Uno degli aspetti più vividi di un film travagliato come Domino (De Palma, 2018) è il ruolo giocato dal complesso dispositivo mediale contemporaneo attraverso una narrazione a tratti straniante, proprio a causa dei diversi punti di vista che si tenta di integrare nel racconto. Ambientato a Copenhagen nel giugno del 2020, Domino vede in azione un poliziotto dell’unità crimini speciali all’inseguimento di un uomo, affiliato a una cellula danese dell’Isis, che ha ucciso il suo collega durante una banale operazione di polizia. Il protagonista, però, scoprirà presto di dover consumare la sua vendetta al centro di una complessa spy story che coinvolge i principali servizi di intelligence internazionali. Misconosciuto dallo stesso regista che si è svincolato dalla sceneggiatura denunciando pubblicamente le difficoltà e i limiti della produzione, il film sembra caratterizzato da quegli slittamenti narrativi che il racconto subisce quando nella narrazione il punto di vista viene assunto da smartphone e droni.

La dinamica dell’attentato sul red carpet è, in questo senso, emblematica della logica di Domino. Sul monitor vediamo una jihadista che semina il panico durante il Nederlands Film Festival; il mandante segue l’azione da uno schermo nella propria abitazione, mentre una videocamera posizionata sul fucile d’assalto riprende la mattanza. Il tutto finisce in rete, un massacro in diretta che terroristi-spettatori possono vedere, consumare, gustare da casa. L’essenza estetica della figura del kamikaze, a questo punto, individuato qualche anno fa in Teoria del Kamikaze (De Sutter 2017) sembra prendersi letteralmente la scena. Saturando l’immagine con il suo enorme flash, l’esplosione suicida cristallizza per sempre quel momento (l’attentato diventa un’icona!), ma nel medesimo istante fagocita tutti gli altri media e li rende secondari. 

Domino, in altre parole, rivela ciò che accade quando vediamo un’immagine nell’era del cyberspazio. Il film comprende il modo straniante con cui le formazioni mediali contemporanee disegnano il nostro tempo, partecipando all’emergere e al dispiegarsi degli eventi che ci riguardano tutti. Un racconto che a tratti si disgrega ramificandosi nella diversità dei media coinvolti, come il drone che nella sequenza conclusiva vola al ralenti su una corrida ad Almeria, con un jihadista pronto a farsi saltare in aria sugli spalti.

Alessia Cervini recentemente, a questo proposito, ha evidenziato come alcuni momenti sospesi del film di De Palma, una certa frammentazione nella linearità del racconto, siano dovuti, più che alle contraddizioni della regia, alla natura stessa della contemporaneità, sottolineando proprio le antinomie e le disconnessioni che l’esperienza filtrata dai nuovi media causano nella percezione del tempo del presente. Una vera e propria irruzione nell’esperire quotidiano di una medialità onnipresente che viaggia alla velocità del mediaspace. Richard Grusin, notoriamente, propone l’idea di «rimediazione» per tentare di comprendere la configurazione mediale dell’esistente. Con l’emergere delle tecnologie digitali e della connettività di internet, infatti, i nuovi media assumono una specificità che consiste nella complementarietà tra immediatezza dell’atto e rimediazione; ossia, una mediazione che si trasforma nell’atto stesso della sua moltiplicazione nel cyberspazio.

Il mutamento causato nell’esperienza e nella comunicazione quotidiana dei nuovi media, una miriade di punti di vista rimediati, diffusi e conservati a cifre e velocità inimmaginabili, in particolare nella connessione tra memoria e immagine dentro l’epoca digitale, è il nesso a partire dal quale riflette un volume che merita di non passare inosservato: Immagine e memoria nell’era digitale (Russo, Mutchinick 2021); primo volume di una nuova collana, Quaderni di Mechane, dell’editore Mimesis dedicata esplicitamente a collezionare studi di filosofia e antropologia della tecnica.

È diffusa ormai l’idea che oggi abitiamo nell’era visuale, che il modo primario di comunicazione avvenga attraverso le immagini, che le relazioni siano mediate dalle immagini e che il loro uso immaginativo ed emozionale costituisca un tratto distintivo della contemporaneità. In termini filosofici, il medium visivo si presenta oggi come lo strumento ermeneutico più adatto alla descrizione del mare magnum comunicativo entro cui l’umanità è immersa. La tempesta di immagini digitali che ha investito molti aspetti dell’esistenza umana, con una disseminazione senza precedenti storici, è una questione che riguarda molteplici nessi dello sviluppo dell’uomo nell’era in cui ogni esperienza è digitalmente mediata, entro uno spazio nuovo e inedito per l’animale umano che è internet.

In che modo allora immagine e memoria sono cambiate con l’avvento del digitale? In che modo si trasforma il suo specifico rapporto con il passato, ossia la relazione che si instaura con le tracce del vissuto che permangono nella memoria e al contempo con ciò che la memoria smarrisce; con Nietzsche, quello speciale rapporto con l’oblio inteso come la capacità di non ancorarsi definitivamente alla contemplazione del passato? Il tempo presente infatti sembra dispiegare capacità mnemoniche sovraumane legate alle potenzialità delle nuove tecnologie. Il modo in cui produzione, riproduzione e conservazione dell’immagine sono cambiate sembra agire su molteplici aspetti della vita umana con conseguenze epistemologiche decisive.

Leroi-Gourhan ha illustrato la specificità del sapiens nella produzione iconografica, punto di incrocio specifico dell’animale umano fra «organi naturali» e «organi artificiali». Il passaggio evolutivo dal mitogramma alla tecnoimmagine, da un’immagine non più legata ad un manufatto ma a un codice binario – che sancisce il mutamento della funzione gestuale creativa delle mani –evidenzia alcune prerogative comuni a questi due diversi momenti evolutivi: la funzione di trasmissione e conservazione di informazioni, la raffigurazione di senso, l’uso comune di immagine e parola. Ma, al contempo, mette anche in rilievo delle differenze in grado di incidere profondamente sull’intelligenza umana. In particolare rispetto alla facoltà immaginativa, poiché, se il mitogramma agisce mediante la relazione affettiva arte-religione, il potere dei media contemporanei risiede nella cattura del carattere multiforme della percezione e il conseguente depotenziamento dell’essenziale dimensione immaginativa umana. 

Il mutamento in atto, però, non riguarda semplicemente la quantità di immagini presente nella nostra quotidianità, ma soprattutto le modalità con cui ci rapportiamo a esse. Non si tratta solo di immagazzinare enormi quantità di dati in supporti di silicio potenzialmente infiniti, ma del modo con cui lo stoccaggio di tali dati agisce sulle nostre capacità mnemoniche. Si pensi a due funzionalità ormai molto diffuse come Screen Time e Ricordi. Esse offrono potenzialità in grado di modellare la memoria e la sua espressione affettiva agendo sugli «affetti temporali», ovvero gli affetti legati ai nostri personali ricordi e alle nostre abitudini.

Se è vero che la teoria della Biblia pauperum considera già le immagini come hypomnemata, cioè dei veri e propri ausili esterni che raffigurando scene del passato ne stimolano il ricordo, la fecondità del legame tra memoria e immagine interna al dibattito religioso può riportare l’attenzione sulla dimensione performativa dell’iconico e sul rapporto fecondo tra immagine e parola. Se da un lato sembra ripresentarsi l’antica «paura» delle immagini, debitrice dell’idea platonica della mimesis come luogo che svia dalla verità – marginalizzandone così il carattere che collega l’uomo direttamente al divenire attuale della cosa, a ciò che cessa per conservarsi nella traccia – il riproporsi dell’antico conflitto tra lógos e eikṓn sembra attualizzarsi in un rapporto di reciprocità ormai inscindibile, o, ancora, può essere ripensato in una logica di “co-originarietà” piuttosto che di opposizione.

È possibile, allora, individuare nel visuale ipertrofico dei nostri giorni un balzo cognitivo simile a quello apportato dall’avvento della scrittura? A differenza dell’oralità, infatti, la scrittura si è presentata storicamente come portatrice di simboli che non si riferiscono all’immediatezza del presente, ma rappresentano qualcosa di non dato nell’immediato che ha, così, potuto stimolare lo sviluppo delle capacità astrattive dell’uomo. Al contrario, l’incessante produzione di dati nel mondo mediale in cui siamo immersi, ha determinato un algoritmo che analizzando le tracce degli utenti nell’etere è in grado di ipotizzare probabili comportamenti futuri, allontanandosi decisamente dalla potenzialità astrattiva della parola scritta, e proiettandoci in una dimensione nuova ed ambigua

Indagando il grado di tensione tra la natura predittiva dell’algoritmo all’epoca dei Big Data e i diritti umani – o la natura prescrittiva del diritto –  Gabriele Della Morte (Big data e protezione internazionale dei diritti umani, 2018) individua nel cyberspazio il luogo dello scontro tra la pretesa regolatrice del diritto internazionale e la logica economica al fondamento dell’accumulo dei data. Il mondo mediale in cui siamo immersi è, allora, un ibrido, attraversato da forze contrastanti in cui a prevalere sembrano essere logiche commerciali e di profitto. Le predizioni dell’algoritmo dell’economia neoliberale, cioè, funzionano secondo una logica che ha come destinatari non gli individui, ma i consumatori.

Come ha mostrato forse come nessun’altro Walter Benjamin, l’essere umano si trova sempre al centro di un processo di mediazione, concependo il medium come la modalità attraverso cui i modi della percezione storicamente si organizzano. L’uomo, cioè, è predisposto a consegnare fuori di sé, alla tecnica, le proprie facoltà cognitive e sensibiliProblematizzare la natura del mondo mediale che i nostri tempi provocano con una forza dirompente, indagare se di fronte ai nuovi dispositivi tecnologici e culturali si affaccia una forma nuova della riorganizzazione del nostro sistema percettivo, diventa allora una domanda indispensabile per orientarsi nelle tensioni cruciali del tempo che abitiamo. Interrogativi che il volume curato da Russo e Mutchnick calibra in maniera inedita, plurale e persino sorprendente.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2011.
A. Cervini, Il cinema politico, in Il Cinema del nuovo millennio, Carocci, Roma 2020.
G. Della Morte, Big data e protezione internazionale dei diritti umani, Editoriale scientifica, Napoli 2018.
L. De Sutter, Teoria del Kamikaze, Il melangolo, Genova 2017.
R. Grusin, Radical Mediation, a cura di A. Maiello, Pellegrini, Cosenza 2017.

Nicola Russo, Joaquin Mutchinick, Immagine e memoria nell’era digitale, Mimesis, Milano 2021.

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