
Letizia Battaglia cammina per le sale della Casa dei Tre Oci di Venezia, si guarda intorno, osserva stupita. È la mattina del 19 marzo, il giorno che precede l’inaugurazione ufficiale di Letizia Battaglia. Fotografia come scelta di vita (visitabile fino al 18 agosto), ossia quel momento in cui le sale accolgono per la prima volta giornalisti e critici, e la mostra si apre alla visione in anteprima. Letizia Battaglia accompagna gli addetti ai lavori poi, candidamente, afferma che quel piccolo tour conoscitivo sarebbe servito anche a lei: aveva preferito attendere quel momento senza conoscere il corpus fotografico selezionato, così come, sempre volutamente, era rimasta all’oscuro di qualunque altro aspetto tecnico — stampa o formato — relativo all’installazione. Si era affidata alla curatrice Francesca Alfano Miglietti, così come si era fidata delle mani e del lavoro di Mariachiara Di Trapani — tra le poche persone a conoscere a fondo l’archivio fotografico della Battaglia — e aveva così delegato la scelta delle fotografie che avrebbero composto la mostra. Decisione insolita, certo, tuttavia sintomatica del rapporto contrastante che unisce Letizia Battaglia al passato impresso sulle trentasei strisce delle pellicole, a quell’archivio costellato da eventi cruciali che hanno segnato tanto la sua storia privata – Letizia Battaglia donna, fotografa, madre, attivista, regista, editrice – quanto quella pubblica, di un’intera nazione.
C’è una linea sottile che separa amore e odio, una soglia tuttavia permeabile che permette ai due sentimenti di riversarsi furiosamente l’uno sull’altro, e che traccia per intero il legame tra la Battaglia e quell’archivio che lei stessa ha definito “di sangue”, lo stesso sangue di cui per anni, dice, ha continuato a sentire l’odore. “C’è stato un momento nella mia vita” racconta ancora “in cui ho sognato di bruciare tutti i miei negativi”. Un dissidio doloroso che ha trovato una parziale — e tuttavia necessaria — risoluzione nel ciclo Rielaborazioni, un tentativo di riscrivere le immagini, di ri-montarle; un lavoro mirato a sottrarre le fotografie all’incastro del tempo e alla loro funzione immediata di testimonianza storica e di documento, per consegnarle così a nuove possibili leggibilità.
La visita della mostra prosegue, mentre Letizia Battaglia continua a raccontare, ricorda, ricostruisce: “Queste fotografie” dice “sono pezzi della mia vita“. Un aneddoto personale: chi c’era, e che qui adesso scrive, si arroga il diritto di dire “io ho visto”. E tuttavia, nel ripiegarsi su se stessa, questa nota autobiografica posta in apertura suggerisce la possibilità di osservare le immagini provando a collocare il nostro sguardo in quella paradossale piega temporale che si crea quando il tempo passato dello scatto fotografico riaffiora e si ri-presenta incarnandosi nel tempo di chi oggi, nuovamente, ri-vede e ri-conosce. Una presa di posizione che implica il rischio di lasciarsi catturare dal lavorio incessante delle immagini, ossia dalla loro capacità di aprire costantemente la storia, ma che tuttavia ci consente di interrogare le fotografie di Letizia Battaglia alla luce del presente, in virtù di ciò che oggi possono dirci.
Sono trecento le fotografie che formano la mostra, un numero che può apparire irrisorio se paragonato agli oltre trecentomila negativi che compongono l’archivio fotografico della Battaglia — e, del resto, ogni curatela non può che operare una cesura necessaria tra ciò che può stare dentro e ciò che invece rimane, inevitabilmente, fuori dalla messa in esposizione. Tuttavia, la scelta della curatrice di muoversi sul terrain vague dell’inedito, riportando alla luce scatti non solo dimenticati, ma che fino a quel momento erano stati sistematicamente scartati, permette — forse per la prima volta — di inquadrare diversamente il lavoro di Letizia Battaglia, scrollandole di dosso quel faticoso appellativo di “fotografa della mafia” che per lungo tempo ha gravato sulle sue fotografie, saturando la possibilità che queste stesse immagini potessero essere lette in modo differente.
Cosa vediamo, allora, mentre attraversiamo i tre piani della Casa dei Tre Oci? Palermo, certo. La città lacerata dalla seconda guerra di mafia e documentata attraverso le pagine del giornale “L’Ora”, cui, tuttavia, all’interno della mostra viene dedicata solo una piccola sezione. Quelle che per decenni sono state le immagini che hanno definito in modo ingombrante il lavoro di Letizia Battaglia, qui vengono messe ai margini, in una sorta di riscatto tardivo. A emergere, oggi, a ri-prendere posizione nella storia è soprattutto un quotidiano diverso: quello delle feste al parco della Favorita, dei Night Club della città, dei concerti, delle manifestazioni, dei pic-nic di Pasquetta, delle processioni. Un’umanità variegata a cui la fotografa si è dedicata senza sosta con impegno morale, civile, politico, nel tentativo di documentare ugualmente tanto il dolore che ha tenuto in scacco la città negli anni della mattanza, quanto le piccole forme di resistenza quotidiana. Se il rapporto tra fotografia e Sicilia si è sempre giocato sul crinale scivoloso e pericoloso dello stereotipo, Letizia Battaglia ha riservato a Palermo l’attenzione di una fotografia mai spettacolarizzante, priva di ridondanze pittoresche.
A essere protagoniste sono soprattutto le donne, le madri, le bambine, incontrate e fotografate non solo tra i vicoli e nelle case di Palermo e delle altre città italiane, ma anche durante i viaggi in Turchia, in Russia, in America, in Irlanda. Tra gli scatti che ritraggono l’universo femminile di Letizia Battaglia, si fa largo il volto corrucciato della Bambina con il pallone. Fotografia iper-celebrata, qui ricollocata nel tempo sequenziale che precede lo scatto: due fotografie mostrano la bambina che ride e fa rimbalzare la palla, poi il gioco si sposta, si traduce nella messa in posa che tutti conosciamo.
Nel percorrere le diverse stanze in cui sono dislocate le fotografie, si ha soprattutto l’impressione di trovarsi di fronte un palinsesto che ri-dispone gli ultimi sessant’anni di storia italiana. Alla sequenza di immagini del comizio del PCI e di Enrico Berlinguer in Piazza Politeama a Palermo, nel 1983, fanno eco le diciassette fotografie di Pier Paolo Pasolini al Circolo Turati di Milano, durante il dibattito Libertà d’espressione tra repressione e pornografia, del 1972. E ancora, gli otto scatti che immortalano il poeta Eduardo Sanguineti e la sequenza di dieci fotografie di Renato Guttuso a Roma, nel 1984, si uniscono alla costellazione di immagini che ritraggono amici e colleghi, attori, politici: Gianni Berengo Gardin e Ferdinando Scianna, Luigi Ghirri, Franca Rame, Giuliana Traverso e Lanfranco Colombo, Lisette Model, Willy Ronis, Josef Koudelka, Leoluca Orlando, Frank Zappa.
Letizia Battaglia è lì, in quel tempo, in tutti quei tempi. Scatta. Da vicino, per vedere ed essere vista, ingaggiando un “corpo a corpo” con la macchina fotografica. Riproduce un’azione istintiva, immediata, che non riguarda la tecnica, né la ricerca compulsiva della bella fotografia: è, invece, la messa in atto di un sentire morale, un dovere di testimoniare le cose, di raccontare gli eventi. Una scelta di vita, appunto.
Riferimenti bibliografici
F. Alfano Miglietti, a cura di, Letizia Battaglia. Fotografia come scelta di vita, Marsilio, Venezia 2019.
G. Calvenzi, Letizia Battaglia. Sulle ferite dei suoi sogni, Bruno Mondadori, Milano 2010.