Il gesto che anima il volume Virale. Il presente al tempo dell’epidemia riguarda il fatto che ciò che merita di essere pensato in questa pandemia sono in primo luogo gli effetti del virus. Effetti individuali, sociali, culturali, antropologici, che riguardano le nostre forme di vita, e che segnano la risposta data all’epidemia. Qui non è in questione la dimensione medico-sanitaria del virus stesso. Non è in gioco cioè la sua pericolosità, di cui i medici ci hanno detto, sia pur in modo non concorde, confermando che la medicina più che una scienza esatta è una pratica sperimentale, un’“arte”. La pretesa di essere depositaria di verità inconfutabili, traducibili in altrettante direttive di governo della popolazione, trasforma il sapere medico in un potere più pervasivo e invasivo di altri: Foucault (1982) e Illich (2013) ce l’hanno ben mostrato. Il virus da un lato è un reagente per leggere tutto il nostro presente, dall’altro un acceleratore di processi di lungo termine, che definiscono la nostra modernità, e che il termine “biopolitica” — cioè la rottura dei confini tra il biologico e il politico, su cui ha insistito Roberto Esposito (2020) — riassume nel modo migliore.

Tempi

La prima cosa che emerge guardando attraverso (per usare una espressione wittgensteiniana) il virus è un’immagine sincronica della storia del mondo e dell’umanità, dove falde di tempo passato emergono e coesistono nel presente.

Il virus mostra i tratti di un’era geologica “pre-umana”, evidenziando l’“illusorietà” dell’Antropocene. Non si tratta solo di riconoscerne la fine (sarebbe ancora una posizione di tipo escatologico), ma forse il mai avvenuto inizio, e di prendere atto del fatto che la Natura non si è mai occupata di noi (ben ricambiata). Gli siamo indifferenti da sempre, come pensava Leopardi. E la vita indiscriminata — di cui fa parte anche il Coronavirus — procede nella sua radicale indifferenza verso l’umano. Come testimoniano gli animali che hanno occupato i luoghi abbandonati dagli uomini.

Il virus mostra un contrassegno “antico” (greco) nell’esposizione dell’umano all’incontrollabilità di un “fuori” che ne segna il destino. Qui si vede il profilo eminentemente tragico della condizione attuale, in cui emerge la colpevolezza incolpevole dell’uomo, legata alla sua innocenza, alla sua corporeità, che diventa minacciosa anche nel “portatore sano” del contagio.

Il virus mostra la permanenza di questo tragico anche nella prospettiva cristiana, come nelle parole con cui papa Francesco ha aperto la sua benedizione del 27 marzo 2020: “Fitte tenebre si sono addensate nelle nostre vite”. In quelle parole e nell’immagine desertificata di piazza S. Pietro vediamo una ripresa della visione apocalittica del mondo, dove il “cosmo” della visione “pagana” si è smarrito, perché «We have lost the sun» (Lawrence 2002, p. 77), e restano solo le tenebre. Immagine di certo più efficace di quella che ha visto papa Francesco passeggiare per via del Corso per un raccoglimento intimo di preghiera. Nessuna intimità sembra ora immaginabile, esposti a questa “esteriorità” senza controllo.

Il virus mostra chiaramente — risalendo nella cronologia storica — anche il tempo di una prima modernità, dove la pretesa forza dei “lumi” e della “scienza” mette alle corde perfino credo e pratiche religiose (luoghi di culto chiusi per Pasqua) e riti di congedo dai morti (funerali interdetti).

Il virus mostra anche i contrassegni di dissoluzione della seconda modernità, quella novecentesca, non solo per la liquidazione delle folle (ora “assembramenti”), iniziata nella seconda metà del Novecento, ma per il più radicale processo di insularizzazione sociale su cui già sociologi tedeschi della prima metà del Novecento ragionavano (Anders 2016). Di questa seconda modernità viene messo in questione anche l’incrociarsi di mezzi di traslazione e mezzi di espressione (come ci ha ricordato Deleuze, 2006, p. 125), del contemporaneo spostamento di corpi ed informazioni: ora la separazione è netta. La stanchezza dei corpi, il loro svuotamento (che il cinema moderno — a partire da Antonioni — ha raccontato meglio di altri), si sono trasformati in paralisi, in immobilità. Ora i corpi sono depositari di un male potenziale che li lascia fermi, lasciando campo aperto alla sola circolazione delle menti e delle informazioni.

Guardare attraverso il virus significa dunque proiettare questa archeologia, questa impressionante stratificazione temporale di valori, pratiche, segni, in un presente che ne è il punto di raccolta ma anche il dinamizzatore. Come nel caso della convergenza tra potere disciplinare, che distribuisce corpi nello spazio (tra case, ospedali e un “aperto” vietato), potere di controllo, dove la libera circolazione degli stessi corpi è sorvegliata a distanza da app, e potere sovrano che istituendo lo stato d’eccezione (emergenza) può procedere per decreti, eludendo anche il confronto parlamentare.

Discorsi

Guardare attraverso il virus significa guardare anche attraverso i discorsi che lo hanno accompagnato. E due sono sostanzialmente le grandi forme del discorso apparse sulla scena pubblica. Entrambe fondate su una immagine del futuro che prefigura scenari nuovi (“Nulla sarà come prima”): una di tipo apocalittico, l’altra profetico.

La prima tende a disegnare un futuro indeterminato, nel quale viene post-posta continuamente la fine (è il “postponed destiny” come uno dei grandi contrassegni dell’apocalittico: Lawrence 2002, p. 84), che non è mai tale. La fine è sempre provvisoria, può preludere ad una nuova ripresa della circolazione del virus, e dunque si rendono necessarie misure continuative di contenimento e di controllo. Questo è di fatto il discorso del potere medico-politico, animato da una non esplicitata visione apocalittica. E dove la paura diventa il motore interno di tale discorso e di tale esercizio del potere, dietro l’apparente ricerca di cura e sicurezza.

L’altra faccia di questa visione apocalittica implicita è quella che la rende esplicita, evidenziando in questo esercizio del potere la volontà di rendere indeterminato e illimitato lo “stato di eccezione”, per dominare le nostre vite. Il “fantasma” che sta dietro le pratiche di contenimento (icasticamente rappresentato dall’invisibilità del virus e dalla sua onnipresenza) prende la forma inquietante di un potere pervasivo teso al dominio: «L’Apocalisse è la grande sicurezza militare, poliziesca e civile del nuovo Stato» (Deleuze 1997, p. 64).

Una seconda forma di discorso è di tipo profetico: il futuro non è più indeterminato, ma sarà quello che affermerà la fine del capitalismo e l’avvento del comunismo (Žižek 2020, ha insistito a più riprese su questo). Il virus diventa allora l’operatore per individuare il segno di una democrazia futura, indifferente alle classi e alle razze, intorno al quale immaginare e progettare un mondo a venire in cui le disuguaglianze sono ridotte se non cancellate.

Sospeso tra apocalisse e profezia, il discorso rischia di farsi inefficace e sterile. Come tale è stato anche il discorso illusoriamente ed emotivamente connotato della popolazione in reclusione domestica, che annunciava l’happy end (“andrà tutto bene”) o intonava canti alle finestre per una festa che aveva soprattutto i tratti di un rito apotropaico.

Guardare oltre il virus

Senza proiettare in un futuro perennemente differito o dai tratti utopici, la questione che viene posta dall’attuale epidemia richiede un discorso al presente.

La circolazione orizzontale del virus, il suo attraversamento dei gradi dell’organico (dall’animale all’uomo), degli stati della materia (gassosa, solida e liquida), testimonia della determinazione di concatenamenti immanenti, dove l’uomo diventa il grande medium di veicolazione sia in quanto corpo che in quanto intermediario comunicativo. Il punto è che il concatenamento immanente del Coronavirus con l’uomo può avere degli effetti distruttivi gravi. Una volta entrato in contatto con un corpo, nessun equilibrio omeostatico può essere previsto (come accade per esempio con l’herpes). Il concatenamento diventa un duale d’azione: uno dei due l’avrà vinta, o il virus o il sistema immunitario del paziente. E non sempre il successo di quest’ultimo è garantito, anche se assistito da cure e medicine.

Dunque quel concatenamento foriero di contagio va interrotto. L’interruzione comporta però anche quella del contatto dell’uomo con il mondo e con gli altri uomini, e l’inibizione del senso fondamentale che lo guida: il tatto. La riconfigurazione presente del sensibile si fonda sulla cancellazione del tatto (la mano protetta dal guanto) e della prossimità (distanziazione sociale), a vantaggio del senso della vista e della sua naturale “distanza”, ora mediata soprattutto dagli schermi e dalla loro moltiplicazione come interfacce di conversione tra il “dentro” e il “fuori”.

Ora, questa interruzione del concatenamento orizzontale dei corpi e dei sensi è stata trascesa verticalmente — come abbiamo visto — dal discorso “apocalittico” e da quello “profetico” (in senso religioso o meno) e differita temporalmente. Il piano di immanenza a cui rimanda il concatenamento virale in entrambi i casi viene eluso. Ma è da lì che bisogna ripartire, ribaltando la distruzione in creazione.

Come farlo? L’interruzione, il vuoto, l’eclisse spazio-temporale, inclusi nel lockdown, non sono riusciti a produrre nessuna forma di raccordo inedito. Effetto di un potere disciplinare, hanno determinato solo perimetri di movimento limitato, temporalmente misurato, necessariamente motivato. La rottura è diventata gabbia, stallo individuale e sociale.

L’arte ha saputo da sempre reinventare le forme del sensibile, far nascere da una malattia una espressione, da una mascherina sanitaria una maschera finzionale, capace di scartare dall’identità assegnata, di sorprendere, di non stare mai al posto previsto, di rilanciare l’interruzione su uno spazio di vitalità inedito.

Una politica inventiva deve ora saper far questo. Liberarsi una volta per tutte della guida di esperti sanitari, di scienziati il cui sapere è stato messo sotto scacco dal tratto cangiante ed inafferabile del virus, che ha trovato solo in certe antiche pratiche, che potevano fare a meno di tanta scienza, l’unica risposta certa: distanza sociale e igiene. Le risposte che hanno sempre accompagnato tutte le esplosioni epidemiche. Una politica ora, piuttosto che continuare ad elevare verticalmente i dispositivi di controllo sullo stato e i movimenti dei corpi, deve saper costruire un concatenamento orizzontale di strutture e servizi sanitari distribuiti sul territorio (sottratti alla centralità sacra dell’ospedale), deve saper reinventare gli edifici scolastici attraverso cui far passare il costituirsi più dinamico e integrato di una comunità in formazione di docenti e studenti, deve sapersi curare di un ambiente trasformato nel “luogo” che una comunità deve abitare, deve occuparsi e tener sempre conto della continuità delle “specie animali” (per evitare di scoprirla traumaticamente); deve sapersi occupare delle cosiddette fasce deboli (anziani, poveri) non solamente per garantirne una “permanenza in vita” ma per restituire loro una “qualità di vita” più degna, deve saper incontrare in forma inclusiva chi fugge e arriva ai nostri confini perché da quell’incontro più che una minaccia ne potrebbe nascere una opportunità, e via dicendo.

Questa politica è l’unica capace di connotare, ribaltandolo, il piano di immanenza tracciato dal virus, trasformandolo in opportunità e non in distruzione. Trasformare un concatenamento che uccide in uno che genera. Il tutto senza abbandonare il piano di immanenza, senza trascenderlo in forma illusoria.

La nascita possibile di questa politica non può essere una mera concessione di uno stato securitario, ma deve emergere dalla pressione di una collettività sia pur distante, anche nelle forme di un raccordo pezzo su pezzo di spazi-tempo, di pratiche, di contatti ripresi, di esperienze e di enunciati. E anche di proteste, dove la distanza può essere anche il contrassegno teatrale di una moltitudine-contro, come nel caso della manifestazione di Tel Aviv contro Netanyahu.

Al di là di questo, guardando oltre il virus, restano solo i dispositivi di un potere di controllo che col miraggio, e la scusa, di controllare il virus, di fatto si autoalimenta ipertroficamente, prosciugando in forma inquietante vita individuale e sociale.

Il transito da tale potere verticale ad una politica orizzontale risiede anche nelle nostre mani. Sta anche a noi saper compiere l’invenzione per eccellenza, quella di trasformare una mascherina in una maschera, un angosciante mondo distopico (diviso tra sanatorio e spazi di reclusione) in una vitale scena teatrale.

Riferimenti bibliografici
G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, Orthotes, Napoli 2016.
G. Deleuze, Critica e clinica, Raffaello Cortina, Milano 1997.
Id., L’immagine-movimento. Cinema 1, Einaudi, Torino 2016.
R. Esposito, Immunitas. Protezione e negazione della vita, Einaudi, Torino 2020.
M. Foucault, Nascita della clinica, Einaudi, Torino 1982.
Id., Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Einaudi, Torino 2014.
I. Illich, Nemesi medica. L’espropriazione della salute, Red, Milano, 2013.
D.H. Lawrence, Apocalypse and the Writings on Revelation, a cura di M. Kalnins, Cambridge University Press, Cambridge 2002.
S. ŽiŽek, Virus, Ponte alle Grazie, Firenze 2020.

Virale. Il presente al tempo dell’epidemia a cura di Roberto De Gaetano e Angela Maiello, Pellegrini, Cosenza 2020.
Saggi di: Olimpia Affuso, Pierandrea Amato, Paulo Barone, Marcello Walter Bruno, Gianni Canova, Alessandro Cappabianca, Mauro Carbone, Dario Cecchi, Francesco Ceraolo, Alessia Cervini, Felice Cimatti, Roberto De Gaetano, Daniele Dottorini, Roberto Esposito, Ruggero Eugeni, Manuela Fraire, Richard Grusin, Andrea Inzerillo, Nidesh Lawtoo, Federico Leoni, Angela Maiello, Caterina Martino, Tommaso Matano, Marco Pedroni, Chiara Scarlato, Emidio Spinelli, Tommaso Tuppini.
Da oggi disponibile in e-book.

*L’immagine di anteprima dell’articolo è un dettaglio della copertina del libro. 

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