Dalle stelle alle stalle, in epoca di populismo estetico e di critica social, è un attimo. E fu così che Letizia Battaglia, 85 anni e capelli rosa, passò da monumento della fotografia impegnata siciliana e nazionale (omaggiata da Wim Wenders in Palermo Shooting nel 2008 e da Franco Maresco in La mafia non è più quella di una volta nel 2019) ad autrice di foto pubblicitarie che sono state – a furor di popolo, cioè a livor di Facebook – fatte scomparire dalla rete.
Tutto inizia quando la celebre casa automobilistica Lamborghini, sede a Sant’Agata Bolognese ma di proprietà del gruppo tedesco Audi (la nipote del fondatore, Elettra Miura Lamborghini, si è riciclata come cantante), progetta la campagna With Italy, For Italy (i titoli in inglese sono ormai un obbligo, si veda la miniserie Ouverture Of Something That Never Ended diretta da Gus Van Sant per Gucci, che la sta distribuendo su varie piattaforme compreso il sito dedicato GucciFest.com). La pubblicità Lamborghini prevede che gli ultimi modelli (l’ibrida Sian Roadster, il suv Urus, ecc.), unitamente ad alcune vetture storiche (Miura, Countach, Diablo), vengano fotografati da un gruppo scelto di professionisti nel contesto di venti città italiane, rappresentative delle rispettive regioni. La veterana Letizia Battaglia, firma internazionale (nel 1985 fu la prima donna europea a ricevere il Premio Eugene Smith a New York), è la ciliegina artistica sulla torta del marketing.
Battaglia sceglie alcune location della sua Palermo (piazza Pretoria, piazza San Domenico, un pezzo di porto) e vi colloca non solo la prevista Aventador Svj gialla (dopo una vita di bianco e nero, come nella grande tradizione dei Koudelka e dei Cartier-Bresson, stavolta gli scatti sono a colori e in digitale) ma anche tre ragazze minorenni (bambine, dicono gli scandalizzati, che magari non hanno mai visto l’immagine universalmente nota della bambina del quartiere Cala, immortalata in quel 1980 in cui Battaglia fondava il centro di documentazione dedicato a Peppino Impastato).
Siccome la campagna va in rete, scatta inevitabilmente la critica social in cui chiunque è esperto (già Truffaut diceva che nella vita tutti fanno due mestieri, il proprio e quello di critico cinematografico); e siccome un tratto caratteristico di quella che Giacomo Marramao chiama la “sindrome populista” è la narrativa del discredito (in cui Trump non è l’unico ad eccellere), le critiche si abbattono su tutti i fronti, da quello tecnico (lì il cielo è sovraesposto, là il prodotto da pubblicizzare è fuori fuoco) a quello morale, che comprende lo scandalo dell’accoppiata donne/motori peggiorato dal fatto che l’auto è di superlusso e le adolescenti vengono percepite come ammiccanti (ma l’ammiccanza, come la bellezza, è nell’occhio di chi guarda) e soprattutto la delusione di non vedere adeguatamente potenziata l’immagine di Palermo. Ecco allora intervenire il sindaco Leoluca Orlando in persona, che prima intima alla Lamborghini di far sparire “ogni immagine di Palermo” dalla campagna in corso e poi scrive alla vecchia compagna della “primavera di Palermo” (Battaglia è stata assessore nella giunta Orlando) per ribadire ammirazione e gratitudine: la richiesta di sospensione della promozione Lamborghini, motivata con “il rispetto dei diritti dei bambini”, è opportunamente datata 20 novembre, Giornata mondiale dell’Infanzia.
Come si vede, la velocità della comunicazione digitale crea una “critica” che salta il passaggio della lettura dell’opera (tutte le foto vanno interpretate, figuriamoci quelle “autoriali”) e passa direttamente al giudizio e al pre-giudizio; e certo de gustibus est disputandum, ma la censura è un’altra cosa. Se i cittadini-consumatori trovano brutta una pubblicità commerciale, possono punire l’azienda con il semplice evitare l’acquisto (ma chi è il target Lamborghini? Perché la Audi ha deciso di rivolgersi ad un’audience indifferenziata?); se qualche benpensante ravvisa in un’opera d’arte un crimine previsto dalle leggi vigenti, può rivolgersi alla magistratura per un eventuale processo agli autori (per Ultimo tango a Parigi, 1972, la sentenza di condanna prevedeva la distruzione del negativo); ma con quale autorità un sindaco chiede l’eliminazione di immagini non gradite al popolo di Internet scambiato per opinione pubblica o per base elettorale?
La ragione è qui la “ragione populista” di Laclau, per cui una pretesa identità (campanilista, regionalista, nazionalista) ha un effetto sulle decisioni pretese autonome delle istituzioni politiche: alla fine del primo grande sondaggio della storia, vinse Barabba; alla fine di uno pseudo-dibattito nella cybersfera pubblica riguardante più l’immagine della Sicilia che non le immagini della fotografa, Orlando ha deciso che Palermo val bene una Battaglia persa.
Una simile battaglia identitaria era già avvenuta il mese scorso, quando lo spot commissionato a Gabriele Muccino dalla Regione Calabria (otto minuti intitolati Calabria terra mia quasi fosse un film, costo più di un milione e mezzo degli undici totali previsti dal Piano esecutivo annuale d’immagine e promozione turistica 2020 nell’ambito del Programma Azione Coesione) era circolato in rete prima ancora della presentazione ufficiale alla Festa del cinema di Roma. I “calabresi” – categoria in cui non si sa se far entrare l’attore Raoul Bova, protagonista dello spot assieme alla moglie spagnola – avevano già mostrato la capacità della rete di creare parodie, recriminazioni, rivendicazioni (ma non c’era in Calabria un regista più bravo di Muccino?) a partire dall’assioma ontologico secondo cui i “calabresi” (quelli nati? Quelli residenti? Quelli domiciliati?) conoscono “la” Calabria piuttosto che “una” Calabria. Il tutto, ancora una volta, senza affrontare né l’analisi della narrazione audiovisiva né la questione delle strategie promozionali (bisognava chiedere agli amministratori quale sarebbe il target di riferimento, anche da un punto di vista geo-economico, e dunque il relativo media planning). E non potendo prevedere la catastrofe identitaria evidenziata dal caso Battaglia: la fotografa “palermitana” per eccellenza disconosciuta dal suo amico “primo cittadino”!
C’è qualcosa di peggio del populismo estetico a base identitaria localistica? Sì, il populismo estetico a base identitaria razziale, almeno quando si confonde la decodifica aberrante con la correttezza politica. Nel 2019 una studentessa di colore di Bristol (la città in cui è stata abbattuta la statua di Edward Colston da simpatizzanti del movimento Black Lives Matter) riceve in regalo dal padre la ristampa 2017 (pubblicata dall’editore bolognese Damiani e curata da Martin Parr, all’epoca direttore del Bristol Photo Festival) del libro fotografico del 1969 London by Gian Butturini; la diciottenne Mercedes Baptiste Halliday inorridisce difronte a un impaginato che accosta una bigliettaia rinchiusa nel suo gabbiotto dell’underground ad un animale rinchiuso dietro le sbarre dello zoo di Londra: la donna è nera! l’animale è una scimmia! Dunque il “montaggio delle attrazioni” forma una metafora razzista!
Il bresciano Gian Butturini (classe 1935, come Battaglia, ma scomparso nel 2006) è stato fotografo dalla vita avventurosa (a Belfast ai tempi dell’IRA, a Cuba all’epoca di Castro, in Cile con Allende un pelo prima del golpe di Pinochet, con Basaglia per il libro Tu interni… Io libero, 1977, e così via militando) e anche regista di documentari politicamente impegnati (citiamo solo Il mondo degli ultimi, premiato al Festival di S. Sebastian 1980): un curriculum difficilmente attribuibile ad un razzista. Ma la studentessa di antropologia ha deciso di andare all’attacco non tanto del defunto Butturini, ma della vecchia gloria Martin Parr (fotografo “promiscuo”, come lo definisce il critico Quentin Bajac, ma anche curatore di una storia del fotolibro in cui ha inserito London by Gian Butturini) ovviamente metaforizzato come “la statua di Colston della fotografia”. Alla fine di un’aggressione condotta con la formidabile arma Twitter, Halliday ottiene la capitolazione di Parr, che non solo scrive una lettera di scuse ma nel luglio 2020 si dimette da tutti i suoi incarichi istituzionali (compresa l’università) e chiede all’editore Damiani di distruggere tutte le copie del libro ristampato.
Ma se la battaglia d’Inghilterra si è conclusa con la disfatta degli artisti e degli intellettuali, una reazione al rogo dei libri politically correct viene dall’Italia, e precisamente dall’Associazione Gian Butturini: dal 10 al 23 dicembre sarà allestita a Milano, allo Spazio d’arte Scoglio di Quarto, la mostra Save The Book, che presenterà trenta opere del fotografo censurato (chissà se ci sarà l’accoppiata incriminata). E siccome siamo tutti nello sciame, chi è bloccato in zona rossa può vedere lo slide show che andrà on-line ventiquattr’ore su ventiquattro.
Riferimenti bibliografici
L. Battaglia, Fotografia come scelta di vita, Marsilio, Venezia 2019.
L. Battaglia, S. Pisu, Mi prendo il mondo ovunque sia. Una vita da fotografa tra impegno civile e bellezza, Einaudi, Torino 2020.
E. Laclau, La ragione populista, Laterza, Bari-Roma 2019.
G. Marramao, Sulla sindrome populista, Castelvecchi, Roma 2020.