Il centesimo anniversario della morte di Franz Kafka per il 2024 sta imponendo, anche in Italia e fin d’ora, una imponente messe di riedizioni, nuove prospettive di ricerca, organizzazione di convegni e di celebrazioni varie; tutta una serie di manifestazioni che stanno sancendo, anche a livello critico, una sorta di nuova “canonizzazione” dello scrittore praghese. Naturalmente, Kafka non ha affatto bisogno di tali processi di cristallizzazione – o peggio, di riscoperta – perché il suo stile, la sua scrittura, il suo universo simbolico, nonché la sua fama, sono diventati tanto iconici da farlo diventare l’unico scrittore il cui nome aggettivato sta ad indicare un sentimento più generale e perfettamente riconoscibile, non solo un “termine tecnico” che faccia riferimento al suo universo narrativo (“una burocrazia kafkiana”).

E tuttavia, la preparazione del centenario reca riconoscibili i tratti editoriali di un tale processo di canonizzazione – che si esprime attraverso il singolare processo di filologizzazione e al contempo di leggibilità assoluta della sua produzione. Si prenda il caso della nuova edizione del Processo, che il Saggiatore ha dato alle stampe, per la cura di Valentina Tortelli, che firma anche una telegrafica ma molto interessante nota finale, Nell’imperscrutabilità del Processo, (Kafka 2023, pp. 265-268): il volume non differisce affatto dalle altre edizioni in commercio, giacché ripresenta, di tutte le sezioni concepite e scritte da Kafka in forma originariamente slegata tra loro, la sequenza in fondo più plausibile, che è quella fornita dall’amico Max Brod – dalla calunnia, all’arresto e alle conseguenti indagini e insicurezze di Josef K., che alla fine viene misteriosamente condannato a morte – e che ci permette ancora oggi, a distanza di più di un secolo, di apprezzare la lineare semplicità di un autore come Kafka, dietro la quale si aprono abissi misteriosi e insondabili.

Eppure, se andiamo a vedere in terza di copertina il titolo originale riportato per questa nuova traduzione, troveremo la dizione Der Proceß, che è il titolo che Kafka avrebbe dato al costituendo romanzo, prima di invitare dal letto di morte l’amico a darlo alle fiamme – laddove invece Brod, nel normalizzare ductus narrativo, punteggiatura e ortografia dell’amico, utilizzerà invece la definizione più affermata e “moderna” di Prozeß. Si tratta come si vede di una distinzione kafkianamente infinitesimale, ma percepita come decisiva, tra una “c” e una “z”.

In essa ne va cioè – appunto – della filologia kafkiana che, come ricorda Tortelli per questo caso specifico, appare come una sorta di “restauro conservativo” volto a mostrare «le cicatrici di una stesura non lineare» (ivi, p. 266), che è quella appunto del Processo. Il quale dunque si legge ora, nel solco dell’edizione critica tedesca stabilita da Malcom Pasley (alla base anche della distinzione tra Proceß e Prozeß) senza però che queste cicatrici disturbino particolarmente la lettura – anzi: lo stile traduttivo di Valentina Tortelli (che in questo non ha nulla a che invidiare con l’edizione ad esempio di Anita Raja, la quale pure si confrontava con l’edizione critica stabilita da Pasley) è molto piacevole, e molto “kafkiano” (inteso qui come aggettivo tecnico, naturalmente), e insomma restituisce piuttosto bene al lettore colto come allo specialista l’atmosfera precipua del cosmo narrativo dello scrittore praghese.

Del resto, l’editore ha pubblicato anche gli altri due romanzi di Kafka, Il castello e Il disperso (che è il “vero” titolo di ciò che noi conosciamo come America: anche qui, la filologia incrocia fruttuosamente la leggibilità), in una sorta di ideale trilogia di tale cosmo narrativo. Il quale cosmo narrativo è davvero tanto articolato e frastagliato, che in tal senso appare perfettamente naturale che un romanzo come Il processo si presenti scandito, più che da capitoli, da “finestre” narrative da cui fanno capolino volta a volta personaggi, situazioni, dialoghi, che insieme, piano piano ma inesorabilmente, compongono una sequenza che alla fine organizza una “storia”, che nella sua linearità cela veri e propri paradossi quantistici. Paradossi che la filologia kafkiana che si incarica di segnalare aporie, paradossi e incongruenze stilistiche, ortografiche e narrative, prova a indicare – senza che per questo la lettura ne venga in qualche modo disturbata.

Per fare un esempio, noto agli specialisti: il racconto che il sacerdote fa a K. in quel misterioso duomo, buio e deserto, in cui il protagonista si reca per organizzare la visita di «un corrispondente italiano cui la banca teneva in modo particolare» (ivi, p. 197), e che racconta di «un uomo di campagna» che si presenta davanti alla «porta della legge» controllata da un guardiano, era stata già pubblicata, nella sua insularità parabolica, sulla rivista sionista “Selbstwehr” nel 1915 (cioè nello stesso periodo in cui Kafka stava scrivendo Il processo). Il breve racconto/apologo è stato oggetto di infinite interpretazioni, ed è comunque indubbio che rappresenti, proprio in virtù della sede di pubblicazione, un confronto di Kafka con il sionismo, la riscoperta dell’identità ebraica, i paradossi della Legge espressi nella forma di un palazzo dagli infiniti ingressi, tutti rigidamente sorvegliati e di fatto intransitabili; ma diventa ora, in maniera inavvertita ma decisiva, un momento centrale dell’“avventura” di K. nel romanzo, venendo messo in bocca a un sacerdote cristiano.

Si tratta di una più o meno elegante rifunzionalizzazione di un’idea precedente, di un’incongruenza, di una astuzia narrativa dello scrittore – o piuttosto, al contrario, di una profonda verità intorno ai misteri kafkiani in quella westjüdische Zeit di cui parlava Baioni indagando l’ebraismo di Kafka? Come è evidente, la domanda è destinata a restare senza risposta; ma è significativa della posizione della scrittura di Kafka rispetto al suo lettore, che al limite può essere del tutto inconsapevole di questi “abissi” filologici dietro il testo.

«Il paradosso della scrittura kafkiana si sdoppia in una finitezza non finita» (ivi, p. 267): così Valentina Tortelli conclude le sue brevi note al romanzo – con ciò sottolineando uno dei tanti paradossi che animano lo stile di Kafka; quello stile che – come sottolinea Benjamin nel suo saggio scritto per i dieci anni della morte – pensa per ère: «ere intere deve spostare l’uomo nell’atto di imbiancare» (Benjamin  2004, p. 129). Una tale “finitezza non finita” esprime dunque uno sprofondamento negli abissi del tempo e della scrittura, senza che per questo tutto ciò si risolva in una compiuta “metafisica”, in un discorso coerente e unitario sulle profonde verità dell’esistenza; la scrittura di Kafka resta sempre invece sulla superficie, del tempo e della narrazione, dopo averla infranta con l’ascia della letteratura (come ricorda un suo celebre aforisma), permettendo in tal modo al lettore di inabissarsi, senza accorgersene, negli abissi di questa infinita, ma perfettamente leggibile complessità.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Franz Kafka. Nel decennale della morte, in Id., Scritti 1934-1937, Einaudi, Torino 2004.

Franz Kafka, Il processo, il Saggiatore, Milano 2023.

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