L’ipotesi relativa all’esistenza di un secondo libro della Poetica di Aristotele dedicato alla commedia, che farebbe seguito all’unico a noi pervenuto incentrato sulla tragedia, ha ricevuto come è noto la consistenza di verità romanzesca grazie a Il nome della rosa di Umberto Eco. In bilico tra ricerca erudita (testimonierebbero a favore di tale ipotesi Diogene Laerzio ed Esichio) e invenzione narrativa, il mito di un libro perduto sulla commedia riflette in qualche modo l’atmosfera di mistero che aleggia intorno al riso che, come non si stancano di ripetere i diversi autori che si sono occupati dell’argomento, rappresenterebbe una specificità dell’essere umano.

Da qui parte anche Roberto De Gaetano nel saggio Le immagini della commedia che, con una formula già sperimentata nel precedente Le immagini dell’amore (2022), nella prima parte fonda la riflessione sul commedico inserendola nel più ampio contesto teorico di un’antropologia filosofica nutrita di estetica, teoria della letteratura, filosofia dell’azione, e aperta a influenze teologiche e politiche; nella seconda parte mette poi al lavoro i concetti elaborati precedentemente e li pone in risonanza con una selezione di pellicole cinematografiche – partendo da Buster Keaton per arrivare a Licorice Pizza di Paul Thomas Anderson – elevate a paradigma dei diversi aspetti della commedia.

«Che il cinema sia nato sotto l’insegna del comico è cosa nota», osservava Gillo Dorfles in Artificio e natura (2022, p. 94), e aggiungeva sulla scorta di Bergson che ciò che produce il riso è esattamente la «forzatura meccanicistica delle azioni ritratte dallo schermo» (ivi, p. 95). Questo primo aspetto costituisce il negativo fotografico della sospensione dell’azione che, secondo De Gaetano, caratterizza l’esperienza in cui «il corpo si sottrae all’efficacia della prassi e non si nasconde, come abitualmente, dietro l’azione compiuta» (De Gaetano 2024, p. 10).

Il riso attesta lo scarto tra il soggetto e la situazione in cui esso si viene a trovare, e manifesta il distacco tra corpo e mondo: «Il riso fa emergere allo stesso tempo l’impossibilità del comportamento meccanico e la sospensione dell’azione imputabile. Individua dunque una via possibile alla vita felice» (ivi, p. 12). Il riso esprime e anzi proclama la disaderenza che segna l’umano rispetto al suo ambiente.

È proprio questo disallineamento che, rovesciato nel comportamento meccanico di cui parla Dorfles, produce ilarità, come attestano anche Buster Keaton – «La faccia di Keaton è quella di qualcuno che sta nell’esperienza senza completamente aderirvi» (ivi, p. 39), proprio mentre «Il corpo-macchina in Keaton supplisce all’inespressività della stone face» (ivi, p. 40) – e, in modo diverso, Totò. In Totò a colori infatti, nota De Gaetano, l’attore «si espone a una sorta di oltrepassamento dell’umano stesso nella marionetta» (ivi, p. 70), accedendo a quella sorta di paradiso perduto che è «la grazia “sovrumana” della marionetta di cui parlava Kleist, che qui si declina come il burattino senza fili Pinocchio» (ibidem).

Il singolare orizzonte escatologico aperto dal riso conduce a un secondo aspetto, a cavallo tra antropologia e teologia: derivato dal riso rituale, il commedico persiste in una ambivalenza tra morte e vita, allude alla ciclicità di una rinascita e, nel contesto cristiano, all’eventualità di una redenzione tanto più urgente quanto più avvertita come impossibile. È qui che viene marcata la distanza tra tragedia e commedia:

La tragedia è fondata sulla sutura tra il soggetto e l’azione che compie e fra questa e le situazioni, per cui null’altro è possibile accada rispetto al destino che piomba sul soggetto. La commedia invece è il soggetto senza destino. O meglio, quello il cui destino coincide con la capacità stessa di rinnovarsi, di rinascere, di riaprire il futuro sottraendosi al già assegnato (ivi, p. 17).

C’è commedia laddove il soggetto, posto con le spalle al muro, riesce a sfuggire alla fine prevista per lui dalle circostanze o dalla società. Che questo esito felice passi per l’integrazione finale di una giovane coppia nella comunità (vero e proprio topos commedico, come in Due soldi di speranza di Renato Castellani, 1952) o per il finale riconciliativo, anomalo ma allo stesso tempo riconoscibile, di Manhattan di Woody Allen – «una commedia è l’esperienza di essere ancora in tempo per ritessere il filo della vita» (ivi, p. 110), l’orizzonte aperto dalla commedia riguarda sempre un’eccedenza dell’umano rispetto a ciò che è dato, un rapporto di tensione con il limite che prelude a una felicità inaudita, al di là di ogni speranza

«Con la redenzione cristiana, il tragico viene espunto», sottolinea De Gaetano, ma questa eliminazione del tragico non è una mera rimozione quanto piuttosto un “passare attraverso” che determina un cambiamento d’aspetto. La possibilità del nuovo – questo, in fondo, è il nodo filosofico cui la commedia si rivolge – deve attraversare l’indecidibilità dei fatti, un’ambiguità costitutiva che è al centro dello humor – che, nota De Gaetano, «ha un fondo tragico» (ivi, p. 21) – e della commedia grottesca (le cui maschere incarnano un carattere inteso come destino ineluttabile). Siamo nei pressi di quello che Bachtin chiama grottesco nero, in cui «anche nei tratti di apparente vitalismo, emerge sempre una pulsione inesorabile di morte» (ivi, p. 23).

Come mostra De Gaetano, nel Sorpasso di Dino Risi (1962) o in Mimì metallurgico ferito nell’onore di Lina Wertmüller (1972) la coalescenza tra commedia e tragedia e la fissità grottesca dei caratteri emergono con chiarezza come sintomi di un particolare panorama culturale:

Il riso grottesco è in questo caso liberatorio solo nel senso che libera l’aggressività verso comportamenti e forme di vita che si ritiene non possano cambiare e che vanno criticati. Per questo la commedia grottesca è una forma espressiva tipicamente italiana: presuppone l’immodificabilità del mondo e dunque la conversione di un sentimento scettico in pura aggressione critica (ivi, p. 33).

Ma, facendo un passo indietro rispetto all’esito rappresentato dal grottesco, l’indiscernibilità tra tragedia e commedia dice qualcosa di profondo sulla forma di vita umana. Affinché si dia quello spazio di gioco che rende possibile la commedia, in cui l’umano dimostra di essere «capace di prendere le distanze, di stare dentro ma anche fuori l’esperienza determinata» (ivi, p. 34), occorre che il soggetto non sia già chiuso in un orizzonte univoco, fosse anche positivo. In altri termini, il rapporto con il mondo deve essere svincolato dall’automatismo stimolo-risposta affinché si dia la possibilità del nuovo, celebrato dalla commedia. Questo implica dunque che «il desiderio e la gioia di vivere nascono da un accordo fondato sul disaccordo» (ivi, p. 34), da una resurrezione che ha attraversato il venerdì santo, e anzi dal dramma della inseparabilità dei due. 

Scrive Wittgenstein in un’annotazione del 1937:

Chi vive rettamente sente il problema non come tristezza, non come problematico quindi, ma piuttosto come una gioia; dunque quasi come un etere luminoso attorno alla sua vita, e non come uno sfondo dubbio (Wittgenstein 1977, p. 61).

La commedia imprime all’ambiguità della vita umana la direzione della gioia, intesa in termini wittgensteiniani come alter ego aspettuale della tristezza. Non si tratta di rifiutare i rovesci della fortuna né di scansare gli inevitabili dolori che costellano una vita, ma di leggervi in filigrana la costante possibilità di uno scarto, fondata nell’infondatezza dell’agire umano, nel riconoscere in esso una «facoltà non saturabile» (De Gaetano 2024, p. 30). Come nella figura di Pulcinella ritratta da Giorgio Agamben (autore non a caso richiamato da De Gaetano; cfr. Agamben 2020), l’imputabilità dell’azione è messa fuori gioco perché il soggetto ha sempre la possibilità di scappare, fuggire, non coincidere con sé. Soltanto questa innocenza riguadagnata apre alla felicità cui aspira l’umano e che ne attesta la dignità, al di là di ogni merito o demerito.

Il saggio di De Gaetano lascia che filosofia e cinema entrino in risonanza sul tema della commedia affinché il contrappunto tra queste due diverse forme di pensiero getti una luce sulla posta in palio comune a entrambe: l’apertura a una felicità reale, al di là di ogni determinazione possibile.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Pulcinella ovvero Divertimento per li ragazzi, Nottetempo, Roma 2020.
Aristotele, Poetica, introduzione, traduzione e note di D. Lanza, Rizzoli, Milano 1987.
R. De Gaetano, Le immagini dell’amore, Marisilio, Venezia 2022.
G. Dorfles, Estetica dovunque, Bompiani, Milano 2022.
L. Wittgenstein, Pensieri diversi, Milano, Adelphi, 1980).

Roberto De Gaetano, Le immagini della commedia, Marsilio, Venezia 2024.