reale e realtà
Bellas mariposas (Mereu, 2012).

Nel DNA del cinema italiano, bisogna ammetterlo, c’è passione per il reale, almeno a partire dal neorealismo; ma è una passione che pervade un po’ tutti i generi, compresa la commedia (vedi quanto scrive Roberto De Gaetano, a proposito della “commedia cinica”, in Cinema italiano: forme, identità, stili di vita). Peraltro, quando si usa l’aggettivo sostantivato “reale”, anche in senso non lacaniano, bisogna sempre fare i conti, lo si voglia o no, con l’assonanza/differenza rispetto al termine “realtà”. Perché cinema del reale, e non cinema della realtà? Perché passione del reale e non passione della/per la realtà? Può capitare a volte, nel discorso, di scambiare i due termini, ma la prevalenza del reale è assoluta, e non a caso, sia in Badiou, sia in Daniele Dottorini, che prende in prestito il termine, in La passione del reale, per parlare di cinema documentario, si finisce per parlare del cinema (in generale) come forma di costruzione empirica del mondo (o dei mondi).

Usare il termine “reale” al posto di “realtà”, significa presupporre un trauma, una mancanza, l’avvento di qualcosa d’inquietante, di qualcosa che manca al suo posto – e quel vuoto, quella mancanza, indicano qualcosa di così orribile da poter essere appena mostrato/narrato. Passione del reale implica allora malessere e sofferenza, passione in senso cristologico, passione dell’umanità, suo calvario, di cui il cinema a lungo non ha voluto saper niente. Come pratica dell’immaginario, ha quasi sempre proposto traumi artificiosi, facilmente ricomponibili in nome del cosiddetto lieto fine. Il lavoro degli sceneggiatori serviva proprio a questo, a inventare storie, ossia traumi da ricomporre; ma, a proposito del neorealismo, c’erano stati traumi troppo grandi (quelli della guerra, dell’occupazione tedesca, delle rovine, della miseria, delle distruzioni) perché si potessero tanto facilmente superare. La passione del reale è come un vizio che si prende, ed è difficile perderlo, malgrado le dosi massicce che ci vengono propinate di narcotici televisivi e para-televisivi.

Pensiamo a un film come Ladri di biciclette (1948), di De Sica e Zavattini. Bazin ne colse subito la novità, identificandola nell’erranza dei protagonisti per le strade di Roma, alla ricerca d’una bicicletta che diviene puro pretesto. Durante questa erranza accadono loro cose impreviste, incontri in apparenza casuali. È il reale che si affaccia nella fiction? Il reale o la realtà? Il reale in quanto trauma era già stato introdotto come idea di sceneggiatura, pretesto dell’erranzaÈ il furto della bicicletta, congegnato secondo un percorso leggibile in senso lacaniano.

La bicicletta è al suo posto nel deposito del banco dei pegni, ed è quindi riscattabile tramite il corrispettivo delle lenzuola: siamo nel campo della realtà. È come cercare un libro in biblioteca e trovarlo dove dev’essere, secondo l’esempio di Lacan. Il reale irrompe quando, mentre Antonio sta attaccando il manifesto di Rita Hayworth, la bici scompare dal suo posto, ossia viene rubata (pretesto dell’erranza); ma è un reale artificioso, un reale di sceneggiatura, che già adombra una ricomposizione finale. La bicicletta non torna al suo posto, che rimane vuoto, ma quel posto è occupato alla fine dal perdono del ciclista derubato, che recupera la sua bici e “non vuole impicci”. Il trauma (nel suo libro, Dottorini non manca di notarlo) è allora in quel disperato allontanarsi in campo lungo di Antonio e suo figlio, analogo all’allontanarsi di Umberto D. col suo cane, dopo la tentazione del suicidio: il reale è nella continuazione dell’erranza, ormai però priva di scopo

Lamberto Maggiorani ed Enzo Staiola, due non-attori, sono qui in veste di attori, e possono farlo perché in fondo il loro milieu d’origine è analogo a quello dei personaggi che debbono interpretare: il ruolo della finzione, nella vicenda, è presente, ma ridotto al minimo. Non si tratta di “superstiti”, ad ogni modo, nel senso del termine latino superest (che Agamben contrappone a testis). Essi sono ancora in grado di raccontare la loro storia, o meglio, di metterla in scena credibilmente. Diverso è il caso, ad esempio, di un ebreo superstite di un campo di sterminio. Può un attore impersonare un simile personaggio? No, rispondeva Lanzmann, è meglio (è più morale) che se ne astenga. In Shoah, Lanzmann fa parlare alcuni di questi superstiti, o meglio, tenta di farli parlare – ma i testimoni sono sconvolti, non solo non riescono a “mostrare”, ma quasi non riescono nemmeno a “raccontare”, ossia a fornire testimonianza verbale.

Non della Shoah, ma dell’emigrazione ebraica negli Stati Uniti (per sfuggire alle persecuzioni in Europa) parla invece Chantal Akerman in Histoires d’Amerique (1989). Preso atto dell’impossibilità di “mostrare” le loro storie, Akerman si rifiuta di farli parlare (testimoniare). Le singole storie sono raccontate, si, ma da attori e attrici. Non so quanti di loro fossero ebrei – magari tutti, o nessuno, ma non ha importanza. Sono attori e attrici (tra loro J. Malina) che impersonano emigrati ebrei, e raccontano: finti testimoni, insomma. La verità emerge dalla finzione, ossia dall’interpretazione, come se Akerman sapesse bene che neppure il racconto (o il silenzio) del vero migrante è garanzia di verità. Raccontare (alla mdp) è possibile solo da parte di coloro (attori, attrici) che non hanno vissuto quelle esperienze in prima persona.

Tornando al cinema italiano, quello d’oggi, quello di cui vale la pena parlare, è innegabile una nuova attenzione al reale, che si esprime non solo tramite il documentario, ma anche attraverso l’accoglienza di istanze metaforiche nel cuore stesso della fiction, e viceversa. Vorrei citare per esempio un film “biografico” come Gli indesiderati d’Europa (Ferraro, 2o18). Il Benjamin di Fabrizio Ferraro non arriva a Portbou, non viene bloccato alla frontiera, non si suicida. L’ebreo senza casa, paradossalmente, trova dimora sui Pirenei, proprio lungo i sentieri impervi che qualche anno prima erano stati percorsi in senso inverso dai repubblicani anti-franchisti, in cerca di scampo verso la Francia. È un attore, ovviamente, sia pure molto somigliante, a interpretare il ruolo: un attore che quasi non parla, che si limita a camminare, seguito da lunghi carrelli, finché, esausto, si abbandona al sonno. Come cuscino usa la valigetta contenente il prezioso manoscritto delle Tesi di filosofia della storia: «Il passato reca seco un indice temporale che lo rimanda alla redenzione. C’è un’intesa segreta tra le generazioni passate e la nostra. Noi siamo attesi sulla terra».

Si conferma qui la centralità del concetto e della pratica dell’erranza, si tratti di fiction o di documentario. In Il segreto, girato nel 2013 da Cyop e Kaf, due artisti del graffito murale, per le strade dei Quartieri Spagnoli a Napoli, seguono un gruppo di ragazzini che, passate le feste, vanno in giro a raccattare alberi di Natale dismessi per trasportarli in un luogo segreto (appunto), uno spiazzo libero tra i caseggiati, dove sorgeva un palazzo crollato a causa del terremoto. Lì i ragazzi, come apprenderemo solo alla fine, intendono celebrare il 17 gennaio la festa di Sant’Antonio con un grande falò, incuranti dei divieti di poliziotti, vigili e autorità varie. La fatica di trascinare per le strade i pesanti abeti è dunque effettuata in pura perdita: tutto è destinato a bruciare in una notte; ma l’accensione del fuoco è espressione di pura gioia, vitalità, manifestazione ludica in puro dispendio, che si ricollega a tradizioni dimenticate.

Erranti  i giovanissimi “attori”, errante la macchina da presa, attaccata a essi, come è attaccata a Benjamin, come è attaccata, per fare un altro esempio, a Caterina e Luna, filmate per le strade e le spiagge di Cagliari da Salvatore Mereu in Bellas mariposas (2012): farfalle in fuga da una casa troppo affollata. Macchina da presa errante e volante, aerea per magia di droni, in Cinema Grattacielo di Marco Bertozzi. Qui i nastri continui delle finestre, in successione orizzontale e verticale, ricordano i fotogrammi della pellicola. Ogni finestra è un’inquadratura, dall’interno verso l’esterno, verso il cielo, le nuvole, la ferrovia, il mare, i voli pazzi delle rondini – ma è anche il riquadro di un’intimità, spiata da un’inquadratura/drone. Il cielo accoglie il manufatto architettonico. Il cielo, le nuvole, le rondini, il vento, la pioggia… ma si potrebbe dire: il cinema. Il cinema, bello o brutto che sia, come il grattacielo, bello o brutto che sia, significa stare al riparo in mezzo alla tempesta, un interno, un dentro protetto nel cuore stesso del fuori.

Accanto ai corpi, a essi collegati, emergono dunque i luoghi, spesso inediti, segreti, mai filmati. Li vediamo nei film di Pietro Marcello (Bella e perduta), di Caterina Carone (Fräulein),di Laura Bispuri (Figlia mia), di Alice Rohrwacher (Lazzaro felice), perfino in un film “in costume” come Macbeth Neo Film Opera di Daniele Campea. Se ne sente fisicamente il degrado anche in un film come Dogman di Matteo Garrone, che personalmente ritengo fin troppo aderente al fatto di cronaca cui si ispira. Il sostegno delle Film Commission regionali assume qui  grande importanza: la linea di attenzione al reale passa anche per il loro lavoro.

Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano,
Cinema italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini, Cosenza 2018.
D. Dottorini,
La passione del reale. Il documentario e la creazione del mondo, Mimesis, Milano 2018.
W. Benjamin,
Tesi di filosofia della storia, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 1962.

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