È tempo di centenari. In questo 2022 non si celebra solo il centenario di Ulisse di James Joyce, ma anche quello di un’opera cruciale nella carriera di Virginia Woolf, sebbene non fortunata come quelle successive: Jacob’s Room, l’opera che, come sottolinea Nadia Fusini nella prefazione alla nuova traduzione edita da Feltrinelli, segna un momento di passaggio per Woolf, il momento in cui la scrittrice, quarantenne, impara a conoscere – e a usare – quella che chiama la sua voce.
La stanza di Jacob è un romanzo del quale è difficile, e soprattutto vano, raccontare la trama: il protagonista, visto perlopiù attraverso gli occhi degli altri (anzi, delle altre) è Jacob Flanders, un giovane inglese, figlio di Betty Flanders, vedova, e studente al Trinity College di Cambridge, che presumibilmente finisce, come molti dei suoi coetanei, ucciso nella Grande Guerra, anche se il romanzo non lo dice mai esplicitamente.
È nel ritratto di Jacob, in particolare, nei punti di vista che lo descrivono, che Woolf intraprende i suoi primi sostenuti esperimenti prospettici, a interrogarsi su cosa significhi conoscere qualcosa, una vita, dai vari punti di vista ai quali possiamo accedere, inaugurando il metodo che sosterrà i suoi capolavori, a partire da Mrs Dalloway.
La stanza di Jacob è un romanzo dalla struttura disomogenea, paratattica, poco legata alla progressione cronologica e senza dubbio sorprendente – soprattutto se lo confrontiamo ai primi romanzi di Woolf – che segna il tentativo di Woolf di far sua la lingua, nascente in quegli anni, del modernismo internazionale, una lingua di immagini e sensazioni, e perciò anche molto concreta, ma che rifuggiva la ricerca di una forma tradizionale ed equilibrata, preferendo le dissonanze alle sinfonie. È anche un romanzo nel quale si ragiona molto, ed esplicitamente, sulla forma che diamo alla vita umana, sulle narrazioni che invariabilmente lasciano qualcosa di inconcluso, di imprecisato, con un piglio che i lettori di Woolf troveranno familiare e li riporterà al finale delle Onde o anche alle riflessioni degli Anni. Quando Betty Flanders pensa alla lapide del marito, ad esempio, riflette sull’etichetta che si era trovata a dovergli dare:
“Mercante in città,” diceva la lapide; benché non fosse chiaro per quale ragione Betty Flanders avesse scelto di definirlo così, visto che, come molti ricordavano, sarà stato seduto in un ufficio per nemmeno tre mesi, e prima aveva domato cavalli, era andato a caccia di volpi, aveva coltivato i campi, e aveva anche fatto qualche scappatella – be’, ma in qualche modo doveva pur definirlo. Un esempio, per i ragazzi.
I racconti sono utili a chi resta, semplificano loro la vita, anche se si scontrano con la consapevolezza delle ricadute biologiche della morte che l’autrice mette subito in campo, in una maniera che è senz’altro emblematica del suo stile a quest’altezza, con concretezza che non è esente da lirismo:
Ma cosa era stato, nulla? Una domanda senza risposta, dal momento che, sebbene d’abitudine l’impresario delle pompe funebri non chiudesse gli occhi del morto, presto la luce li abbandona. Prima era parte di lei; ora uno dei tanti trasfuso con l’erba, con la collina, le mille pietre bianche, alcune sghembe, altre ben dritte, le corone appassite, le croci verdi di latta, i sentierini gialli, e i lillà che in aprile, con lo stesso odore della stanza di un malato, ricadevano dalle mura del cimitero. Ecco cos’era diventato Seabrook.
Riflessioni che forse in questi anni sono più immediate e al tempo stesso meno vertiginose e struggenti di quanto lo saranno nelle prove future, eppure già si intravedono quelle che Woolf definiva le gallerie che un gesto, un oggetto, una parola, possono scavare dietro a un personaggio per lasciar intravedere cos’altro c’è che il narratore non può riuscire a rappresentare.
Leggendo questo romanzo, alle volte, si ha come l’impressione di fare un’incursione nel deposito delle immagini di Woolf, ritrovare una serie di oggetti testuali che torneranno negli altri romanzi, variati, e che spesso funzionano da veri e propri correlativi oggettivi. I primissimi piani su insetti o animaletti guidati da un istinto inconoscibile come le falene, o impegnati in imprese disperate e banali come granchi che cercano di arrampicarsi sulle pareti di un secchiello o mosche che provano a riprendere il volo; lo scoramento provocato dalla permanenza degli oggetti solidi: qui le scarpe di Jacob, ma non solo. Alle volte, pur nelle interruzioni del filo delle vicende narrate, questi elementi riconoscibili per i lettori che vengono dal futuro sembrano quasi degli appigli ben concreti, un modo per rientrare nel laboratorio di Woolf e spiarla al lavoro, mentre lucida gli strumenti.
In questo romanzo di formazione senza formazione, forse assistiamo alla Bildung dell’artista che lo scrive e che si interroga, per la prima volta con sincerità (l’enfasi è sua) su cosa significhi raccontare una storia. Tradizionalmente si nota poco l’ironia di Virginia Woolf. E qui, in Jacob’s Room, mi pare che pur potendo solo raramente trovare quell’ironia che ravviva le lettere e diverse opere sulle quali in tempi recenti si è concentrata l’opera di curatrice e traduttrice di Chiara Valerio, un’ironia più sottile, di segnali lanciati e non più ripresi, di riferimenti letterari mancati, sia sempre presente.
Il nome della madre di Jacob è in questo senso esemplare: se da una parte le “Fiandre” del cognome non possono non far pensare ai teatri della Grande Guerra, come scrive anche Fusini, il nome completo, Betty Flanders, ci riporta a un romanzo al quale Woolf dedicò molte ore e parole, Moll Flanders di Daniel Defoe, nelle cui fasi iniziali Moll era nota anche come Betty. Un segnale lanciato, da Woolf, e mai esplicitamente sviluppato nella storia, come molti altri, quasi a giocare con le aspettative del lettore, che forse crede di leggere la storia di un giovane inglese di buona famiglia e si troverà, invece, di fronte alla sua stanza vuota.
Il 1922 vide la pubblicazione, dopo il lavoro di “revisione” lungo e faticoso per mano di Ezra Pound, anche della Terra desolata di T.S. Eliot. Quella terra, che adducendo solide e in gran parte condivisibili ragioni, la poeta e traduttrice Carmen Gallo ha ribattezzato devastata, ci ricorda che ritradurre vuol dire anche, laicamente, ribattezzare: anche nel caso di Woolf, le ritraduzioni hanno portato spesso a nominare di nuovo le opere, dalle alternanze tra signore e Mrs Dalloway alle ben più sismiche differenze tra le Gita al faro e il più recente Al faro. E anche la stanza di Jacob è stata in passato una camera, come nella prima traduzione di Anna Banti, nella quale il nome del protagonista peraltro è italianizzato in Giacobbe, nonostante nel 1950 questa pratica andasse scemando nell’editoria italiana.
Lo possiamo vedere, assieme a tanto altro materiale woolfiano, nell’eccellente database su Woolf in Italia curato da Elisa Bolchi. E a ben vedere, benché qui non si intenda in nessun modo proporre un ritorno al passato, mi pare interessante notare come un nome tanto significativo come Giacobbe, che la prima edizione Mondadori riproponeva fin dalla copertina, dia una possibilità più immediata al lettore di sondare possibili sottotesti biblici, di ripercorrere rivoli interpretativi che le traduzioni più recenti rendono più disagevoli da praticare; a dimostrazione che anche le traduzioni che oggi considereremmo sbagliate, possono ancora dirci molto, interagendo con quelle attuali, di certo più avvedute e meno facili all’errore materiale, figlie e nipoti di un secolo ricco di letture e riletture woolfiane.
Virginia Woolf, La stanza di Jacob, Feltrinelli, Milano 2022.