Come già sosteneva Aristotele, esistono narrazioni costruite su intrecci ed altre su personaggi. Ma lo Stagirita pensava alla tragedia, e non aveva idea della forma del romanzo moderno e della sua radicale libertà. Capace di rendere narrabile tutto: luoghi, situazioni, persino case. È il caso dello straordinario romanzo di Nathaniel Hawthorne, La casa dei sette abbaini, scritto del 1851, subito dopo La lettera scarlatta (ripubblicato da Il Saggiatore con bella prefazione di Emanuele Trevi). Narrare una casa significa in buona sostanza raccontare una cosa viva, segnata dal tempo e dalle azioni che vi si sono svolte con certezza, di quelle probabilmente accadute, e di quelle del tutto misteriose, e di cui comunque si continua a narrare in forma quasi leggendaria «davanti al focolare».

Come della maledizione che Matthew Maule, l’«oscuro colono» e «primitivo abituro» del terreno del New England dove a fine Seicento sorgerà la casa, invia al colonnello Pyncheon dal patibolo dove è mandato per stregoneria. Il colonnello è parte attiva delle accuse contro Maule, perché ha interesse sulla proprietà. La casa dei sette abbaini sarà segnata da tale fondativa maledizione.  Che arriva all’oggi del racconto.

Quella casa ora fatiscente, abitata dagli eredi del colonnello (che permane attraverso il ritratto), non sembra riuscire a liberarsi dal peso del passato. Che condanna i personaggi a restare in una condizione di esclusione dalla vita, come dice Clifford Pyncheon alla sorella Hepzibah: «È troppo tardi. Siamo dei fantasmi! Non ci resta più alcun diritto tra gli esseri umani» (Hawthorne 2021, p. 202). Dal suo canto, Hepzibah, zitella da poco arresasi al commercio di bottegaia, abbandonando così il suo status di gentildonna, «s’era ridotta ad una sorta di mentecatta dopo essersi carcerata così a lungo in un medesimo luogo» (ivi, p. 208).

Insieme ai vecchi fratelli, in quella casa ci abitano da poco due giovani: Holgrave, il dagherrotipista (uno dei primi e più grandi personaggi letterari di fotografi), e Phoebe, una cugina Pyncheon che, giunta nella casa, aiuta Hepzibah nella bottega, e soprattutto porta un po’ di vita al vecchio e malandato Clifford, da poco uscito di galera, dove è stato a lungo per una ingiusta condanna. Causata dal giudice Pyncheon, un personaggio dalla marcata somiglianza con l’«antenato puritano», che arriva con la pretesa di parlare con Clifford, convinto che sappia di un lascito ereditario. La violenza trattenuta del giudice si manifesta nell’aspetto e nelle espressioni: «Ciò che rendeva più terrorizzante l’aspetto era il fatto che esso sembrava esprimere non odio o ira, ma una certa furibonda e crudele risolutezza, tesa ad annientare tutto tranne se stessa» (ivi, p.158).

Insomma, dato il luogo e la sua storia, il romanzo alla fine lascia emergere i personaggi, che si fanno “caratteri” la cui natura emerge “stabile” nel tempo. Ognuno dei cinque personaggi principali incarna uno specifico “modo d’essere” che eredita anche dal passato, tant’è che certe «malattie morali» sembrano tramandate «da una generazione alla successiva» (ivi, p. 148). Questa perennità di caratteri, questa immodificabilità della natura, passa sia attraverso cambiamenti storici importanti come l’apertura ai commerci (la bottega di Hepzibah), la transitorietà del lavoro (le occupazioni di Holgrave prima di diventare fotografo: maestro di scuola, venditore ambulante di profumi, redattore di giornale, odontoiatra); che attraverso pratiche e credenze diffuse, dall’ipnotismo al mesmerismo al potere medianico, alla “fissazione” iconica che transita dall’esclusività sociale del ritratto pittorico e arriva alla democraticità di quello fotografico, che tutte sembra raccoglierle: tecnica, conoscenza, mistero, e “immagine del morto”, come vediamo nel finale con l’effigie del giudice, catturata da Holgrave e mostrata a Phoebe.

La morte, il tempo e il passato incombono sul presente attraverso la casa: «Non riusciremo mai, mai, a liberarci di questo passato? Sta addosso al presente come il corpo morto di un gigante […]. Pensateci solo un attimo – dice Holgrave rivolgendosi a Phoebe –: sbalordirete a vedere quanto siamo schiavi dei tempi passati, della Morte, se vogliamo dirla giusta […]. Se ogni generazione avesse la facoltà e l’obbligo di costruirsi le proprie case, quest’unico mutamento, relativamente trascurabile in sé, implicherebbe quasi ogni riforma che la società agogna» (ivi, pp. 217-218). Ma nel finale tutto lo stanco, il vecchio, il fatiscente della casa e dei suoi occupanti viene liquidato. Morto di morte improvvisa il giudice (esattamente come l’avo), il resto della compagnia lascia la casa e i due giovani si riconoscono innamorati e pronti a convolare a nozze. E dunque a rinnovare il mondo: «La beatitudine, che rende ogni cosa vera, bella e santa, circonfondeva di splendore il giovane e la fanciulla. Non erano consapevoli di antichità e mestizia. Trasfiguravano la terra: tornavano a fare di essa l’Eden e di se stessi i due primi abitatori» (ivi, p. 352).

Ecco che la frattura nel tempo, l’apertura di un tempo nuovo, la chiusura dei conti con il passato non aprono semplicemente il futuro storico del commercio, del treno (su cui fuggono per breve tempo i due anziani fratelli Pyncheon), dell’elettricità (“intelligenza onnipresente”) e della fotografia. Il tempo nuovo è un’immagine intemporale di beatitudine, un’immagine edenica dove il romance trasfigura l’identità dei personaggi, il loro nome proprio, il loro carattere.

E allora vediamo che al fondo della dialettica passato-futuro, vecchi-giovani, morte-vita, odio-amore, la casa e il suo fuori, c’è forse qualcosa di più, e di diverso, che attraversa il romanzo e i suoi personaggi. Partendo da quelli marginali, come il vicino di casa, il fool Zio Venner, che «in generale era stato considerato scarsetto di senno anzichenò» (ivi, p. 84), quando rivela l’errore inscritto nella proprietà e nell’accumulo: «Che sbaglio, dico io, fanno gli uomini a cercare di ammassare beni  su beni! […] Io sono di quelli che pensano che l’Infinito è grande abbastanza per tutti, e l’Eternità abbastanza lunga!» (ivi, p. 188).

Non nei beni né nella proprietà è la felicità. Ma è nella grazia di una vita gratuita e armoniosa. Tale grazia accompagna anche lo spettacolo di un ragazzo italiano, che con un organetto a manovella passa proprio sotto le finestre della casa. E, con le statuine che hanno a «domicilio la cassa di mogano dell’organetto e per principio vitale la musica» (ivi, p. 195), inizia a suonare, e «si poteva davvero dire che la piccola comunità fortunata conducesse un’esistenza armoniosa e, letteralmente, facesse della vita una danza» (ivi, p. 195).

La ricerca di un’armonia della vita attraversa anche la sensibilità inquieta di Clifford, e la sua pretesa di felicità. La rivendicazione di un diritto alla felicità («Voglio la mia felicità» dice, con parole nelle quali risuona il Pursuit of Happiness della Dichiarazione di Indipendenza americana) prende corpo in situazioni di gioco. Una che osserva dal treno: «Dobbiamo essere felici! – dice alla sorella – Felici come quel giovanotto e quelle belle ragazze che giocano a palla!» (ivi, p. 298). E poco prima, affacciato dalla finestra di casa, pensava che «poche cose gli piacevano quanto affacciarsi alla finestra ad arco e osservare una ragazzina che faceva correre il cerchio lungo il marciapiede» (ivi, p. 203).

E Holgrave va oltre e dà un profilo politico a questa ricerca di gioco e di gioia, riconoscendo − lui che aveva trascorso «alcuni mesi in una comunità di fourieristi» (ivi, p. 211) − che al fondo della saggezza di zio Vennier e della sua idea di felicità «ci siano i principi di Fourier. Lo stesso Hawthorne era stato tra i fondatori della Brook Farm, la comunità utopistica − ispirata ai principi di Charles Fourier − che tra il 1841 e il 1847 aveva raccolto in Massachusetts  intellettuali trascendentalisti. La storia sarà al centro del successivo romanzo The Blithedale Romance del 1852. Ma in La casa dei sette abbaini il sentimento di un Eden appare nelle maglie vincolanti, ma anche nelle «onde fluttuanti» della vita sociale, tra credenze, valori, nuovi mezzi di espressione (fotografia) e di traslazione (treno), e mutamenti epocali (elettricità).

E al fondo di questo “realismo” (anche economico, di cui parla Matthiessen) si vede emergere la vita come “gioco” e come “danza”. E si vede esprimersi il senso più profondo della vita stessa, cioè la ricerca di felicità. Questo senso, che lo si può percepire solo attraverso lo sguardo decentrato del fool, dell’artista, del vecchio sensibile, trova compimento nella beatitudine più alta, nel momento festivo e contingente in cui la Natura si fa Spirito: «Era il mattino della domenica; una di quelle domeniche luminose e tranquille, con la caratteristica atmosfera sacrale, quando il cielo sembra diffondersi sulla faccia della terra con un sorriso solenne […]. In una simile mattinata domenicale, se fossimo puri abbastanza per esserne il tramite, ci avvedremmo dell’adorazione naturale della terra che si leva al cielo attraverso i nostri corpi» (ivi, p. 199).

Nathaniel Hawthorne, La casa dei sette abbaini, Il Saggiatore, Milano 2021.

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