Gioco antico, il domino che dalla Cina arrivò a Venezia nel Settecento e da lì si diffuse in Europa, con le regole combinatorie dei suoi pallini e il libero arbitrio del “serpente” da costruire sul tavolo. Ma gioco antico anche quello della narrazione cinematografica, ormai oltre il giro di boa del post-modernariato digitale e della serializzazione neotelevisiva. Ecco allora che il gap generazionale si esprime attraverso pratiche filmiche che mettono in questione la definizione stessa di autorialità registica (rilocabile in base alla dialettica fra tradizione e innovazione, fra stile e tecnologia) e la definizione stessa di macchina narrativa (chiusa, come voleva la poetica di Aristotele, o aperta come nella profezia di Eco). Tre manifesti ad Ebbing, Missouri (McDonagh, 2017) – ma ognuno scelga il suo esempio, nel mondo della critica democratica – è il manifesto di un cinema “autorializzato” che azzera la passione del reale (nulla a che fare con un luogo esistente, con una qualsivoglia “storia vera”) per attivare tutti i possibili meccanismi di serializzazione (sequel, prequel e collateral) senza dover passare necessariamente all’atto.

Domino è la brochure di un cinema “griffato” eppure “de-autorializzato” (la sceneggiatura è del norvegese Petter Skavlan, quello di Kon-Tiki) in cui si acchiappano due star globali, il danese Nikolaj Coster-Waldau e l’olandese Carice van Houten, e li si riporta (l’anno prossimo!) nel loro pezzo di Europa, spostandoli dal game of thrones dei mondi post-Tolkien al game of drones della Jihad quotidiana, progressivamente de-serializzandoli e consegnandoli ad un universo hitchcockiano che implode su sé stesso come in un rituale terroristico.

Geopolitica antica e profezia auto-avverantesi, quella “teoria del domino” che ha determinato gli sviluppi della guerra fredda (compreso il Vietnam che ha segnato la generazione di De Palma, classe 1940) ma poi anche la politica statunitense del dopo-11 settembre. Gioco ancestrale e modernista anche quello del neoterrorismo fondamentalista, in cui la più inumana delle concezioni teocratiche (che incentiva la vocazione al martirio, anche delle donne) convive con la ricerca warholiana del quarto d’ora di celebrità: in Domino è evidente che il terrorismo è tutto giocato sulla performance attoriale (come rilevato da Laurent de Sutter in Teoria del kamikaze) e sulla documentazione con effetti di regia (ma è stato tradotto in italiano Daech, le cinéma et la mort di Jean-Louis Comolli?) ma anche l’antiterrorismo non può che attivare meccanismi panottici di sorveglianza

Il risultato è che tutte le dimensioni della vita, da quelle più intime (l’amore, la gravidanza) a quelle più pubbliche, sono oggetto continuo di monitoraggio e autodocumentazione (la sequenza di foto sul cellulare della ragazza, che culmina nell’ecografia di un feto, vale “immagine mentale” quanto l’incipit di La finestra sul cortile nell’analisi di Deleuze), con la conseguenza paradossale di un’opacità interpersonale del tutto trasparente per i sistemi di controllo biopolitico. Su queste potenze del falso aveva già detto tutto Redacted (2007), ultimo capolavoro del De Palma analista della società dello spettacolo/della sorveglianza/dei simulacri (peraltro vincitore del Premio Giuria Giovani all’Amnesty International Film Festival del 2008). Come fare un passo avanti?

Facendo un passo indietro: mentre tutti i critici del postmoderno chiedono a gran voce un di più di realtà e/o di serietà, spesso scambiando  lucciole politicamente corrette per lanterne d’impegno realistico (si legga in La condizione neomoderna di Roberto Mordacci la rivalutazione di Tarantino e Almodóvar), il buon vecchio De Palma resta fedele ai valori della sua giovinezza – resta fedele a Hitchcock, l’uomo che sapeva troppo, l’inventore della serialità d’autore (Alfred Hitchcok Presents, in onda sulla CBS dal 1955 al ’62).

Domino si apre con un inseguimento sui tetti che rimanda a La donna che visse due volte (1958) e si conclude in un’allusiva plaza de toros in cui un’orchestrina suona il Bolero di Ravel mentre i terroristi mettono in atto l’attentato col drone, scena che strizza l’occhio al finale del secondo L’uomo che sapeva troppo (1956), dove l’attentato è previsto durante il concerto di Bernard Herrmann alla Royal Albert Hall. In mezzo c’è spazio per tutto un repertorio cinefilo, dal mulino del Prigioniero di Amsterdam (1940) ai tornanti costieri di Caccia al ladro (1955), dalle cadute nel vuoto alle cassette di ortofrutta di Frenzy (1972); e, ovviamente, tutte le varianti di La finestra sul cortile (1954) – ma anche tutte le varianti di L’occhio che uccide (Powell, 1960) , in un mix che oscilla fra l’implausibilità e la canonizzazione.

L’implausibilità di De Palma è ontologicamente diversa dall’implausibilità di Hitchcock: lì, l’eliminazione dei nessi logici serviva a velocizzare l’immagine-azione come valore fondamentale della classicità; qui, l’incongruità della rappresentazione vuol essere mimetica dell’incongruità stessa del reale, presupposto inattingibile di tutto il sistema mediatico audiovisivo (il “delitto perfetto” di Baudrillard non è pur sempre/per sempre un titolo di Hitchcock?). Quanto alla canonizzazione, basta ascoltare la colonna sonora herrmanniana di Pino Donaggio per capire che il postmoderno è passato dalla fase del riciclaggio (la grammatica classica al servizio di temi e sensibilità contemporanei) alla fase del ripiegamento (un tema attuale come lo “scontro di civiltà”, che apre dolorosamente alla percezione di visioni altre del mondo, riportato nell’alveo del noto, come ha fatto Alain Badiou con Il nostro male viene da più lontano).

Domino ci dice che il terrorismo è ancora quello di L’uomo che sapeva troppo (prima versione 1934), di Sabotaggio (1936, in cui l’attività di copertura è una sala cinematografica!), di Sabotatori (1942), e dunque, la grammatica cinematografica di Hitchcock può ancora rispondere alla retorica dei video dell’Isis. Ma forse bisogna solo accettare che anche gli autori invecchiano: fare polemica sull’assegnabilità di Domino alla filmografia di De Palma è come sindacare sulla legittimità dell’album perduto di Miles Davis Rubberband prima ancora della sua uscita (annunciata per il 6 settembre 2019). Se si calcola che Alfred Hitchcock (1899-1980) è morto all’età di 81 anni e che Brian De Palma quest’anno ne ha 79, si può capire il gesto scaramantico di assegnare al film una data tonda e doppia come una tessera del gioco: 2020 anno Domino.

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