C’è una “scena americana” in Kafka, ben distante da quelle di Henry James. È la scena di America, il titolo che Max Brod dà al romanzo, o Il disperso, quello a cui pensava lo stesso Kafka, che parlava comunque della sua opera come del «romanzo americano». Il primo dei suoi romanzi, incompiuto come gli altri, ma diverso dagli altri. Perché è appunto abitato da una scena, quella dell’America di inizio Novecento, e degli emigranti che vi approdano lasciando l’Europa.

È una visione quasi cinematografica quella che ha il sedicenne Karl Rossmann arrivando a New York: «Entrò nel porto di New York a bordo della nave che aveva già rallentato, vide la statua della dea della libertà, che da tempo stava osservando, come circonfusa da una luce solare fattasi improvvisamente più intensa. Il braccio con la spada svettava come se fosse stato appena sollevato e i venti soffiavano liberi attorno alla figura» (Kafka 2019, p. 31). Abbiamo non solo la fiaccola della Statua della Libertà trasformata in spada, ma anche l’intensificazione della luce solare e il soffiare del vento, il tutto visto attraverso lo sguardo di Karl nel movimento rallentato della nave in avvicinamento.

Ma questo incipit, che sembra avviare, con la trasfigurazione visionaria di una percezione, un romanzo di formazione (secondo il riconosciuto modello dickensiano), si interrompe subito dopo, e quella New York si anima, come in una favola, generando un moltiplicarsi di sguardi dal mondo sull’eroe: «Sullo sfondo, infine, c’era New York che guardava Karl con le centomila finestre dei suoi grattacieli» (ivi, p. 39). Quella New York a cui a Kafka fanno da guida le parole e le immagini di Amerika di Arthur Holitscher, pubblicato proprio nel 1912, anno di inizio de Il disperso.  

Il racconto dell’America di “oggi” e  di “domani” che fa il reporter tedesco, da cui Kafka eredita anche errori di denominazione di luoghi (Oklahama invece di Oklahoma), emendati dalla solerzia scolastica di Max Brod, non arriva però di fatto alla pagina dello scrittore praghese. Karl non vede mai veramente New York: «Non riuscivano a capacitarsi del fatto che Karl fosse stato per oltre due mesi a New York senza aver visto quasi altro della città che una sola strada» (ivi, p. 119).

La geografia delle città, che l’avvio del romanzo lasciava presupporre come sfondo di un’azione possibile, si interrompe subito, ritornando solo nelle cartografie errate in cui San Francisco si trova ad est di New York, o Boston al di là del ponte sull’Hudson. Pur partendo da una situazione immaginaria verosimile, il romanzo l’abbandona dunque subito, rendendo dominante il carattere astratto dello spazio che Karl attraversa: la casa dello zio, la villa vicino New York, l’albergo Occidentale, l’appartamento di Brunilda. Sono spazi-dispositivi, in cui i personaggi sono calati, e non ambienti in cui un’azione quale che sia possa compiersi.

L’immaginario dell’emigrazione europea in America è comunque presente. Karl è composto di tale immaginario, sia di fuga che di nostalgia: fuga per essere stato sedotto ed aver messo incinta la domestica; nostalgia che significa voler restare a New York, cioè vicino al mare da cui è arrivato, che vuol dire vicino alla possibilità di tornare a casa: «A New York c’era il mare, e quindi la costante possibilità di far ritorno al suo paese» (ivi, p. 118). Ma il rapporto con il passato non è una opportunità, mai. Tantomeno per un emigrante, che invece resta lì a maneggiare la foto dei genitori, a riattivare un complesso “romanzo familiare”, con «il padre e la madre che lo guardavano severamente mentre lui, sollecitato dal fotografo, aveva dovuto tenere gli occhi fissi sull’apparecchio» (ivi, p. 113).

La scena americana è presente anche nelle forme della sua destituzione: il gigantismo, l’efficienza tecnologica e la terra delle innumerevoli possibilità tradotte nelle «innumerevoli porte» dell’albergo Occidentale (Deleuze, Guattari 1996, p. 7). Il romanzo presenta una serie di stazioni di una formazione senza formazione (non c’è soggetto che faccia esperienza), di una dispersione senza tragitto, di incontri che si dimostrano trappole, fino alla scena finale del Teatro di Oklahoma. Qui vediamo un salto netto dalla visione cinematografica dell’inizio (l’arrivo a New York) al dispositivo teatrale finale, il «teatro naturale» di Oklahoma, «il più grande teatro del mondo», dove tutti vengono accolti e «ognuno è benvenuto», e può giocare il suo ruolo come meglio crede, da attore («sono stato assunto come attore disse Karl», Kafka 2019, p. 280) a «operaio tecnico».

Ognuno è disponibile a più ruoli, a recitare se stesso e a recitare altro, a recitare se stesso in quanto altro, usando, come fa Karl, perfino il soprannome di “Negro”, al posto del suo vero nome. Le competenze che servono sono vaghe, l’assunzione nel teatro è legata alla mera presenza: «Il mondo di Kafka è un teatro universale. Per lui l’uomo è naturalmente in scena. E la prova è che sul teatro naturale di Oklahoma tutti vengono assunti. È impossibile comprendere secondo quali criteri avviene l’assunzione» (Benjamin 2014, p. 289).

Se è vero dunque, come dice Roberto Calasso, che «se c’è un romanzo che permette di capire che cos’è il cinema, è Il disperso» (2021, p. 115), è anche vero che il salto dall’inizio, l’epopea dell’emigrante, alla fine, la scena del Teatro dell’Oklahoma, sancisce il passaggio dal cinema classico al cinema moderno:

Il primo numero di Busby Berkeley è quello descritto nel Disperso, quando Karl Rossmann vede, su una lunga piattaforma, centinaia di donne vestite da angelo, arrampicate ciascuno su un piedistallo di diversa altezza, nascosto dalle loro vesti. E tutte suonano lunghe scintillanti trombe d’oro. Questa è la scena originaria del musical […]. E intendo per musical allo stato puro quella strepitosa fioritura di film che si manifesta nei primi venti anni del sonoro. Busby Berkeley è il suo nome tutelare. Ma lo era in quanto emissario del Grande Teatro di Oklahoma (ivi, p. 130).

L’invenzione della “scena”, il passaggio al “numero” e all’«ottico-sonoro puro» – di cui parla Deleuze – è il contrassegno della modernità cinematografica, inventata da Kafka. La ragione per cui Federico Fellini, il più grande inventore di scene cinematografiche della modernità, amava Kafka, amava America.

Ma questa modernità, di cui l’Europa è stata importante matrice creativa, ha trovato negli Stati Uniti d’America la sua grande e ineguagliabile invenzione: si è fatta lì forma di vita, “teatro naturale” appunto. Questo “teatro naturale” è il farsi scena, dunque piena realtà, del mondo intero. Un mondo ricco di possibilità indeterminate, che allo stesso tempo seducono e smarriscono, attraggono e respingono, senza che le competenze svolgano alcun ruolo. Se la vita è un “teatro naturale”, l’America è senza dubbio il palcoscenico più grande.

E Karl Rossmann, giunto come emigrante, nel finale sarà un americano, segnato dallo spaesamento stupito di chi attraverserà quel continente, la sua vastità, il suo paesaggio sterminato come in un western: «Viaggiarono per due giorni e due notti. Karl si rese conto adesso della vastità dell’America. […] Si aprivano valli strette e frastagliate […]. Larghi torrenti di montagne scendevano rapidi, come a grandi ondate sul fondo accidentato e, spezzandosi in mille rivoli schiumosi, precipitavano sotto i ponti su cui il treno passava, così vicini che il loro alito fresco faceva rabbrividire il volto» (Kafka 2019, p. 287).

La scena americana fattasi scena musical o paesaggio western, liberata da statue e da foto di famiglia o di presidenti americani («La fotografia rappresentava il palco del presidente degli Stati Uniti», ivi, p. 283), alimenterà il desiderio “innocente” di libertà, di essere – come dice Kafka in un racconto di poche righe di Meditazione – «almeno un indiano, subito pronto e sul cavallo in corsa» (Kafka 2006, p. 132).

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Franz Kafka, in Angelus Novus, Einaudi, Torino 2014.
R. Calasso, Allucinazioni americane, Adelphi, Milano 2021.
G. Deleuze, F. Guattari, Kafka. Per una letteratura minore, Quodlibet, Macerata 1996.
F. Kafka, Desiderio di diventare un indiano, in Racconti, Mondadori-Meridiani, Milano 2006.
Id., America o Il disperso, Feltrinelli, Milano 2019.

Tags     America, Kafka, migrazione
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