Libro imperdibile questo di Lawrence, per chi pensa che un grande autore quando scrive non scrive che di se stesso e del suo partecipare alla vita. Detto in altro modo: temi, luoghi, personaggi, diventano per un grande autore sempre intercessori per esprimere la sua posizione estetico-etica sull’essere al mondo.
Sia che la sua immaginazione lavori narrativamente (dallo straordinario L’arcobaleno, passando per Donne in amore fino a L’amante di Lady Chatterley), sia che operi attraverso una scrittura saggistica (i suoi testi sulla letteratura americana rimangono insuperati), sia come in questo caso attraverso un diario di viaggio uscito postumo, Luoghi etruschi (pubblicato ora da Neri Pozza, premessa di Giorgio Agamben, postfazione di Monica Ferrando), Lawrence non ha parlato che di se stesso e della potenza intensiva di una vita impersonale che attraversa uomini e natura, vivi e morti. «Nothing is important but life», scriveva nel 1925. E nell’arte e nei luoghi etruschi, Lawrence trova una delle sedi più misteriose e potenti dell’espressione di tale vita. Che viene a visibilità proprio attraverso ciò che di tale civiltà eminentemente resta, cioè le tombe.
Lawrence, grande scrittore delle intensità e delle sensazioni, arriva quasi alla fine della giovane vita, segnata dalla tubercolosi, a visitare i luoghi etruschi (Cerveteri, Tuscania, Vulci) nei quali scopre come la potenza di vita, «il naturale fiorire» di essa (Lawrence 2022, p. 79), si dà in una mutua corrispondenza con la morte. Che non è la fine della vita, la quale dunque non ne è segnata. La morte è un modo di corrispondere alla vita stessa: «Poiché la vita sulla terra era così bella, la vita sottoterra non poteva che esserne la continuazione. Questa profonda fede nella vita, questa accettazione della vita, sembra essere la caratteristica degli Etruschi» (ivi, p. 63).
Questa corrispondenza che si trova negli affreschi appartiene alla magia stessa del paesaggio, per esempio nel corrispondersi delle due colline di Tarquinia:
Trovandosi essa così di fronte alla lunga collina di Tarquinia, come una campagna di là da un dolce e breve digradar di valle, si ha subito la sensazione che, se questa è la collina dove i vivi tarquinii possedevano le loro case di legno, quella, allora, è la collina dove i morti giacciono sepolti e vivi, come semi, nelle loro case dipinte sottoterra (ivi, p. 50).
E in una magnifica continuità di scrittura e di descrizione, Lawrence trova nei paesaggi dell’Etruria un miracoloso e quieto splendore. Con una parola che penetra nella meraviglia di ciò che vede:
Ci avviciniamo al parapetto e all’improvviso spaziamo lo sguardo sul più incantevole paesaggio che abbia mai visto, sulla vera verginità della campagna verde e collinosa. È tutto grano: verde e tenero, e si estende a perdita d’occhio, in alto e in basso, luccicante del suo verde novello, e neanche una casa (ivi, p.49).
E quando passa a descrivere gli affreschi nelle tombe, il suo tono e il suo sentimento non sembrano cambiare. È il caso della descrizione della Tomba della Caccia e della Pesca:
Dal mare si innalza un’alta roccia dalla quale un uomo nudo, sbiadito, ma ancora visibile, si tuffa deliziosamente e armoniosamente nel mare, mentre un compagno si arrampica sulla roccia dietro di lui, e sull’acqua un’imbarcazione aspetta, coi remi abbandonati (ivi, p.61).
Ed ancora, dal paesaggio naturale a quello artistico-rituale delle tombe etrusche, la felicità della scrittura e del racconto investe anche il paesaggio umano. A Volterra, dopo avere attraversato la bellezza dei «recipienti cinerari», averne costatato il loro fascino, «come se si trovassero al centro della vita» (ivi, p. 156) ben più di tanta arte classica, greca e romana, Lawrence si imbatte nella fortezza di Volterra, e chiude il suo libro con una storia quasi commedica di fuga dal carcere e di maschere di pane:
Ci furono pure due uomini che fuggirono. Silenziosamente e segretamente intagliarono con meravigliosa rassomiglianza le loro fattezze nelle enormi pagnotte di pane duro che veniva dato ai prigionieri. Capelli e tutto, essi modellarono le loro effigie al naturale. Poi le deposero nel letto, sì che il guardiano, quando avesse gettato la luce su di esse, dovesse dire: ‘Eccoli là che dormono, quei cani!”. E così lavorarono e fuggirono (ivi, p. 167).
Nel suo viaggio nei luoghi etruschi, quello che ci dice Lawrence è che «gli Etruschi non sono una teoria o una tesi. Se qualcosa sono, sono un’esperienza» (ivi, p. 165). Esperienza di cosa? Di «una vita fluida e mutevole» e di una «delicata sensibilità»:
Alla fine ciò che vive, vive per una delicata sensibilità. Se fosse una questione di forza bruta, non un solo bimbo sopravviverebbe più di quindici giorni. È l’erba del campo, la più fragile di tutte le cose, che sopporta sempre tutto il peso della vita (ivi, pp. 52-53).
Sensibilità e continuità di un’esperienza che non prevede interruzioni né conoscenza alcuna, ma solo contatto tra tutte le cose:
Deve essere stato un meraviglioso mondo, l’antico mondo dove ogni cosa appariva viva e splendente nell’ombreggiato contatto con tutte le altre e non semplicemente come una cosa sola e isolata illuminata dalla luce del giorno (ivi, p. 105).
Ed è questo contatto che apre ad una visione ondeggiante, quella propriamente umana, che si attua senza la mediazione di alcun occhio meccanico:
L’uomo non vede come una macchina fotografica la quale prende un’istantanea, e nemmeno come una macchina cinematografica con la sua successione di scatti istantanei; ma vede in uno strano ondeggiante flusso di visioni (ivi, p. 109).
Ad una visione non centrata e ondeggiante corrisponde non il dominio del mondo e l’afferrare oggetti, ma un mero toccare:
Questo è un altro fascino delle pitture etrusche: esse hanno in verità il senso del tocco; la gente, le creature, in realtà si toccano. È una delle qualità più rare nella vita, come nell’arte (ivi, p. 75).
Sono innumerevoli e meravigliose le frasi di Lawrence orientate a trovare nei luoghi e nell’arte etruschi quel «canto» che sospende e precede ogni parola, e che ricolloca l’uomo e il mondo in un’armonia e in una abbondanza di vita che solo il «simbolismo» della raffigurazione (di animali e uomini) ha saputo restituire in tutta la grande potenza «divinatoria».
La stessa presente nella grande letteratura americana, capace di far emergere sia la potenza impersonale e vitale dell’IT come la sorgente più profonda dell’anima – «IT, the American whole soul» (Lawrence 2014, p. 19) –, sia la forza vibratoria del mondo intero – «Vibrations from the stars, vibrations from the unknown, vibrations from the unknown people» (ivi, p. 102) – che risuona nel subconscio («under-consciousness») quando la coscienza è sospesa e la «personal intelligence goes to sleep» (ibidem).
Insomma, per Lawrence gli Etruschi, la loro arte e i loro luoghi, sono uno dei grandi “nomi propri” (non frequenti, ma neanche così rari) in cui la potenza della vita, impersonale, vibratoria, armonica, una sorta di “tra” («in between») o di “quarta dimensione” («fourth dimension») delle cose e del mondo, è venuta ad espressione senza veramente la volontà di farlo. E questo ha costituito la loro grande originalità.
E la potenza delle tracce (non scritte) che hanno lasciato è possibile coglierla anche molto dopo che sono state cancellate, museificate, perché quelle tracce riguardano non un’immagine ideale dell’uomo e del mondo, modellata nella perennità dell’arte, ma i segni dell’affermazione della vita nella sua transitoria leggerezza e grazia – il «senso giocondo della vita» (Lawrence 2022, p. 49) – che abitano la ritualità quotidiana, e che passano per la “dolce” e “pacata” accettazione della vita stessa.
Riferimenti bibliografici
D.H. Lawrence, Studies in Classic American Literature, Cambridge University Press, Cambridge 2014.
David Herbert Lawrence, Luoghi etruschi, Neri Pozza, Vicenza 2022.