Hungry Heart, hit di Bruce Springsteen del 1980 che cita un verso dall’Ulysses di Lord Tennyson, è il titolo dell’edizione originale di Legami, la più recente raccolta di Eshkol Nevo, nonché del primo dei racconti. I cento personaggi che vi compaiono condividono la stessa fame nel cuore, come sembrava potesse intitolarsi la traduzione italiana della raccolta. E non tanto a causa di una generica inquietudine esistenziale, ma perché incalzati dalle difficoltà della vita. Due anni dopo il successo di Le vie dell’Eden, ecco questi nuovi venti racconti brevi, tesi tra il primo che ha al centro il commiato tra un padre molto malato e suo figlio e che ruota intorno ad un concerto parigino di The Boss, e l’ultimo – Campane – che si apre con la morte della madre dello scrittore protagonista e che si svolge a Torino, città d’elezione di Nevo che ha insegnato a lungo alla Holden.

Springsteen è il primo nome che s’incontra nel libro. Non stupisce: sono certo esista più di uno studio sulla presenza di canzoni e musiche nei romanzi di Nevo. Sfogliatene rapidamente le pagine e, oltre ai Beatles, ai King Crimson e Leonard Cohen, salteranno fuori subito una quantità di altri titoli e di riferimenti, soprattutto alla musica rock e pop dagli anni ottanta in qua, ma anche a Schubert e Chopin: una colonna sonora in modalità shuffle (titolo peraltro di un racconto), cioè in riproduzione casuale, che sempre accompagna una scrittura che ritorna, ad ogni nuovo titolo, su un tema di fondo: la ricchezza e le insidie del rapporto interpersonale. Rapporto costitutivamente esposto al tempo: è il trascorrere dei mesi e degli anni a cambiare i destini, a influire sui nostri giudizi e sentimenti, a trasformare le persone e le loro relazioni. È il tempo il fattore decisivo tanto per dimenticare, quanto per ricordare. Al punto che la raccolta avrebbe anche potuto chiamarsi – a detta dello stesso autore – come un altro dei racconti: Questione di tempo. Ma in ben dodici racconti su venti c’è un riferimento temporale nelle prime tre righe.

Nevo li ha scelti tra i tantissimi che gli affollavano il laptop, tornando così al modello delle short stories, come all’esordio, proprio quando ci siamo appena accomiatati dalla maestra indiscussa del genere, Alice Munro. Le storie sono state scritte dal 2010 in poi e pubblicate in ebraico nel settembre scorso, poco prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre e della risposta israeliana a Gaza. Ma il panorama umano offerto dalle brevi storie, i tanti personaggi e i destini che vi si intrecciano avevano già come sfondo il dramma della situazione mediorientale, i nodi irrisolti della società israeliana e i misteri della relazione umana, esposta all’inquietudine dei singoli, senza che questa assuma però un significato negativo, tutt’altro, indicando al contrario quella spinta inesausta e costante che spinge dall’interno e che ci accompagna poi per tutta la vita. Già nel finale di Tre piani, Dvora – la protagonista del terzo – proponeva di emendare lo stesso Freud: «I tre piani dell’anima non esistono dentro di noi. Niente affatto! Esistono nello spazio tra noi e l’altro, nella distanza tra la nostra bocca e l’orecchio di chi ascolta la nostra storia. E se non c’è nessuno ad ascoltare, allora non c’è nemmeno la storia» (Nevo 2024, p. 253).

Eppure, a livello collettivo la pulsione di morte sembra governare ormai da troppo tempo le decisioni dissennate che guidano le vicende politiche e belliche dei governi israeliani e le reazioni conseguenti dei palestinesi, da diversi anni consegnatisi ad Hamas dopo il fallimento dell’Autorità. Una pulsione allo sfaldamento che inquina almeno dal 1948 la regione mediorientale, intossicando menti e cuori di popolazioni destinate invece in qualche modo a convivere, speranza che lo scrittore israeliano riesce ancora a non ammainare.

Serve allora acuire l’attenzione per i legami. Un titolo che denota una predilezione e una scelta. Nevo sa benissimo che il legame ha tanto la funzione di rinsaldare e unire, quanto quella d’inquietare ed esporre al rischio dell’altro. Ma continua a perseguire un’ispirazione che lo segna da sempre: fin dagli inizi (Bed & Breakfast, 2001, prima raccolta di racconti) e dal primo successo (La simmetria dei desideri, 2007), lo scrittore israeliano è interessato alle traiettorie del desiderio e di Eros, la potenza che lega, che spinge al rapporto con gli altri. Ben consapevole però che nella vita è altrettanto presente e potente ciò che scioglie e separa, la tendenza a rinserrarsi, a fare zero. Per lo scrittore israeliano l’essenziale però resta non negarsi all’incontro, nonostante i rischi comportati dalla relazione con gli altri, non importa quanto prossimi. Anzi, molti dei racconti, così come dei precedenti romanzi, riguardano proprio le difficoltà tra consanguinei, in particolare tra genitori e figli, così come tra i componenti di una coppia e tra amici di vecchia data. È facile sbagliare qualche mossa nella giungla degli incontri. I legami sono come nodi; vanno saggiati, a volte reclamano di esser sciolti, spesso attraversando insieme una misura di dolore, cercando di tornare, malgrado tutto, a guardare al futuro con speranza.

Le figure che animano questi racconti più recenti sono accomunate dunque dalla ricerca di connessioni umane significative e dal desiderio di superare l’isolamento emotivo. Ognuna affronta situazioni che mettono in luce il bisogno di compassione e di amore, di comprensione e vicinanza, spesso in contesti di vita quotidiana che rivelano tutta la complessità e le fragilità delle relazioni, mettendole a dura prova, anche laddove il rapporto è fondato sull’appartenenza.

Una caratteristica delle scritture di Nevo è la considerazione speciale rivolta al singolo, in quanto tassello e possibile promotore dell’integrazione del gruppo e della società, a partire dal microcosmo familiare, dagli spazi e dalle dinamiche tra amici. Spesso le storie ribaltano i ruoli: un figlio può accudire il proprio genitore, una vecchia madre può cercare di ritrovare le fila dell’amore smarrito di un figlio. L’importante resta la disposizione all’ascolto dell’altro, al desiderare il desiderio dell’altro.
È in queste reti dal basso che si istituisce, e poi vien messo alla prova, il legame sociale. L’impegno pubblico dello scrittore israeliano più noto della generazione successiva agli Abraham Yehoshua, Amos Oz, Yehuda Amichai e Aharon Appelfeld, attraverso le scritture, l’azione pedagogica e le posizioni pubbliche, riveste nei fatti sia una funzione catecontica, cercando di mantenere un ordine e un senso in seno alla società israeliana, sia una profetica, ispirata dalla necessità di trovare modalità di convivenza con gli altri chiunque essi siano, a partire però dal riconoscimento della complessità di ognuno. Un tentativo civile di preservare la vita e la struttura sociale, contrastando la tendenza prevalente che tira verso la dissoluzione e l’annullamento di ogni processo di pacificazione.

Un esempio delle difficoltà che s’incontrano anche quando ci si appartiene è il racconto forse più toccante, intitolato Non ti piacerà. È l’incipit ricorrente di una serie di confessioni di una ragazzina, Alma, al padre vedovo. Non ti piacerà sapere che ieri ho bevuto troppo. Che ho vomitato in macchina. Che mi sono rollata uno spinello. Che ho fatto il bagno in mare nuda. Eccetera. Alma cresce, le confessioni continuano e la resilienza del padre viene sfidata sempre più. Sono andata a letto con Gon senza preservativo. Mi sono innamorata di un ragazzo libanese. Lo amo, ma non so più se posso continuare a vivere così con lui. Quel “non ti farà piacere” somiglia ogni volta di più al grande dolore della vita del padre. Sua moglie, amatissima e ormai terminale dopo una breve malattia, poco prima di morire gli aveva confessato un tradimento introdotto dalla stessa formula: «Non ti piacerà, mi aveva preavvisato. Le avevo risposto – del tutto impreparato alla mazzata che stavo per ricevere -, forza, parla» (ivi, p. 274). L’aveva ascoltata, aveva sofferto tanto, l’aveva perdonata.
È la vita, non c’è niente da fare. L’intimità di coppia, l’amore paterno per una figlia troppo presto lasciata sola dalla madre, sono messi all’angolo da un sentimento, puro in astratto, come la sincerità, che però a volte non è che la voce del senso di colpa nei confronti del genitore, del partner: confessando, si spera di liberarsene, senza curarsi della ferita che s’infligge a chi ascolta. E così emerge tutta la vulnerabilità di chi si espone e di chi è esposto alla confessione, insieme al tentativo faticoso e doloroso di tener botta, cercando di colmare il vuoto creato dalla solitudine o dall’incomprensione.

Per non dire di casi ben peggiori: ci sono persone per le quali la famiglia è una zona di disastro, non un sostegno. Come mostra un altro racconto, il più lungo: Ogni cosa è fragile. Colonna sonora? Dagli Ethnix (un nome, un programma) a Captain Jack di Gary Eckstein. Storia complessa e, a differenza della precedente, con uno sfondo sociale e politico ben evidente, nonostante abbia al centro un uomo, Dave, e l’affascinante e fragile amico Yonathan, andato a vivere a New York da dieci anni, da quando si sono persi di vista per l’ultima volta, per un motivo che adesso, ritrovandosi in un bar di Manhattan, non ricordano neppure. Trascorrono altri due anni senza contatti. Poi di colpo Yonathan torna a Gerusalemme per il funerale del padre, e chiede all’amico se può appoggiarsi per qualche giorno a casa sua. Vuole evitare di andare ospite dalla sorella minore, Shikma, dalla luce maliziosa negli occhi e fin da piccola innamorata proprio di Dave, nel frattempo diventata donna, per di più sposata con un cretino antipatico al cognato.

Ma i pochi giorni diventano settimane. Mesi. Jonathan non sta bene, anzi: sta sempre peggio, scrive e prende sonniferi. Fin quando l’amico e la sorella non lo portano a Kfar Shaul, una struttura psichiatrica vicina alla zona industriale di Gerusalemme, dove già altre volte Yonathan, scopre l’amico, si è fatto ricoverare per qualche settimana. E mentre Dave e Shikma scelgono infine di vivere senza infingimenti la loro passione antica nonostante i rispettivi legami familiari, Yonathan cerca di smettere di mancare a sé stesso proprio in un posto dove, il 9 aprile 1948, gruppi paramilitari sionisti avevano compiuto un massacro: più di cento morti, donne, vecchi, bambini, gettando granate all’interno delle case in pietra di arabi che lì, a Deir Yassin (così si chiamava il luogo in origine) coltivavano la terra, pascolavano le greggi, mettevano al mondo figli e li crescevano. Sarà proprio lo sperso e rattristato Yonathan a rivelare all’amico e alla sorella in visita la verità occulta di quel luogo, ora adibito alla cura e al recupero: «È così in tutto il paese, in nessun posto dove c’era un villaggio arabo trovi un cartello che racconti la storia palestinese» (ivi, p. 149).

Ma non si può sotterrare la verità, la verità non scompare mai, resta solo in attesa del momento migliore per riemergere. Il che oggi, a quasi otto mesi dal 7 ottobre, suona come un verdetto. Secondo Nevo, l’attacco di Hamas ha riproposto un trauma atavico, mettendo nuovamente ogni israeliano, anche della diaspora, di fronte alla paura di poter essere ucciso, con il rischio di riproporre per ognuno uno stato di stress post traumatico che si somma a tutti quelli accumulati nella storia, a partire dalla Shoà. Ecco allora l’importanza della pazienza: serve tempo per ritrovare serenità e sangue freddo, e per forzare anche i più piccoli spiragli e opportunità di pace, senza sottrarsi al dialogo e rispettando i tempi degli interlocutori.
La storia di Yoni, di sua sorella Shikma e dell’amico Dave resta forse la più paradigmatica della raccolta. Molto ben articolata e narrata, apre il sipario sulle quinte della vicenda arabo-israeliana, con uno squarcio su ciò che quella terra è stata e quel che è diventata; illustrando al contempo, meglio di altre, che esistono persone per cui la vita è troppo. E qui persone significa innanzitutto corpi, ai quali tutto penetra dentro, senza filtri, senza meccanismi di difesa: tutto può trafiggere il cuore, fino al limite della tolleranza, e oltre. Fino a poter scegliere di liberarsi una volta per tutte del peso di vivere.

Sono infatti i corpi a richiamare l’attenzione di Nevo che, di suo, fa jogging ogni giorno, gioca a tennis e balla. Non a caso sulla copertina dell’edizione italiana c’è l’immagine di un corpo, su quella originale quella di un cuore. In questa fisicità dominante, il sesso e la malattia giocano un ruolo fondamentale in quasi ogni storia. Le scene erotiche permettono a Nevo di esplorare i temi dell’intimità e della vulnerabilità, rivelando aspetti altrimenti nascosti dei personaggi, rendendo la narrazione più ricca e sfaccettata. Le dinamiche sessuali possono svelare complessità, tensioni e connessioni profonde tra i personaggi, fornendo una lente attraverso cui comprendere meglio le loro relazioni. Da questi racconti si può addirittura setacciare una piccola fenomenologia del rapporto sessuale. Si va dagli amanti impazienti i cui corpi “deflagrano” uno addosso all’altra (ivi, p. 152), all’amore delicato e profumato di chi ama toccare e farsi toccare e sa dare piacere e prendersi il suo piacere, e sa sedurre e sa abbandonare (ivi, p. 80); dalla donna alla quale la cosa che dà più piacere è dare piacere, a quella che pensa “nessuno mi ha mai amata così”. Fino agli amanti che risvegliano i sensi carezzandosi e sfilandosi uno a uno gli indumenti, senza fretta, e che mentre fanno l’amore, «benché la passione divampi, nulla brucia» e che si dicono «non chiudere gli occhi, guardami, e io la guardo in quel marrone sfavillante» e senza mai staccare gli occhi continuano a muoversi, ad accarezzarsi, a sussurrarsi segreti e consigli per provare, insieme, sempre più piacere. Fino a potersi concedere uno scambio così dolce: «Cos’è stato? dice per prima. – Amore, a quanto pare. Abbiamo appena fatto l’amore».

Forse non si sbaglia a inserire Nevo tra le fila di chi si sente “toccato” dalla sovranità e dalla bellezza dei corpi, dallo sguardo che la valorizza, così come da ciò che la limita e la insidia. Perché a volte anche il sentimento si rivela “troppo”: l’amore stesso, una volta smarrita la magica sincronia con quello dell’altro, per una nemesi dolorosissima può sembrare invadente e perfino persecutorio. È il tema di Trattamento in coppia, la storia di due ragazzi che praticano insieme il watsu, una forma di terapia acquatica che combina elementi di massaggio shiatsu, movimenti dolci e stretching, il tutto eseguito in acqua calda. Il loro amore s’infrange dopo l’ictus che colpisce una persona che stanno accudendo insieme in piscina, il trauma scatenante che fa emergere la consapevolezza di quell’eccedenza che li separerà, quando lei gli scriverà questo messaggio: «Amore mio, penso che la tragedia che ci è successa in acqua sia un segno che non possiamo ignorare. Nella connessione tra noi c’è qualcosa di troppo intenso. Troppo totalizzante. Non lascia spazio a nient’altro. A lungo termine, non può funzionare. Ci distruggerebbe. Quindi è meglio se la chiudiamo qui. Prima di farci del male. Prima che altre persone si facciano del male» (ivi, p. 100). Troncare così, con un messaggio, appare vile e crudele. Ancor più se l’episodio accade in una raccolta in cui cento volte c’è spazio e considerazione per il guardarsi nel profondo degli occhi, per il sorridersi con gli occhi.

Ma la vita, oggi, sembra questa: un viaggio nel dolore lenito parzialmente dal desiderio, le cui stazioni possono essere illustrate dai racconti di questa raccolta, capaci di dire tanto l’importanza del lutto quanto della sua elaborazione. Per quanto le storie narrate siano connotate dal trauma, la lettura lascia la sensazione che nel complesso possa farsi largo una speranza, alimentata dalla resilienza vissuta dai protagonisti che, pur se provati e messi all’angolo dalla storia collettiva e dalle loro vicende individuali, sono ancora disponibili a immaginare per tutti un futuro di pace.

Riferimenti bibliografici
E. Nevo, Tre piani, Neri Pozza, Vicenza 2017.
Id., Le vie dell’Eden, Neri Pozza, Vicenza 2022.
Id., Legami, Feltrinelli, Milano 2024.

Eshkol Nevo (2023), Legami, Feltrinelli, Milano 2024.

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