La storia, disse Stephen, è un incubo da cui sto cercando di svegliarmi.
James Joyce
«Alla fine la maschera coincide circolarmente, finisce per coincidere di nuovo con il tutto e con il vuoto. Un grande regista di cinema come Ozu fece incidere sulla sua tomba un ideogramma giapponese che significa nulla» (Roberti 2014, p. 18). Così mi diceva Toni Servillo, in una conversazione apparsa sul n. 22 di “Fata Morgana” dedicato a “Maschera”. E nel postfinale di La mafia non è più quella di una volta una frase suggella il film: «Così si chiude il cerchio».
A pronunciarla è la voce di Franco Maresco che interpella Ciccio Mira (personaggio già centrale nel precedente Belluscone), organizzatore e manager (generato dalla “mafia di una volta”) di feste di piazza, che fa emergere dai “bas-fonds” palermitani le sue tenerissime star, i suoi cantanti neomelodici, i ballerini che sembrano ectoplasmi reviviscenti della vecchia rivista di periferia dove si abbeverò Fellini nel dopoguerra e che in Ginger e Fred (1986) fece incontrare con i loro sinistri eredi televisivi. Ed è una scassata emittente privata il vivaio di quegli esuberanti e commoventi “freaks” portati alla ribalta da Ciccio nel quartiere più nero e degradato di Palermo, lo Zen.
Nel geniale suggello del film, Ciccio Mira si mostra e si dimostra uomo dall’incrollabile, inossidabile resistenza a tutto, pur di non arrendersi all’evidenza, negando anzi sistematicamente ogni evidenza e trasformando puntualmente e paradossalmente in spudorato coraggio la sua circospezione, al limite la sua codardia — nei confronti di quel potere segreto mafioso con cui è insieme in confidenza e in uno stato di allarme che si disegna irresistibilmente sul suo volto interdetto alla sola parola “mafia”, e che pure si perita di pronunciare in un farfuglio ogni volta distorcendola “ad usum”.
Per l’anniversario dell’eccidio di Falcone e Borsellino, Ciccio Mira organizza uno sgangherato evento di piazza allo Zen, accompagnandosi al suo “produttore”, il pavido Matteo Mannino, e a una star neomelodica in ascesa, Cristian Miscel, traumatizzato ed esilarante giovane mentecatto, geniale nel farfugliare in una lingua incomprensibile canzoni “in memoriam” che si concludono con la frase “li abbiamo uccisi noi”. Maresco traspone la geremiade delle maschere di Belluscone in una straordinaria epica grottesca. Il “cerchio” che si chiude, cui allude la frase finale, è allora il segno di un film sulla circolazione delle maschere, dietro cui appunto si apre il vuoto, il nulla.
Ciccio Mira risponde a Maresco con una parabola omerica, e omerico è il riso che strazia e apre retrospettivamente tutto il film. Mira racconta in sottofinale di un rocambolesco incontro con la famiglia Mattarella, a seguito di una avventura (raccontata con un fumetto in bianco e nero) che sembra uscita da un film di Scorsese. Si tratta di una grottesca esecuzione sulla spiaggia di Mondello a causa di un polipo non cucinato e di un conseguente incidente d’auto sotto la casa palermitana dei Mattarella, da cui nasce una amicizia, e le serate al cinema Massimo, in cui il nostro attuale Presidente si appassiona alla visione di film come Il settimo sigillo di “Imar Be Eman” (“Un regista arabo?”).
Ciccio decide di rendere omaggio al Presidente con un’altra serata allo Zen in cui la memoria degli eccidi viene abbinata a un grottesco balletto di loschi figuri avvolti dal tricolore sotto il ritratto di Mattarella (profetizzando genialmente le esibizioni di Salvini al Papeete). Dietro tutto ciò c’è l’intenzione da parte di Ciccio di chiedere al Presidente la grazia per “persona a lui cara”, che è in regime di 41 Bis. E qui, alla domanda di fare il nome della persona, Ciccio risponde con una stupefacente allegoria. La persona si chiama Nessuno.
Ciccio paragona tutti i siciliani a Ulisse, al destino della furbizia dell’eroe truffaldino, per cui se in Sicilia si domanda “chi ha ucciso?”, “chi ha derubato?”, “chi ha compiuto la strage, il misfatto?”, si risponde a colpo sicuro: “Nessuno”. Questa ultima parte del film chiarisce lucidamente come il fatalismo, lo scetticismo, il cinismo (“carattere” degli italiani secondo quanto con amara lucidità preconizzava Leopardi più di un secolo fa) diventi quasi una posizione eticamente trascendentale, un dissolvimento nirvanico. La verità è effetto del falso. «Se la maschera è il riconoscimento dell’essere sociale dell’uomo, cioè del carattere radicalmente “fittizio” della persona, la sua “falsità” non rimanda ad alcuna verità ulteriore, contraffatta o nascosta: è la verità ad essere effetto del falso» (De Gaetano 2014, p. 22).
E l’effetto del falso come solo accesso al vero, dolorosamente Maresco se lo addossa tutto. Il viaggio si fa sempre più parossisticamente grottesco, come un itinerario corporale rabelaisiano, l’incontro con una serie di mostri, che si riconnettono amplificandoli a quelli di Risi, alle maschere nere di Monicelli, alle distorsioni illuminanti della commedia all’italiana, corpo a corpo del riso con la morte, come nel film si vede con la visita alle mummie del Convento dei Cappuccini.
E il viaggio è picarescamente compiuto da una coppia commedica composta dal Grande Scettico Maresco, dolentemente animato da un moto di ribrezzo esistenziale costante, e dalla Grande Fotografa Letizia Battaglia (il cui sguardo icastico e appassionato documenta da decenni Palermo e i suoi morti di mafia) animata da un furore utopico, da una ironia disgustata dalla trasformazione in spettacolo da fiera delle commemorazioni antimafia — davanti all’albero di Falcone assediato dalla caciara rimpiange di non essere morta prima di vedere un tale “incubo della storia” —, da una pulsione al mostrarsi/mostrare in empatia con la propria città, e che, all’inizio, non esita a esortare Maresco a voler interpretare per lui “una vecchia buttana”.
Sembrano dei redivivi Don Chisciotte e Sancho Panza mentre si addentrano in questo surreale microcosmo impazzito, in questo pazzo universo rovesciato, in questo sinistro e funebre carnevale. Non esitano a dare luogo a gag irresistibili (rimpallarsi la definizione di “scettico di merda” o incontrare vicino alla “camera della morte”, teatro di atroci esecuzioni mafiose e di inumane torture, un incazzatissimo trans che lamenta la perdita di un cliente per l’irruzione di quei due).
E dal Gargantua e Pantagruel sembra uscita un’altra coppia di persone/maschere impagabili: Matteo Mannino (dallo sguardo sublimemente ottuso), il socio dell’impresario che se la fa addosso dopo l’avvertimento mafioso di sbaraccare la piazza in memoria di Falcone e Borsellino e che, sollecitato a nominare la mafia, risponde sistematicamente “non comment”. Diventa inarrivabile maschera, quando, analfabeta, ingaggia con Ciccio Mira una irresistibile altra commemorazione, quella di Totò e Peppino alle prese con la scrittura della lettera (qui la scrittura dello “speech” di presentazione dello show, in cui bisogna trovare il modo di non dire “Abbasso la mafia”). Mannino finisce pazzo, in collegamento via radio con gli extraterrestri (“un due tre stella” ripete ossessivamente, oppure sbotta continuamente in una invocazione a Totò e Peppino).
L’altra maschera folgorante è Cristian Miscel che, a suo dire, è stato salvato in extremis dall’apparizione miracolosa dei due magistrati, riportandone una pazzia canterina irrefrenabilmente coattiva, e che finisce ugualmente in un manicomio a cantare Only you con gli altri matti. Il farsesco è indistinguibile dal tragico, e questo film scrosta di ogni retorica, impietosamente, le commemorazioni e le celebrazioni ufficiali più o meno ipocrite (in questo c’è una amarezza sciasciana) e dice la sua, con grande lucidità politica, sulla trattativa stato-mafia e sull’ottenimento delle condanne da parte di Di Matteo. Straordinario l’accento che Letizia Battaglia pone sul “silenzio” delle istituzioni. Straordinaria la frase in cui, sollecitato a prendere posizione, Ciccio Mira dice di avere “rispetto” egualmente della mafia e della politica (svelandone una complementarietà).
Eppure il rispetto che naturalmente occorre portare, come lo sdegno, alla memoria di quei morti ammazzati non viene affatto omesso dal film, non viene sommerso dall’amarezza e dall’enormità obnubilante del ridicolo. Perché di fronte a quel “nessuno”, dietro quelle maschere, ci siamo tutti, e noi tutti siamo quel nessuno. Responsabili di quel vuoto sgomentante dove fluttua l’Italia e tutto il nostro piccolo, tenero, risibile pianeta. Joyce sosteneva di aver voluto con l’Ulisse «raffigurare la terra che è pre-umana e presumibilmente post-umana».
In questo preumano e in questo postumano, Maresco conficca lo sguardo, mescolando al fango e alla terra di cui siamo fatti tanto la condanna che la pietà. È sempre stata la caratteristica, fin dai tempi di Cinico TV e dei film con Ciprì, delle sue apocalittiche visioni. Ma da quando lavora da solo alla disperazione dell’impossibilità di una redenzione si è unito una sorta di vanificante e dolce distacco. È dunque vero (ed è insieme falso): non c’è remissione. Eppure c’è possibilità di salvezza. È il cinema che salva. Noi, tutti, nessuno.
Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Maschere nude, maschere vestite, maschere nere, in “Fata Morgana”, n. 22, Maschera, 2014.
J. Joyce, Selected Letters, Faber and Faber, London 1975.
B. Roberti, a cura di, La maschera è il vuoto. Conversazione con Toni Servillo, in “Fata Morgana”, n. 22, Maschera, 2014.