Bloom (Walsh, 2003).

Parlando di Ulisse (1922), James Joyce dichiarò di averci messo tanti di quegli enigmi da “tenere per secoli i professori impegnati a discutere su quello che voleva dire” e che quella era “l’unica strada per assicurarsi l’immortalità”. È una citazione nota, riportata nella biografia scritta da Richard Ellmann (1982), ma quello che mi ha colpito rileggendola è il plurale: a Joyce non bastava solo un secolo, già nell’infanzia dell’opera ne prevedeva più d’uno. E, a ben vedere, il 2 febbraio 2022 non è neanche il primo centenario di Ulisse poiché la mente va subito al 16 giugno 2004, il centenario della giornata (storica) nella quale si svolge la giornata (letteraria) di Leopold Bloom – in giro per Dublino per dimenticare il tradimento della moglie –, Stephen Dedalus – in fuga dai cattivi amici – e Molly Bloom – in attesa dell’amante e del marito, Penelope fedifraga, ma moglie e madre accogliente e ironica nel lungo monologo finale. Ben poco succede il 16 giugno del 1904 a Dublino, o meglio, ben poco di sensazionale: l’epica dell’uomo borghese di Joyce trova la complessità e il sorprendente, nella quotidianità di personaggi comuni.

A differenza dei naturalisti francesi, Joyce sembra guardare il mondo con gli occhi dei suoi personaggi banali e medi, senza per questo giudicarli come parte dell’ormai irrecuperabile mondo moderno. Equanime, li accetta e li presenta senza pregiudizi, nei loro piccoli eroismi e nelle loro frequenti meschinerie. Ulisse è quasi un manuale per la vita di tutti i giorni, come recita il sottotitolo del bellissimo libro di Declan Kiberd (2010): un romanzo che, nonostante l’apparente rigida struttura omerica, si anima grazie alla serendipità della vita cittadina, ai suoi incontri e ai cambi di stile che a questi corrispondono. Il suo capitolo centrale, quello delle Rocce Erranti, è non a caso una danse macabre dei dublinesi affaccendati nel primo pomeriggio, fatto di incroci mancati o avvenuti per caso: un balletto meccanico di umani e automi al tempo stesso, legati agli ambienti cittadini ma anche alienati dalla città moderna e caotica, dove ognuno può essere protagonista per un ante-warholiano quarto d’ora, avere voce in capitolo, per poi sparire tra le quinte del romanzo.

Joyce scrisse il suo capolavoro più citato contro la tradizione anglosassone del romanzo ben fatto, da rivoltare nelle sue basi cartesiane, e con lo scopo di allargare e rendere più complessa quella, nascente, irlandese del cosiddetto Crepuscolo Celtico, il movimento di rinascita culturale e linguistico nazionale che aveva Yeats, Lady Gregory e Synge tra i suoi alfieri. Joyce, che aveva un rapporto complicato con quella letteratura ma l’apprezzava tanto da tradurla e cercare di diffonderla in Italia, pur evitò di mettere al centro della sua ispirazione la mitologia dell’Isola di Smeraldo, o le campagne e i pescherecci dell’Ovest irlandese da dove veniva sua moglie Nora Barnacle, ma ambientò il romanzo tra la borghesia della città principale dell’isola: Dublino, un avamposto dell’impero britannico, seconda città dopo Londra, e centro della paralisi secondo la nota tesi di Gente di Dublino (1914). Per Joyce, la cultura irlandese doveva esprimere una varietà di posizioni, anche contrastanti, in modo da essere in grado di cambiare e rinnovarsi.

Leggere Ulisse oggi, a cent’anni dalla prima edizione in volume, vuol dire anche provare a rivivere questa ribellione, scandagliarne le cause e l’origine, goderne i frutti; vuol dire seguire le alterne fortune di Joyce nella sua Irlanda dalla quale partì esule volontario, vicende che l’hanno visto passare da persona non grata a figura di autore nazionale onnipresente, rischiando perfino, come ha paventato recentemente John McCourt, di diventare “inoffensivo”. Ancora, leggere Ulisse vuol dire rintracciarne le sopravvivenze nella letteratura mondiale modernista e postmodernista, una letteratura che quel romanzo ha contribuito ad animare; vuol dire riconoscere la lezione di ribellione all’autorità messa in atto da Joyce, la ricerca di un linguaggio nuovo e inesplorato che si muove tra i registri, i dialetti (anche quello triestino), i generi e le altre lingue, cercando di aprire il mondo dei possibili narrativi e di abbracciare un’idea di opera letteraria il più possibile aperta e indeterminata. Si tratta di un rapporto problematico con l’autorità che è anche quello che subisce il romanzo stesso nei primi decenni del dopoguerra, quando, virtualmente al bando in madrepatria, l’industria joyciana si sviluppa soprattutto nelle università americane e, sempre secondo Kiberd, sembra allontanare il testo dal lettore comune, affossarlo sotto risme di teoria. Per dirla con il poeta irlandese Patrick Kavanagh:

Who killed James Joyce?

I, said the commentator,

I killed James Joyce

For my graduation.

 

What weapon was used

To slay mighty Ulysses?

The weapon that was used

Was a Harvard thesis.

Invece Joyce regalò una delle prime copie del suo “maledettissimo romanzaccione” al cameriere del suo ristorante parigino preferito. E allora, forse, l’obiettivo di un centenario può essere anche quello di reclamare l’autorità dei lettori comuni di Ulisse, pur senza dimenticare gli sforzi ermeneutici che Joyce ci chiede di fare per seguire Leopold e Stephen tra le strade di Dublino. Ma dal gesto anarchico di Joyce si può trarre anche un’altra conseguenza: se uno dei primi a ricevere il libro è stato un cameriere francese, forse è perché Joyce stesso aveva ben chiaro quanto la vita ulteriore del suo libro sarebbe stata una vita plurilingue, una vita di traduzioni. Riflettere su Joyce, nel 2022, in Italia, vuol dire anche fare i conti con la ricezione di Ulisse, dai primi incerti e parziali tentativi di Carlo Linati e Alberto Rossi, alla monumentale e toscaneggiante edizione tradotta da Giulio De Angelis, passando per l’edizione quasi piratesca di Bona Flecchia (ormai introvabile), per arrivare alla vera e propria esplosione di traduzioni italiane alla quale hanno dato la stura quella di Enrico Terrinoni per Newton Compton del 2012 e quella di poco successiva di Gianni Celati per Einaudi. Lo stesso Terrinoni ha di recente prodotto una nuova eccellente edizione, con testo a fronte (probabilmente un unicum mondiale), per Bompiani.

La traduzione può essere vista come un’attività che influenza e cambia tanto il contesto ricevente quanto quello di origine poiché propone il cosiddetto originale in una varietà di luci e rifrazioni, in una complessa rete di testi (traduzioni, ma anche testi critici e paratesti) che costituiscono un elemento irrinunciabile di investigazione. Secondo Rebecca Walkowitz, una simile attenzione alla “wordliness” dei testi letterari sarà inevitabile in futuro, così come sarà inevitabile confrontarsi con le opere letterarie «come se queste esistessero in svariate lingue, media, e formati, e come se fossero scritte fin da subito per un pubblico molteplice», in modo da complicarne l’identità. Le traduzioni sono atti interpretativi, di critica produttiva, che non coincidono con il testo di partenza, ma sempre, di fatto, lo eccedono un po’; non essendo perfettamente congruenti a esso, alle volte calcano con inchiostro più scuro alcuni punti, mentre sono in grado di mostrare anche i vuoti del testo originale, laddove le lingue e i testi non coincidono. La traduzione non riscrive il testo ma lo continua, come nella bellissima opera di Joseph Kosuth, It was it #1 (1986), in una apparente scorrevolezza che non impedisce di intravedere le cuciture, i rammendi. E in Italia siamo particolarmente fortunati, perché di rimaneggiamenti di Ulisse ce ne sono abbastanza per tenere occupati i lettori, forse non per i prossimi secoli, ma di sicuro per qualche decennio.

Riferimenti bibliografici
A. Bibbò, Irish Literature in Italy in the Era of the World Wars, Palgrave Macmillan, Cham 2022.
R. Ellmann, James Joyce. New and Revised Edition, Oxford University Press, Oxford 1982.
D. Kiberd, Ulysses and Us: The Art of Everyday Living, Faber & Faber, London 2010.
J. McCourt, Consuming Joyce: 100 Years of Ulysses in Ireland, Bloomsbury, London – New York 2022.
E. Terrinoni, Su tutti i vivi e i morti: Joyce a Roma, Feltrinelli, Milano 2022.

 J. Joyce, Ulysses, Shakespeare and Company, Paris 1922.

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