«Se amate le singolari spontanee forme che non si standardizzeranno mai andate dagli Etruschi». Queste parole di David Herbert Lawrence tratte da quel libro meraviglioso che è Luoghi etruschi (2022) sembrano perfettamente adatte a La chimera di Alice Rohrwacher. Che vede protagonista Arthur, un inglese (come lo stesso Lawrence), che nella Tuscia degli anni ottanta del Novecento fa da guida ad un gruppo di tombaroli che rubano reperti archeologici. Ha il dono di sentire il vuoto e quindi di far scoprire le tombe.

Su questo mero spunto narrativo, il film sviluppa un registro favolistico come declinazione di un puro grottesco (nel senso di Bachtin), con carri e sfilate, trucchi e maschere, il falò della befana, che restituisce il senso carnevalesco della vita, prima di poter giungere al suo nucleo poetico. Che si ritrova nelle pieghe riflessive in cui la narrazione piuttosto che svolgersi sembra riavvolgersi: sia nella voce del cantastorie che racconta e commenta gli avvenimenti sia attraverso il filo rosso che riporterà Arthur a ritrovare nell’aldilà la sua amata Beniamina.

Ma cos’è questa poesia della vita che la Rohrwacher ci ha sempre restituito sostituendo la società e i mondi da essa direttamente derivati con l’invenzione radicale di un mondo fuori dal mondo e di un personaggio non solo spaesato ma segnato da una innocenza che ne determina anche la colpevolezza sociale?

Arthur è smarrito tra amici tombaroli che di lui hanno bisogno e lo chiamano Maestro; la benestante e decaduta signora Flora (Isabella Rossellini), madre di Beniamina che non si rassegna alla scomparsa della figlia; e la giovane Italia (Carol Duarte), governante di casa Flora, di cui Arthur si innamora. Ma questi smarrimenti definiscono solo il movimento orizzontale e periferico di Arthur tra ambienti decaduti, prossimi a rovine (sia la grande casa di Flora che la baracca dove vive Arthur), e personaggi la cui marginalità è associata ad eccentricità e grottesco.

Ma sarà il movimento verticale verso il basso delle tombe etrusche o verso l’alto, immaginando e sognando Beniamina, a determinare la traiettoria più misteriosa, quella che oltrepassa il grottesco dei corpi, delle facce e delle maschere, per giungere al mistero della vita che congiunge i vivi e i morti, li rende pari, e dà alla morte una sua serena bellezza che la vita stessa gli proietta: poiché se per gli Etruschi «la vita sulla terra era così bella, la vita sottoterra non poteva che esserne la continuazione» (ivi, p. 63). E sono ancora le parole di Lawrence ad illuminare il senso del film: «Il mistero del viaggio di là dalla vita e nella morte, il viaggio della morte e il soggiorno nell’altra vita. Lo stupore della sua anima continuava a giocare intorno al mistero di questo viaggio e di questo soggiorno» (ivi, p. 84).

Il poetico oltrepasserà allora anche il grottesco e l’erranza di personaggi senza patria che bighellonano ai bordi di un mondo di resti industriali e di una società che non prende mai forma se non nei momenti sospesi e ritualizzati della festa carnevalesca sui carri che attraversano il paese, nel rogo del fantoccio della befana, nei balli all’aperto con orchestrina.

Il poetico non sarà nella maschera, nel vagabondaggio erratico, nelle prosperose forme di Melodie (uno dei tanti riferimenti felliniani), nel ribaltamento dell’alto e del basso (l’uomo a testa in giù), ma si troverà nell’emergere del simbolo: nell’affresco dipinto delle tombe, nelle immagini della natura e degli uccelli (stormi e uccelli solitari che vediamo lungo il film e nel finale, accompagnati dai versi di Gli uccelli di Battiato), e nel filo rosso che lega i morti ai vivi, Beniamina ad Arthur. «Il simbolismo pervade tutte le tombe etrusche» ci dice Lawrence (ivi, p. 90), ma il legame tra il pensiero simbolico e la poesia viene sottolineato dalla stessa Alice Rohrwacher in un recente bel libro-conversazione: «La poesia è per sua natura simbolica, nel momento in cui lega a delle parole un silenzio» (2023, p. 64).

E allora il simbolo poetico più assoluto sarà quello silenzioso del filo rosso, che lega Arthur a Beniamina e consentirà il passaggio del primo dalle profondità della terra dove è precipitato (la tomba etrusca in cui muore per il crollo della terra all’entrata) all’aria e all’aperto dell’aldilà, dove ritroverà Beniamina, la sua chimera cercata, immaginata ed inseguita, che non aveva mai dimenticato nel tempo trascorso tra amici tombaroli, con la desiderata e vitale Italia, calandosi nelle tombe etrusche alla ricerca di reperti archeologici.

Beniamina è la chimera che abita tra le forme di vita (e tra i diversi formati di pellicola che il film usa). È quella che sta tra la terra e il cielo, la veglia e il sonno, il fuori e il dentro del film (la vediamo ai bordi, all’inizio e alla fine). Solo uno sguardo poetico è capace di restituirci tutto questo e farci ritrovare un’unità misteriosa della vita, che proprio ai confini della struttura sociale, tra personaggi spaesati e marginali è possibile ritrovare.

Un’unità della vita che rende pari il chiuso e l’aperto, il buio e la luce, la veglia e il sonno, il ladro e il santo, la logica e il mistero, i vivi e i morti, l’uomo l’animale e il vegetale. Questa unità magica e misteriosa della vita necessita di rabdomanti e non di uomini di conoscenza (Arthur è un archeologo fallito), di chi “ha il dono di trovare le cose nascoste”, come Spartaco (Alba Rohrwacher), cinica venditrice che mette all’asta i reperti archeologici trafugati dalla banda, dice ironizzando ad Arthur. Ma quest’ultimo resiste all’uso commerciale degli amati reperti e si oppone alla vendita della testa della statua ritrovata nella tomba e la getterà in mare.

A quel punto il cantastorie ci dirà che gli altri lo presero per “pazzo”, e così ci canta: “Nell’anima del mondo c’è vita morte e amore, molto mistero, e in fondo la gioia e il dolore, e se gli umani stessero come gli uccelli in volo, se brama non avessero che del denaro solo… Mentre si concludeva la grande transazione nello straniero ardeva come una ribellione […]. Quel che gli è balenato è una vita più piena, col cuore alimentato da una più ricca vena”.

È questa vita più piena quella che cerca Arthur, così come hanno fatto gli Etruschi: «Per gli Etruschi tutto era vivo; l’intero universo viveva e la funzione dell’uomo era di vivere egli medesimo in mezzo a esso. […] Il cosmo era uno e la sua anima era una; ma era composta di creature» (Lawrence, pp. 79-80).

Ed è la stessa vita che La chimera cerca di captare nel proliferare di figure e personaggi, nel moltiplicarsi di erratici elementi narrativi e figurativi (innanzitutto cromatici), nella disseminazione simbolica di elementi naturali, piante ed animali che evita ogni naturalismo ingenuo. Tutto questo mette in questione ogni architettura logico-narrativa. È la vita dell’universo intero che nel film risuona ovunque, e Alice Rohrwacher emerge pienamente come la grande cineasta etrusca.

Oltre la civiltà classica greco-romana, di cui pochi esempi troviamo nel nostro cinema (da cui è assente sia epos che tragedia) e oltre la tradizione medieval-rinascimentale (presente invece in molte maschere grottesche, che dalla commedia all’italiana arrivano a Moretti), e al di là della modernità melodrammatica ottocentesca (che arriva fino a Bellocchio e Martone), il cinema di Alice Rohrwacher incarna la meravigliosa e misteriosa forma etrusca capace di dare respiro al mondo attraverso la restituzione simbolica della natura e l’invenzione di personaggi rabdomanti, gli unici capaci di liberare l’intensità della vita.

Riferimenti bibliografici
D.H. Lawrence, Luoghi etruschi, Neri Pozza, Vicenza 2022.
A. Rohrwacher, Dopo il cinema, a cura di G. Fofi, e/o, Roma 2023.

La chimera. Regia: Alice Rohrwacher; sceneggiatura: Alice Rohrwacher, Marco Pettenello, Carmela Covino;  fotografia: Hélène Louvart; montaggio: Nelly Quettier; interpreti: Josh O’Connor, Isabella Rossellini, Carol Duarte, Alba Rohrwacher, Vincenzo Nemolato; produttore: Marica Stocchi; produzione: Tempesta, Rai Cinema, Ad Vitam, Amka Films Production; distribuzione: 01 Distribution; origine: Italia, Francia, Svizzera; durata: 130′; anno: 2023.

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