Il sesso è gioco. Il sesso è fantasia. Il sesso è potere. Con Babygirl Halina Reijn gioca con i codici del thriller erotico, una fantasia cinematografica tipica degli anni ottanta e novanta, costruita al fine di appagare lo sguardo maschile, e intesse sul corpo di una donna (e di un’attrice) una riflessione sul desiderio femminile. Desiderio che non è solo sessuale. Nel film, ammantato da quella patina pop che la regista ripropone dal suo precedente lavoro Bodies Bodies Bodies (2022), il sesso è un espediente per indagare la brama di potere, sia esso agito o subito, vissuto nelle dinamiche di coppia, lavorative o generazionali. Un potere che si manifesta sempre come una performance.
Se in Instinct (2019), della stessa regista, gli attori del gioco di potere erano una psicologa e il suo paziente, molestatore sessuale, sotto i riflettori di Babygirl performa la “classica” coppia capo-stagista. Il capo questa volta è una donna, Romy (Nicole Kidman) che, nella prima scena del film, finge un orgasmo durante un atto sessuale con il marito. Solo in seguito, attraverso l’autoerotismo praticato mentre guarda un porno che mette in scena le sue fantasie, la donna riesce a raggiungere il piacere. Si tratta di fantasie di sottomissione che si rifiuta di rivelare nel talamo nuziale, dimostrandosi anch’essa vittima di quei pregiudizi sul masochismo femminile (“Vorrei essere normale” afferma) che il film tenta di mettere alla berlina.
L’esistenza di Romy è la performance di donna in carriera (e di potere), paladina dei diritti femminili in un settore popolato da uomini, moglie e madre di famiglia da cartolina natalizia. È la maschera di rigore caldo, fatta anche di botox e trattamenti estetici, che deve – e vuole, sinceramente – indossare per piacersi ed essere legittimata a detenere il suo potere sul palcoscenico altoborghese e capitalista – e dunque anche ageista, patriarcale e ipocritamente pudico – che sta calcando. Basta, però, l’incontro con un giovane capace di quietare, carezzandolo, un cane ringhiante che sta per assalirla a incrinare questa maschera. Il giovane è Samuel (Harris Dickinson), stagista di Romy, che facendo emergere il desiderio della donna, le offre un nuovo ruolo – che con l’animalità continuerà ad avere a che fare.
Romy, regista della sua vita – e non è un caso che il marito di Romy sia un regista teatrale che sta mettendo in scena Hedda Gabler – divenendo protagonista della sua fantasia erotica cede al suo sottoposto, ora master, lo scettro del potere. Uno scambio di ruoli non privo di idiosincrasie. La donna, infatti, palesa delle reticenze attribuibili tanto ai pregiudizi pudici di cui abbiamo detto, quanto alle conseguenze che il venir a galla della relazione con Samuel potrebbe avere sul suo matrimonio (la donna ama sinceramente suo marito e le sue figlie) e, soprattutto, sulla sua carriera. È proprio il rischio, però, ad alimentare il desiderio della donna. Presentando questo rischio, un film figlio del post me too come Babygirl non può che ragionare, in maniera divertita ma non sempre efficace, sulle conquiste, le battaglie e le contraddizioni del femminismo contemporaneo.
Samuel potrebbe denunciare Romy per molestie: l’illegittimità di un abuso di potere non viene meno con il mutare del genere della persona che occupa il vertice di una gerarchia. La differenza generazionale tra i due è più volte ribadita (al punto che Samuel arriverà a definire Romy come una figura materna, con tutte le conseguenze psicologiche del caso), e così il ragazzo e la donna diventano intercessori didascalici delle istanze della pellicola. Romy si infuria quando Samuel irrompe nel suo microcosmo privato – il riferimento ad Attrazione fatale (1987) è evidente – ed è gelosa della relazione del ragazzo con l’assistente di lei, Esme (“Tu sei mio” gli dice”). Il ragazzo, invece, non solo non vuole denunciare la donna, ma è anche lucido nel considerare il loro rapporto come una performance, un gioco in cui far avverare le reciproche fantasie, e non una relazione sentimentale. Non è amore ciò su cui si basa il legame tra Samuel e Romy, ma consenso. I più giovani, pare dirci il film con una certa semplificazione, riescono a vivere con una maggiore consapevolezza la propria sessualità rispetto alle vecchie generazioni, ancora incastrate nelle dinamiche patriarcali.
Il grande limite di Babygirl, allora, è il rivelarsi essenzialmente un film a tesi. Tesi che il film riporta didascalicamente attraverso i dialoghi, come se non si volesse correre il rischio di un fraintendimento. E allora Samuel deve spiegare al marito di Romy che considerare il masochismo femminile una forma di violenza sulla donna è un pregiudizio superato. Ed Esme, dopo aver atteso invano che le promesse di una meritata promozione da parte di Romy si avverassero, scoperto il rapporto tra il capo e lo stagista, la minaccia. Non per moralismo, ma perché è l’unico modo per assicurare una maggiore presenza femminile nell’azienda, nella speranza che un giorno un’autentica parità di genere venga raggiunta. Si fugge l’ambiguità, si estingue l’erotismo e le ombre del femminismo performativo si allungano su Babygirl.
Babygirl. Regia, sceneggiatura: Halina Reijn; fotografia: Jasper Wolf; montaggio: Matt Hannam; musiche: Meghan Currier; interpreti: Nicole Kidman, Harris Dickinson, Antonio Banderas, Sophie Wilde, Esther McGregor; produzione: 2AM, Man Up; origine: USA; durata: 114’; anno: 2024.