Tra le decine e decine di fotografie di Raffaella Carrà che in questi giorni di ricordi e celebrazioni hanno tappezzato le pagine di ogni giornale, che hanno occupato le bacheche di ogni social, che sono state stampate o proiettate in formato gigante sulle tante sedi e studi della Rai, una credo sia particolarmente significativa. La conduttrice è seduta su una poltrona rossa dai braccioli bianchi, in quello che sembra essere un salotto: sullo sfondo ci sono gli scaffali di un mobile, con libri sparsi e altri oggetti. Vestita di jeans, caschetto biondo di ordinanza, ha in mano una macchina fotografica e guarda di lato. Accanto a lei, ecco un’altra Raffaella, a occupare lo schermo di un grande televisore a tubo catodico, con le luci e gli abiti di scena, alle prese con una performance che la foto cristallizza in un istante di fiero sguardo in macchina. Una sola immagine racchiude tante cose insieme. Il bianco e nero dello spettacolo televisivo e il colore dello spazio reale. La ribalta dell’entertainment e un retroscena comunque anch’esso tutt’altro che ingenuo, consapevolmente mediato. L’emissione della tv, bagliore che emana dal monitor, che mcluhanianamente si tatua sul corpo della spettatrice illustre. Ma anche, e forse soprattutto, la continua compresenza della Carrà icona, della performer di eccezionale valore, e di una Raffaella più alla mano, alla portata di tutti, inserita con naturalezza nei ritmi, nelle pratiche e nelle abitudini del quotidiano. Quasi da subito, non c’è stata una senza l’altra. E l’una e l’altra si sono intrecciate e rafforzate a vicenda, in un gioco di specchi lungo una carriera.

Com’è giusto, com’è naturale, i talk e i programmi di archivio, i frammenti condivisi online e le memorie di ciascuno si sono concentrati sulle parti eccezionali di un percorso eccezionale, dando risalto a specifici sketch, canzoni, coreografie, ospitate, successi, scandali: ai momenti da Teche, alle fratture che almeno per un attimo paiono bloccare lo scorrere incessante del flusso televisivo. Il tuca tuca con Alberto Sordi, il famigerato incontro con Roberto Benigni, “Tanti auguri”, “Fiesta”, per sfiorare appena la superficie delle centinaia di “numeri” accumulati in cinquant’anni. Accanto ai picchi, però, la televisione è anche il basso continuo di migliaia di ore di trasmissione, la costante presenza in onda, la capacità di occupare spazi vuoti e diventare parte scontata del paesaggio. C’è il punto ma anche la linea, c’è lo sprint ma anche la maratona, c’è l’evento ma anche la replica fatta di tante piccole variazioni in uno schema sempre uguale. Ed è anche su questo secondo versante, non solo sul primo, che si sono costruite negli anni la fama, la fortuna, la pervasività di Raffaella Carrà: una star infinita ed eterna così come pressoché infinita ed eterna è stata la sua presenza in video.

Tale duplicità è stata messa a tema dagli osservatori più acuti: Fabio Fazio che in un suo incontro di Che tempo che fa individua nella showgirl “l’estremo del bianco e nero e l’estremo del colore”; Maria De Filippi che chiacchierando con la conduttrice, da intervistata nella puntata di A raccontare comincia tu, riflette su come lei sia chiamata dalla gente sia “Raffaella” sia “la Carrà”, vicina e distante, capace e familiare insieme; o ancora Walter Siti, che nel suo ricordo su Domani descrive «un personaggio anfibio», allo stesso tempo «familiare nel luccichio, intoccabile nella familiarità».

Nella sua celebre Fenomenologia di Mike Bongiorno Umberto Eco aveva tratteggiato una figura a una sola dimensione, ma se dovessimo abbozzare una simile impresa per la conduttrice (Fenomenologia di Raffaella Carrà è stata già in realtà una parte della mostra che l’artista Francesco Vezzoli aveva dedicato alla Rai degli anni Settanta, in Fondazione Prada a Milano) saremmo costretti a confrontarci con una versione di celebrità tv ben più stratificata e molteplice. Le personalità televisive sono sempre distanti dai divi del cinema e dalle star della popular music, fondano su basi diverse il loro dialogo con spettatori e fan miscelando sempre alterità e prossimità. E Raffaella Carrà è l’esempio perfetto di questa miscela, capace di far precipitare l’avanguardia nel quotidiano, fatta allo stesso tempo (e in parti uguali) di talento ed eccezionalità, di dedizione, fatica e serietà, e ancora di familiarità, sincerità e vicinanza.

In questa chiave, più attenta alla continuità che agli scossoni, possiamo interpretare il percorso di Raffaella Carrà come una lenta, progressiva scoperta – da parte dell’artista, da parte della televisione stessa – della forza, della potenza, della persistenza di quello che si ripete, del suo essere seriale. Il successo della coppia formata da Carrà e Corrado li porta per la prima volta a rifare l’esperienza di Canzonissima, a occupare più tempo e più stagioni sullo schermo in un periodo in cui la regola era di cambiare spesso, di concedere con moderazione i pochi slot disponibili, di fermare anche i titoli dal successo maggiore. Nella stracitata e fondamentale (e stracitata perché fondamentale) puntata di Milleluci del 6 aprile 1974, piccola storia buffa e avventurosa di una tv che celebrava i suoi vent’anni, l’esibizione di totale bravura con Mina e le gemelle Kessler o l’allucinazione di una coreografia del futuro sul “Prisencolinensinainciusol” di Adriano Celentano hanno finito per lasciare sullo sfondo un altro gioiello, sintesi del percorso compiuto dal medium fin lì e strepitosa anticipazione (quella sì, davvero sul futuro) dei chroma-key degli anni ottanta: in questo numero, Raffaella Carrà entra nel televisore e balla sul cartello di inizio trasmissioni della Rai, sulle spalle dell’annunciatrice Nicoletta Orsomando, sulla sigla di Carosello e di Tic Tac, in più sceneggiati in costume; scavalca le scritte dell’intervallo e dell’interruzione per problemi tecnici, calpesta la scrivania del Telegiornale, si affianca alle previsioni meteo, disturba balletti, partite di calcio e fiaccole olimpiche. Ancora prima che la televisione cambi, che arrivino il colore e gli altri canali, già Carrà la sta percorrendo tutta, la occupa giocosamente in ogni anfratto, dà valore ai lacerti anche minimi della programmazione.

Ed è soltanto l’inizio, che esplode nei decenni della cosiddetta neo-tv. Le tantissime sigle sono uno studiato incontro tra eccezionalità e familiarità, ripetizione continua nella stagione tv e in seguito, a punteggiare il flusso altrimenti indistinto, a costruire un tappeto sonoro, a imprimere nella memoria balletti e costumi. Pronto, Raffaella? è l’occupazione della fascia meridiana dal lunedì al venerdì, con centinaia di puntate tutte diverse e tutte uguali, con i giochini al telefono e le rubriche, le interviste e i momenti comici, con la fatica sempre nascosta di una continua funzione fàtica, della ricerca e del mantenimento del contatto con il pubblico evocato e presente (restate con noi!): uno sfondo di parole per nulla memorabili ma proprio per questo efficacissime, come dimostrato dall’antologia di dialoghi della trasmissione pubblicata e commentata già nel 1984 dai critici e studiosi del Patalogo. Se i grandi show, una volta raggiunta la vetta, hanno portato a Carrà insieme i trionfi e le polemiche, intrecciati – per i compensi in Rai, la monumentalità delle produzioni transatlantiche, le tante attese non soddisfatte dal passaggio in Fininvest –, la presenza (e l’assenza) nel quotidiano sono sempre state più placide, serene, meno osservate ma capaci di conficcarsi nei sogni di generazioni intere.

C’è la quotidianità festiva di un’edizione di Domenica In. C’è la pubblicità della Scavolini come “la più amata dagli italiani”, per prima. Ci sono i rientri in televisione forzatamente e volutamente più laterali. Ci sono le imitazioni, di Gianfranco D’Angelo, Anna Marchesini o Leo Gullotta negli show del Bagaglino, tutte sempre centrate sulla risata inconfondibile – di nuovo, familiare. Carràmba! Che sorpresa e poi Carràmba! Che fortuna portano le difficoltà, le ansie, le speranze e i piccoli piaceri del quotidiano in prima serata: le lacrime, e persino i ricongiungimenti dall’Argentina o dagli Stati Uniti diventano a poco a poco abitudine, sostituendo lo stupore con il rituale, man mano che le tante edizioni si susseguono, che la formula sempre uguale e sempre nuova si rideclina. Il Sanremo fatto senza troppa convinzione, il commento al ritorno dell’Eurovision Song Contest, la poltrona da coach nell’edizione italiana di The Voice (dove per ogni Suor Cristina ci sono decine di performance tutte uguali), il tentativo fallito di talent autoctono con Forte forte forte, le interviste fatte ai più grandi sono stati tutti modi di rinnovare una presenza, una persistenza. Eccezionale e insieme del tutto normale.

Gianni Morandi, nel suo commovente ricordo su Facebook, arrivato dopo qualche giorno dalla notizia della morte e prima del funerale, tra le memorie della comune adolescenza a Bellaria e poi delle carriere spesso intrecciate, scrive: «Ti sarai accorta di quanto affetto e quanto amore abbiamo per te e non può essere altrimenti, visto che ci hai fatto compagnia per più di mezzo secolo, ci hai fatto ridere e commuovere, cantare e ballare in allegria». Sottolinea le emozioni provate da lui e da tutti, mette in evidenza le abilità eccezionali di Raffaella Carrà nelle arti della musica e della danza ma le lega a una pratica quotidiana, alla portata di tutti, e soprattutto si sofferma su un personaggio, mediale ma soprattutto televisivo, che per tanto tempo “ci ha fatto compagnia”, ci è stato vicino. E allora emerge chiaro il sospetto che la mancanza di cui tanto si è letto in questi giorni non riguardi tanto la dimensione più spettacolare della carriera di Raffaella Carrà (che è e resterà lì, a portata di mano, zapping, scroll e clic) ma soprattutto quella più familiare, quell’approdo sicuro, la presenza che sapevamo esserci sempre (e da sempre?) anche quando lontana dagli schermi. Una rassicurante forza tranquilla, risultato non solo di molte increspature eccezionali ma anche di uno standard fatto di professionalità, simpatia, leggerezza, prossimità. E di quella risata, imitata e inimitabile.

Riferimenti bibliografici
AA.VV, TV70. Francesco Vezzoli guarda la Rai, Fondazione Prada, Milano 2017.
AA.VV., Il Patalogo sette. Annuario 1984 dello spettacolo. Cinema + Televisione, Ubulibri, Milano 1984.

L. Barra, Mille, nessuna, una sola Raffaella, in “il Mulino”, 6 luglio 2021.
J. Bennett, Television Personalities. Stardom and the Small Screen, Routledge, London 2010.

U. Eco, Fenomenologia di Mike Bongiorno, in Id., Diario minimo, Bompiani, Milano 1963.
A. Grasso, Storia critica della televisione italiana, in collaborazione con L. Barra e C. Penati, III vol., il Saggiatore, Milano 2019.
W. Siti, Il successo rasserenante di una diva per famiglie, in “Domani”, 9 luglio 2021.

Raffaella Carrà, Bologna 1943 – Roma 2021.

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