è fatta più letterale. Cosa succede dunque, si chiede Loznitsa, quando si interviene direttamente su quel montaggio che la morte opera nei confronti della vita?

Quello che rimane, nelle immagini della mummia che circolarmente chiudono il film, è allora proprio la sensazione di prossimità con la morte: al di là dei proclami roboanti, “non c’è morte in questa stanza” viene proferito a un certo punto, è la vita che manca, la vita del potere, ridotto a un corpo imbalsamato che verrà presto rimosso e negato. Ma è al tempo stesso la certificazione del declino inesorabile dell’Unione Sovietica, percepibile nelle maschere dei suoi funzionari, usciti da un quadro di Grosz, o dalla vastità della nazione, la cui questione non fu mai risolta. E ovviamente dal cadavere di Stalin, che accentrando sul suo corpo tutto il socialismo reale lo ha trascinato con sé nella bara, rimanendo come immagine simbolica di un intero decorso storico. La mummia: icona e reliquia di ogni potere.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, ora in Id., Aura e choc. Saggi sulla teoria dei media, a cura di Andrea Pinotti e Antonio Somaini, Einaudi, Torino 2012.
G. Debord, La società dello spettacolo, BCD, Milano 2013.
S.M. Ėjzenštejn, Teoria generale del montaggio, a cura di Pietro Montani, Marsilio, Venezia 2004.
S. Luzzatto, La mummia della Repubblica. Storia di Mazzini imbalsamato, Einaudi, Torino 2001.
P.P. Pasolini, Osservazioni sul piano sequenza, in Id., Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972.

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