Proprio quando stavano lentamente smorzandosi i bagliori che hanno accompagnato in questo anno solare il centenario della morte di Kafka, verso la metà di maggio è apparsa la traduzione italiana di Processi. Su Franz Kafka, il libro di Canetti che costituisce di sicuro uno tra i vertici interpretativi dell’opera di Kafka, ma anche della sua vita: di una vita racchiusa in un amalgama talmente instabile di azioni e reazioni contrarie da richiedere a lui stesso, per conferirle una parvenza di continuità, l’ausilio di una scrittura epistolare e diaristica assolutamente straripante.
Non si tratta di un’opera organica, bensì a una raccolta completa dei materiali riguardanti Kafka (pubblicata originariamente in Germania nel 2019) messi insieme da Canetti lungo quasi cinquant’anni.
Kafka, infatti, è stato un viatico irrinunciabile per Canetti, come dimostra la massa di appunti che confluiscono in questo volume (alcuni già presenti nelle precedenti raccolte, altri del tutto inediti) ai quali si aggiungono L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice, uno dei saggi più noti di Canetti pubblicato nel 1968 e altre due conferenze presentate per la prima volta al pubblico italiano: Proust- Kafka- Joyce, del 1948 a cui segue Hebel e Kafka, tre pagine che portano la data del 1980. Se prescindiamo da questi due interventi, di rilievo sicuramente minore, la raccolta degli appunti, ordinati cronologicamente, compone accanto al saggio sulle lettere scritte a Felice Bauer un contributo decisivo su Kafka in grado di intrecciare, finalmente, la sua biografia e le opere al di là degli affollati luoghi comuni riguardanti la presunta eccentricità del personaggio-Kafka.
Ma, fuori da ogni stereotipo, non c’è niente di singolare tanto nell’esistenza quanto nell’opera di Kafka: ecco l’epicentro intorno al quale ruota interamente la riflessione di Canetti. Nel serrato corpo a corpo ingaggiato con l’autore dei Racconti, del Disperso o America, del Processo, del Castello e delle lettere a Felice, egli individua la presenza ossessiva di un solo tema, corrispondente a una tra le parole che ricorrono con maggiore frequenza nel suo lessico: il potere. Quella medesima costellazione semantica nella quale Canetti ha scavato per mezzo secolo con impareggiabile rigore analitico e spregiudicatezza morale. Nessuno come Kafka è riuscito a restituire le particelle elementari, la densità dei coaguli, le torsioni imprevedibili e le spirali associative attraverso cui, di volta in volta, si dispiegano gli effetti del potere. Un dispositivo che, secondo Canetti, Kafka arriva a emancipare dalla genericità delle sue declinazioni usuali per ricondurlo alla scheletrica interazione di forze, più che di intenzioni soggettive, puntualmente in atto. Eccone una prima, ma determinante, verifica:
All’orrore di Kafka per i “paroloni” magniloquenti, dobbiamo il fatto che non esiste di lui un solo scritto che possa dirsi “retorico”. […] Questo orrore tuttavia egli non lo ha mai provato per le parole “potere” e “potente”, che fanno parte invece delle parole per lui indispensabili e mai evitate. […] Ma ciò che egli esprime con un coraggio e una chiarezza senza pari non è soltanto la parola, ma anche la cosa, ossia le infinite sfumature e ambiguità che la parola contiene. Infatti, giacché Kafka teme il potere in ogni sua forma e ha come intento principale della sua vita quello di evitarlo in ogni sua forma, il potere egli lo percepisce, lo riconosce, lo nomina e lo raffigura in tutte quelle situazioni in cui altri sarebbero disposti ad accettarlo come qualcosa di ovvio, (Canetti 2024, pp. 271-272).
Non ci troviamo, dunque, di fronte alla prepotente invadenza di una figura totemica, ma, molto semplicemente, dinanzi a un fascio di proiezioni che si annidano nell’energia pulsionale più immediata. All’interno di questo ambito, solo qui, il potere trova, per Kafka, la sua genesi. Privo di ogni reticenza espressiva, e avviatosi fin da giovane verso la spericolata perlustrazione dei propri investimenti psichici, non gli risulta certo un’operazione difficile dedicarsi ad un’anatomia del potere. Canetti ha perfettamente ragione: «Fra tutti gli scrittori Kafka è il più grande esperto del potere. Egli ha vissuto e raffigurato il potere in tutti i suoi aspetti» (ivi, p. 265).
Attenzione, però: questo non significa che il potere coincida agli occhi di Kafka con le sue accezioni consuete. Per lui il potere ha una matrice e un raggio di azione inerente innanzitutto alla dimensione individuale. Viene a identificarsi con il compimento di qualsiasi progetto, con l’esaurimento di ogni creazione in un atto definitivo. Diventando oggetto, prodotto finito, l’atto del fare si consegna a una strumentalità prestabilita che, mentre celebra il suo potere, dissolve la potenza che le è propria. È uno dei nuclei cruciali della riflessione di Agamben, al centro di vari lavori che compongono Homo sacer. In un saggio autonomo, ricapitolando – a margine di un passo della Metafisica di Aristotele – alcuni caratteri generali della dicotomia potenza-potere, osserva:
Dal fatto che la potenza sia definita dalla possibilità del suo non-esercizio, egli trae la conseguenza di una costitutiva coappartenenza di potenza e impotenza. […] Ogni potenza è impotenza dello stesso e rispetto allo stesso (di cui è potenza). […] Il vivente, che esiste nel mondo della potenza, può la propria impotenza, e solo in questo modo possiede la propria potenza. Egli può essere e fare, perché si tiene in relazione col proprio non essere e non fare. […] Ogni potenza umana è, cooriginariamente, impotenza; ogni poter-essere o-fare è, per l’uomo, costitutivamente in rapporto con la propria privazione, (Agamben 2017, pp. 36-37).
Ogni segmento dell’opera di Kafka, come della sua vita, è il prodotto di questo lacerante conflitto tra la tensione verso il compimento di un progetto, verso la realizzazione di uno scopo, e la corrispettiva rinuncia, l’abbandono che inesorabilmente segue. Non per irresolutezza o incapacità. Esattamente al contrario. Per l’audace, ostinata, sfida lanciata nei confronti di una volontà acquisitiva dietro la quale Kafka intravede distintamente i perversi esiti nichilistici a essa connaturati, la minaccia di un potere destinato a consumare la consistenza di tutto ciò che di volta in volta è oggetto di appropriazione. Ne deriva una lotta sfibrante con la totalità delle presenze che lo circondano, ma in primo luogo con se stesso, con i suoi desideri, intrinseci a quella che Canetti definisce la «debolezza del mondo»:
La debolezza di Kafka è […] diventata la debolezza del mondo, perché egli non finge mai di non vedere il potere al quale cerca di sottrarsi. Per lui il potere esiste sempre, in ogni sua forma, e lui – dalla posizione di impotenza in cui si trova – lo ha raffigurato in ogni sua forma. È particolarmente importante che egli percepisse il potere come una minaccia fisica (Canetti 2024, p. 101).
«La debolezza di Kafka» – che costituisce paradossalmente il presupposto della sua forza granitica – non potrebbe ricevere una spiegazione più aderente. Precorrendo addirittura il cuore della tesi esposta da Canetti in Massa e potere, Kafka non ha mai scorto nel potere una fonte di lusinga, ma lo ha considerato sempre, ed esclusivamente, nei termini di una “minaccia fisica”, che a causa della sua pervasività lo ha indotto a scavare una «tana» (così si intitola uno dei suoi ultimi racconti) nella quale rifugiarsi, solo per sottrarsi ai rischi di un’«assurda libertà». Il potere, infatti, è disseminato dovunque: nella scrittura, quando, mitigando la dissezione anatomica della propria identità, rischia di assumere una forma letteraria conclusa, come in ogni relazione sociale, affettiva (basti pensare alla Lettera al padre) e sentimentale, in questo caso con intensità ancora maggiore data l’esposizione che essa presuppone.
Con coerenza rigorosa, se non implacabile, Kafka cercherà di fronteggiare ciascuna di queste minacce, evitando, però, la semplice via di fuga – che del potere ha tutti i tratti di un simmetrico rovesciamento speculare –, per sfidarle sul loro stesso terreno. Continuando, dunque, a scrivere romanzi e racconti, salvo, poi, lasciarli incompiuti o non pubblicarli e a instaurare una rete labirintica di relazioni sentimentali corrose dal tarlo intermittente di una riflessione che impedisce loro qualsiasi assestamento.
Entro questo groviglio di risonanze tra loro contraddittorie si inscrive il rapporto tra Kafka e Felice Bauer su cui Canetti si sofferma nell’ampio saggio del 1968 L’altro processo. Le lettere di Kafka a Felice. L’impressionante estensione dell’epistolario, che comprende solo le lettere scritte da Kafka, rende tali materiali il documento più esaustivo della spietata esplorazione interiore da lui portata avanti. Nel 1912 conosce Felice, una giovane polacca cresciuta a Berlino, di estrazione piccolo-borghese e senza alcuna pretesa intellettuale. Si fidanza con lei nell’aprile del 1914 per rompere l’unione nel luglio dello stesso anno e – proseguendo intanto nella sua furia epistolare – tornare a stringere nel luglio del 1917 un nuovo legame ufficiale che scioglierà definitivamente cinque mesi dopo. Canetti, nel corso del saggio, si chiede a un certo punto se sia giustificata un’«indagine così minuziosa» sulla «storia di un tirarsi indietro durato cinque anni». La risposta è secca, non lascia dubbi in proposito:
Disporre di un uomo che si offre così totalmente alla conoscenza altrui rappresenta in ogni caso e sotto ogni altro aspetto un incomparabile colpo di fortuna. Ma nel caso di Kafka è ancor più di così, e questo lo avverte chiunque si avvicini alla sua sfera intima. C’è qualcosa di profondamente stimolante in questo ostinato tentativo di un uomo impotente, il quale fa di tutto per sottrarsi al potere in ogni sua forma, (ivi, pp. 264- 265).
L’ossimoro, per quanto dissimulato da Canetti, si rivela stridente. Un uomo che «fa di tutto per sottrarsi al potere in ogni sua forma» non può essere realmente impotente. Deve essersi scontrato con il potere, avere avviato un duello interminabile con esso, trasformando, di conseguenza, la propria impotenza iniziale in un atteggiamento capace di ribaltare la ritrosia, l’apparente astenia emotiva, in una nuova forma di potenza (quella potenza richiamata appunto da Agamben). Kafka, con gli anni, si dimostra consapevole di aver acquisito, grazie anche all’estenuante relazione con Felice, tale potenza: così particolare da risultare generalmente sconosciuta nella sua fisionomia. In un’annotazione dei diari che porta la data del 24 gennaio 1922 non esita a riconoscerla come la stella polare della sua esistenza:
Fermezza. Io non voglio evolvermi in un dato modo, voglio passare a un altro posto che è in verità quel “volere andare su un’altra stella”, mi basterebbe stare vicinissimo a me, mi basterebbe poter considerare come un posto diverso il posto dove sto (Kafka 1972 a, p. 613).
Rimanere fermi, nel medesimo posto, considerandolo, però, un luogo sempre nuovo, diverso. In questa perenne metamorfosi risiede la potenza di Kafka, che nessun potere è riuscito a scalfire.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Homo sacer, edizione integrale, Quodlibet, Macerata 2018.
Id., Creazione e anarchia. L’opera nell’età della religione capitalista, Neri Pozza, Vicenza 2017.
E. Canetti, Massa e potere, Adelphi, Milano 1981.
F. Kafka, Confessioni e diari, a cura di E. Pocar, Mondadori, Milano 1972 (a).
Id., Lettere a Felice. 1912-1917, raccolte e edite da E. Heller e J. Born, Mondadori, Milano 1972 (b).
Elias Canetti, Processi. Su Franz Kafka, a cura di S. Lüdemann e K. Wachinger, Adelphi, Milano 2024.