Poche settimane dopo Jean-Luc Godard, a Rolle, un paesino della Svizzera sul lago di Ginevra, è morto Jean-Marie Straub (a 89 anni). Che due tra i più grandi innovatori del cinema moderno muoiano uno dopo l’altro, nello stesso posto (sia pure per ragioni diverse, ma legate comunque alla vecchiaia) potrebbe indurre a riflessioni esoteriche, che invece, soprattutto in questo caso, bisogna evitare, se è vero, come è vero, che Straub ne era intrinsecamente lontano. Allo stesso modo, andrebbe vinta la tentazione di scrivere che Jean-Marie ha raggiunto la sua Danièle. Lei e Straub, gli eterni «non riconciliati», uniti, solidali, iper-conciliati, nel non voler essere riconciliati.
Non riconciliati si, dunque, ma nei confronti di cosa? Io direi: nei confronti d’un cinema che fa sognare, magari anche bello, che racconta storie improbabili, che assume i caratteri consolatori della droga, in ultima analisi invitando quasi sempre ad accettare lo status quo. Anche nei confronti della nostra coppia, peraltro, non sono mancate incomprensioni, per esempio sotto forma di sottovalutazione del ruolo centrale che assume il teatro come dialettica politica nel loro lavoro.
Da Machorka-Muff (1962) a Non riconciliati, o solo violenza aiuta dove violenza regna (1965), l’attenzione generale si è concentrata inevitabilmente sul rapporto tra cinema e letteratura (Heinrich Böll, nella fattispecie), mettendo momentaneamente in ombra quella che è la vera vocazione, quella teatrale, della coppia Straub-Huillet. Il nome da fare, il nome da tenere sempre presente, è ovviamente quello di Bertolt Brecht, ma questo trascina con sé, prima di tutto, l’esperienza teatrale con l’Action-Theater di Fassbinder, dalla quale fu tratto il film Il fidanzato, l’attrice e il ruffiano (1968).
Non dico tutta, ma quasi tutta la produzione successiva della coppia, deve essere letta, a mio parere, nel segno del teatro, e diventa fondamentale, a questo proposito, l’esperienza col teatro di Buti, in Toscana, che si pone da un certo momento in poi come vero e proprio laboratorio in cui sperimentare, assieme ad attori non professionisti, gesti, posture e parole da trasportare poi sullo schermo.
Attenzione, dunque. Nel cinema di Straub-Huillet, gli elementi fondamentali sono almeno due. Da un lato, la ricerca quasi millimetrica del punto di partenza delle panoramiche e dei piani-sequenza, del loro punto d’arrivo, della loro durata e della loro ripetizione. Dall’altro, il continuo ripetere delle riprese della recitazione degli attori, fino all’esaurimento. Ma che significa esaurimento? Significa abbandono di ogni mimetismo psicologico, fino a giungere a un vuoto d’espressione tutto raccolto nella musicalità della parola.
Teatro e musica, parola nella sua purezza, fosse pure parola tradotta. La parola e la musica. La Cronaca di Anna Magdalena Bach. Othon. Mosè e Aronne. Lezioni di storia. Fortini/Cani. Ogni rivoluzione è un colpo di dadi – ma i dadi sono le parole, e le parole sono armi. O possono esserlo. Come poteva Straub, assieme a Huillet, affermare cose del genere? Non era nessuno, tutti e due non erano nessuno, ma un nessuno che da quasi vent’anni non cessava di interrogare e di farsi interrogare dai film – film che avevano in verità moltissimo da dare e da insegnare non solo ai super-colti, ma soprattutto ai super-curiosi, agli autentici irrequieti, a qualsiasi gruppo sociale essi appartenessero e di qualsiasi bagaglio culturale disponessero.
Il loro cinema è riuscito nel corso degli anni a mostrarci qualcosa, del nostro presente, che non sapevamo già. Non per mettersi in mezzo, ma Straub riteneva potesse essere utile affermare con franchezza che i loro film hanno insegnato a non considerare il passato come passato, cioè come qualcosa di separato dal presente. Ciò ci circonda l’importanza di partire dalla propria situazione concreta di individui intesi non come singolarità assolute, ripiegate in sé e incuneati nel proprio sacro recinto privato, ma semmai come individui le cui singolarità sono sempre in una relazione assai sfaccettata con il proprio tempo e con la propria comunità.
Huillet e Straub coi loro film si contrappongono in maniera netta e radicale alla vocazione del cinema di oggi come di ieri a sedurre e incantare: non si accaniscono a provocare sensazioni negli spettatori, ma piuttosto a «materializzare le sensazioni» (come diceva Paul Cézanne), ovvero cercano di produrre un oggetto in cui le sensazioni si trovino condensate e sedimentate grazie a un lavoro consapevole dell’artista su sé stesso e sul proprio materiale, e che pertanto lasci libero lo spettatore di emozionarsi solo nei momenti di effettiva sintonia che potrebbero eventualmente stabilirsi tra la singolarità della persona che fa esperienza di quell’oggetto e l’oggetto stesso. Questo differente dominio delle sensazioni materializzate è in aperto conflitto con un’estetica spettacolare diffusa che condiziona tutti noi in quanto contemporanei e che coincide con un’estetica degli effetti, ossia un’estetica orientata a provocare nello spettatore emozioni determinate secondo determinate intenzioni (o addirittura secondo una precisa e concertata pianificazione).
L’effetto da ottenere a tutti i costi secondo l’estetica spettacolare contrastata da Huillet e Straub è l’acme della vita mentale dello spettatore, è il culmine del cerimoniale che identifica lo spettatore allo spettacolo, e che lo fa sentire vivo e autentico solo a contatto con ciò che lo cancella come persona reale; nell’esperienza estetica contemporanea, non solo cinematografica, l’emozione provocata dall’oggetto deve il più possibile coincidere con una esperienza estatica, un culmine appunto in cui la spettatorialità sopprima o perlomeno sospenda la singolarità esistenziale.
Ecco perché resistere, per due autentici eretici come Huillet e Straub, significa anche resistere al cinema nella sua quasi totalità: quello a cui resistono col loro «cinema di contadini» è quello che Straub stesso definisce in vari interventi «il cinema della pornografia internazionale», il cinema complice delle logiche di dominio che giustificano la società dello spettacolo integrale e le sue proliferanti rappresentazioni. Huillet e Straub mettono allo scoperto, con l’irriducibile diversità dei loro film ruvidi e impassibili, la ragion d’essere di questo cinema omogeneizzante, che rende lo spettatore un cliente da soddisfare e compiacere a tutti i costi, ossia un cinema che mira a confermare e potenziare la pura spettatorialità (Cfr. Aprà 1966, Spila 2001). Quest’affermazione ricorda una delle caratteristiche del lavoro di Cézanne. Una lezione di libertà autentica e adulta in un mondo che si presume libero in quanto progredito, ma in cui la libertà, al contrario, passa sempre più nei discorsi e nei proclami e sempre meno nella vita reale di tutti noi. Una lezione, la loro, che ci aiuta a immaginare un mondo radicalmente diverso da quello in cui viviamo, e che soprattutto ci insegna a sentirne il desiderio.
In Sicilia! (1999), tratto da Conversazione in Sicilia di Elio Vittorini (un romanzo fatto non a caso soprattutto di dialoghi), i due poliziotti siciliani, nel treno che li riporta a casa per una licenza, si vergognano del mestiere che fanno, si spacciano per impiegati del catasto – ma il Gran Lombardo, inesorabile, ne denuncia «la puzza». Popolo triste, quello siciliano, chiamato a doveri più alti e impossibilitato a seguirli. Per questo tanti poliziotti, tra i siciliani. Però l’arrotino venuto da Buti (come il Figlio, come la Madre) vorrebbe ben altro che coltellini da arrotare. Arrotare cannoni, vorrebbe, in un mondo dove nessuna puzza si sentirebbe più. Sulla lavorazione del film, si noti bene, sui materiali di risulta e sulle riprese, sono stati girati ben due documentari, uno di Jean-Charles Fitoussi (Sicilia! Si gira, 2001) e uno di Pedro Costa (Dove giace il vostro sorriso sepolto?, 2001). Caso più unico che raro: dallo stesso romanzo, tre film quasi contemporanei.
Poi l’incontro con Dante: O somma luce (2010). Leggere il canto 33 del Paradiso, in un bosco, ancora nel segno del teatro di Buti. Poi un film prodotto da film precedenti: Kommunisten (2014). Straub dà corpo e voce addirittura al proprio nemico. Fino all’ultimo, Straub col pugno chiuso alzato, ma non per vezzo. Fino all’ultimo, sul lago di Ginevra, contro i robot, di tutti i tipi.
Riferimenti bibliografici
A. Aprà, Su Non riconciliati, in “Nuovi Argomenti”, n.2, aprile-giugno 1966.
A. Cappabianca, O somma luce, in “Uzak”, n. 42, estate-autunno 2022.
G. Gigliozzi, Straub/Huillet. L’enigma del visibile, Falsopiano, Alessandria 2018.
P. Spila, Il cinema di Jean-Marie Straub e Danièle Huillet. «Quando il verde della terra di nuovo brillerà», Bulzoni, Roma 2001.
Id., Straub/Huillet. Cineasti italiani, Falsopiano, Alessandria 2018.
Jean-Marie Straub, Metz, 8 gennaio 1933 – Rolle, 20 novembre 2022.