Una stazione di servizio al tramonto illuminata da diverse insegne al neon con un viaggiatore in sosta lungo una strada di passaggio mescola le visioni dei New Topographics (in particolare Stephen Shore) agli istanti sospesi di Edward Hopper (si veda il dipinto Gas del 1940) americanizzando un tratto del paesaggio italiano. Un breve testo accompagna la fotografia:

Sono i colori, i colori artificiali, i colori crepuscolari, i colori con luci diffuse d’ogni tipo, che sembrano riscattare tutto. È la loro canzone che si sente dovunque, in un ippodromo, su un’autostrada, in una qualunque stazione di servizio. Sono loro che ci portano a guardare persino quelle secchissime lampade ad arco che spuntano sulle tangenziali, e quelle ciminiere a strisce bianche e rosse che si vedono lungo il Po, attraverso un’angolatura che non ha niente di seducente.

La fotografia è di Luigi Ghirri. Il testo è di Gianni Celati. Il volume che li contiene è Il profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio italiano (Feltrinelli, 1989) che, poco prima della morte del fotografo emiliano, nel 1992, sancisce non solo il suo lungo sodalizio artistico e personale con lo scrittore emiliano ma anche quello tra immagini e parole nella sua opera fotografica e nell’intera storia della fotografia.

Il motto «una fotografia vale più di mille parole» non ha davvero mai assolto la sua funzione e cioè elevare l’immagine fotografica a strumento e linguaggio che racconta, rappresenta, mostra una situazione, un fatto, un evento, un soggetto più adeguatamente ed efficacemente di lemmi e frasi, quindi della scrittura. Di certo quel motto non è mai bastato alla stessa fotografia che, pur rincorrendo costantemente la propria autonomia da altre forme di racconto e registrazione, non ha voluto né sottrarsi né sottomettersi a questa competizione (o comparazione) con le parole.

La fotografia ha la scrittura nella sua etimologia (graphis più phos). Le parole sono didascalia e narrazione a partire dal primo autoritratto fotografico, lo scatto da annegato di Hippolyte Bayard del 1840. Le parole sono segni che attestano l’autorialità e lo stile del fotografo (la firma di Nadar ha fatto scuola). Le parole sono segni inclusi nell’inquadratura che arricchiscono o impoveriscono la scena rappresentata (si vedano le immagini della New York School of Photography). Le parole sono fedeli e polivalenti compagne delle immagini nel fotogiornalismo, il genere che più di tutti ha consolidato il legame tra le due parti (senza sfuggire a delicate questioni di etica e veridicità). Per finire, il linguaggio comune: si dice che la fotografia può essere letta e che le parole possono fotografare una situazione.

Dal punto di vista dell’operatività e progettualità è possibile riconoscere nella storia della fotografia almeno tre direzioni dell’intreccio tra immagini e parole. La prima è quella che vede il fotografo ispirarsi a prosa e poesia per realizzare i propri scatti – è il caso, tra tanti, di Mario Giacomelli che fotografa le Marche facendosi guidare da Leopardi, Pavese, Montale e molti altri, o di W. Eugene Smith che negli anni Cinquanta ritrae Pittsburgh come se fosse la Dublino di James Joyce. La seconda è quella che unisce la professione di fotografo a quella di scrittore: Lewis Carroll, Émile Zola, Giovanni Verga, Robert Capa, Carla Cerati, ecc. La terza è determinata dalla collaborazione, più o meno longeva, tra un fotografo e uno scrittore: Walker Evans e James Agee; Paul Strand e Cesare Zavattini; David Seymour e Carlo Levi; Robert Frank e Jack Kerouac; Ferdinando Scianna e Leonardo Sciascia; e così via.

Nel contesto della fotografia italiana Ghirri ha percorso tutte queste direzioni. Si è lasciato ispirare da Borges, Calvino, Proust (per la serie Still-life. Topografia iconografia), Collodi (la serie Il paese dei balocchi), Blake, Shakespeare, Goethe (come lui autore di un Viaggio in Italia). Ha scritto tanto di fotografia e il volume Niente di antico sotto il sole (1997) – il cui titolo deriva da uno scritto ghirriano del 1986 che riprende un verso della poesia La felicità di Borges – dimostra questa intensa attività di scrittura che coincide con un’intensa attività di pensiero (com’è tipico dei fotografi contemporanei). Infine, la lunga collaborazione con Celati.

Sebbene il legame artistico tra i due emiliani si sia concretizzato in più modi – Ghirri ha fotografato Celati; Celati ha scritto di Ghirri; Ghirri ha scritto di Celati; Celati ha filmato Ghirri –, sono almeno tre i volumi fotografici che mostrano l’interazione tra le loro immagini e parole: i cataloghi Viaggio in Italia (1984) ed Esplorazioni sulla via Emilia (1986) e il già citato Il profilo delle nuvole. I primi due sono preziosi esempi di progetti collettivi e multimediali; il terzo, invece, è un libro d’artista che racchiude l’essenza di questa interazione.

Il profilo delle nuvole inizia con un testo di Celati intitolato Commenti su un teatro naturale delle immagini che ha il sapore di un diario di viaggio (uno dei tanti compiuti con l’amico fotografo nella pianura padana). Lo scrittore appunta dal 12 maggio al 6 ottobre pensieri e riflessioni non solo sulle immagini incluse nel libro ma sulla stessa idea di fotografia che Ghirri ha teorizzato nel corso del tempo. Un dialogo indiretto tra il fotografo («Ghirri dice che», «Ghirri risponde che», «Ghirri descrive», «Ghirri spiega») e lo scrittore («Insisto che», «Osservo che», «Mi sembra che», «Credo») che arriva subito a delineare la peculiarità del volume e dell’opera ghirriana:

[Un] album [che ha] come tema un paesaggio italiano che si stende attorno al fiume Po, fino al mare. [Le foto] non sono disposte secondo un indice tematico, e neanche secondo un percorso geografico. Sono momenti sparsi collegati da un reticolo di analogie, in una trama che non è riassumibile, perché data dall’intreccio di vari fili narrativi (Celati 1989).

Le analogie sono motivi geometrici, forme, oggetti, elementi ricorrenti nel paesaggio in cui si vive, appartenenti alla memoria e alla visione di tutti, e che Ghirri cattura aderendo «al modo di visione previsto dalla cosa fotografata, rinunciando il più possibile ad un suo punto di vista» (Celati 1989). Il paesaggio ghirriano non è mai turistico e monumentale, sublime e maestoso, ma è sempre periferico e marginale, quotidiano e ordinario, famigliare e fantascientifico (nel senso di un processo di antropizzazione passato inosservato), intriso di cultura e natura, antico e moderno. E per questo motivo, non è mai il risultato di un’operazione meramente documentaria o volutamente artistica: le fotografie sono immagini «vaghe» (Ghirri 1997, p. 308), cioè somigliano o rimandano in maniera indefinita al mondo perché è così che noi lo vediamo (mentre la prospettiva e l’automatismo fotografico inseguono una perfezione che non corrisponde alla nostra visione naturale). Ecco perché Ghirri usa la serie fotografica come un album contenente frammenti che si richiamano a vicenda, ricordi che si mescolano, luoghi colti in una «forma senza tempo che è il mondo compresente a noi» (Celati 1989). L’album consente, scrive Celati, di «dislocare lo sguardo» e aprire il paesaggio a molteplici e simultanei racconti, di liberare la visione dai canoni estetici oltre che da un consolidato racconto visivo del paesaggio italiano e spostare l’attenzione alla straordinarietà dell’ordinarietà, a un paesaggio reale che è anche un paesaggio interiore.

Così diventa chiaro il senso dell’immagine descritta in apertura: mostra un luogo che nulla ha a che vedere con «la percezione del monumento storico, e tutto diventa contemporaneo, come infatti è» (Celati 1989). Quella foto non è che un frammento di un paesaggio fatto di dettagli, simmetrie, strade, incroci, pianure, cancelli, soglie, pareti, facciate, interni, esterni, mutamenti di luce, segni nella terra, orizzonti piatti e aperti, residui di vita e di storia, ovvero «piccole certezze, un insieme di punti da unire tra di loro per tracciare un itinerario possibile» in un paesaggio contemporaneo «intercambiabile e indecifrabile» (Ghirri 1997, p. 106). Le fotografie di Il profilo delle nuvole sono spesso corredate o intervallate dalle parole estrapolate dal testo di Celati proprio allo scopo di enfatizzare la «visione atmosferica» delle immagini che, impregnate di certi colori e quasi completamente prive della presenza umana, mostrano un paesaggio sospeso, nostalgico, vago che non è più solo circoscritto geograficamente (la pianura padana) ma che si apre alle «risonanze affettive» di qualsiasi paesaggio contemporaneo.

Nel finale Celati riporta un’affermazione di Ghirri: «Come chi scrive non può affidarsi che alle parole e alle frasi, così un fotografo non può che affidarsi al modo di inquadrare le cose». Per Ghirri parole e immagini sono entrambe «forme di esperanto» (ivi, p. 308) che producono narrazioni vaghe, cioè comprensibili e condivisibili da chiunque. Proprio perché, aggiunge Celati, le fotografie e i racconti rappresentano il mondo non in forma di rigida evidenza ma riportandolo al «sentimento» che noi abbiamo di un luogo e di un territorio.

Riferimenti bibliografici
G. Celati, Commenti su un teatro naturale delle immagini, in L. Ghirri, Il profilo delle nuvole. Immagini di un paesaggio italiano, Feltrinelli, Milano 1989, s.n.p.
L. Ghirri, Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per un’autobiografia, a cura di P. Costantini, G. Chiaramonte, SEI, Torino 1997.

Luigi Ghirri, Bologna (1985) © Eredi di Luigi Ghirri
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