Se la grandezza di un artista si potesse definire numericamente, allora quella di Luigi Ghirri potrebbe essere quantificata anche solo facendo un bilancio delle mostre che lo hanno visto protagonista nel 2018: dieci collettive e quattro personali. I diversi contesti di esposizione sono la prova che il suo corpus fotografico è così ampio ed eclettico da rendere impossibile un’interpretazione unitaria e definitiva. C’è ancora molto da dire e da indagare sulla sua «opera aperta» (Ghirri 1997, pp. 76-79). Il riferimento a Umberto Eco non è esplicitato, ma per il fotografo modenese questa è l’espressione perfetta per descrivere la sua idea di fotografia come progetto che si alimenta nel tempo, che non si chiude mai definitivamente e che trae ispirazione da altre arti.

L’opera aperta ghirriana è stata omaggiata dalla mostra The Map and the Territory curata da James Lingwood fondatore di Artangel, famosa organizzazione londinese che sostiene la realizzazione di progetti artistici site-specific. Gli scatti di Ghirri sono stati esposti per diversi mesi – dal 25 settembre 2018 al 20 maggio 2019 – in un tour europeo che ha visto come sedi il Museum Folkwang di Essen, il Museo Reina Sofia di Madrid e il Jeu de Paume di Parigi. La mostra ha rafforzato il processo di riscoperta internazionale del fotografo italiano avviato nel 2015 dalla casa editrice inglese Mack Books con la pubblicazione degli scritti nel volume The Complete Essays 1973–1991 e attualmente in corso con la riproposizione in ordine cronologico dei volumi fotografici – fino ad ora Kodachrome e Colazione sull’erba.

The Map and the Territory ha replicato dopo quarant’anni Vera fotografia, la mostra curata da Arturo Carlo Quintavalle e Massimo Mussini per celebrare nel 1979 il suo primo decennio da fotografo. Non solo, ne ha rispettato la suddivisione tematica pensata all’epoca dallo stesso Ghirri, ossia 14 sezioni e oltre 400 fotografie estrapolate dai progetti fotografici realizzati tra il 1969 e il 1979: Fotografie del periodo iniziale (1970); Kodachrome (1970-78); Colazione sull’erba (1972-74); Catalogo (1970-79); Km 0.250 (1973); Diaframma 11, 1/125, luce naturale (1970-79); Atlante, (1973); Italia Ailati (1971-79); Il paese del balocchi (1972-79); Vedute (1970-79); Infinito (1974); In Scala (1976-79); Still Life (1975-79). La successione di queste serie fotografiche mette in evidenza una precisa linea di ricerca artistica e intellettuale nonché una fase di preparazione per le importanti esperienze che hanno avuto luogo negli anni Ottanta, cioè Viaggio in Italia (1984) ed Esplorazione sulla via Emilia (1986).

Dunque, mappa e territorio. «Non ho cercato di fare delle FOTOGRAFIE, ma delle CARTE, delle MAPPE che fossero contemporaneamente fotografie» (ivi, p. 16), scrive il fotografo nell’introduzione a Fotografia del periodo iniziale. La fotografia/mappa serve a mostrare la relazione che intercorre tra i diversi oggetti che coabitano all’interno dello stesso spazio; serve all’uomo contemporaneo per fare i conti con un paesaggio profondamente modificato dagli effetti della modernizzazione; serve a orientarsi in un territorio indefinito e interscambiabile, luogo di convivenza tra due diverse temporalità (passato e presente) che solo la fotografia riesce a tenere unite. E infine, un territorio che per Ghirri è soprattutto la pianura padana, la sua provincia, il microcosmo in cui vive e che diventa metafora del macrocosmo contemporaneo.

Per di più, il titolo della mostra sembra rimandare al romanzo La carta e il territorio pubblicato nel 2010 da Michel Houellebecq (titolo originale francese La Carte et le Territoire, traduzione inglese The Map and the Territory) con protagonista un artista concettuale che nella prima fase della sua carriera raggiunge la fama per aver fotografato le mappe della guida Michelin. Inevitabile il confronto e il rimando ad Atlante (1973) la serie in cui Ghirri, con un raffinato esercizio di blow-up, fotografa i segni convenzionali con cui viene rappresentata la conformazione naturale del territorio e di conseguenza trasforma il viaggio fisico in un viaggio mentale attraverso tutti gli itinerari possibili concentrati sulla carta e allo stesso tempo annullati dalla semplificazione dello spazio.

Mappa e territorio sono solo alcune delle parole chiave che descrivono la prima decade della fotografia ghirriana insieme ad altre importanti parole come colore («perché il mondo reale non è in bianco e nero», ivi, p. 16); paesaggio (il luogo dell’Antropocene); fotosmontaggi (non c’è bisogno di inventare la realtà giacché essa ci offre dei fotomontaggi in diretta grazie alla sovrapposizione di segni); rilevazione e rivelazione (la macchina fotografica serve per vedere e conoscere); ordinario e straordinario (ciò che si dà per scontato svela invece delle sorprese); progettualità (le infinite combinazioni espressive della serie fotografica). E poi ancora: viaggio, musica, provincia, strada, nebbia, pubblicità, architettura, finestrino, ecc.

Questa intensa ricerca fotografica nasce dall’esigenza di riappropriarsi di un paesaggio (padano/italiano) antropizzato, non più solo storico o naturale. Un paesaggio che lascia intravedere le tracce dell’uomo e da cui l’uomo non è escluso ma rappresentato nella veste di «omino sul ciglio del burrone» per misurare lo spazio, o di vacanziero alienato per sradicare gli stereotipi turistici, o di anonime figure riprese di spalle che si mescolano e sovrappongono a una realtà già fatta di strati. In questo nuovo enigmatico paesaggio Ghirri è un osservatore partecipe che ha uno sguardo esterno ma non distaccato e che attraverso la fotografia tenta di conciliare il mondo esterno – che esiste ed esisterà sempre indipendentemente da noi – con la bachelardiana «immensità interiore» (Bachelard 2011, p. 219).

Proprio in quanto opera aperta, la fotografia ha un’aura interdisciplinare. In particolare, risente fortemente della precedente professione di geometra, mestiere da cui Ghirri acquisisce una certa visione dello spazio e degli ambienti, ma anche delle due componenti della sua formazione, cioè l’arte concettuale e il fotoamatorismo. Ben lontano dallo stile monumentale dei Fratelli Alinari, dalla sublime natura di Ansel Adams, dall’impassibile catalogazione di Bernd e Hilla Becher – gli unici europei del gruppo americano dei New Topographics molto affine all’operatività del modenese –, le sue fotografie sono un concentrato di riferimenti e rimandi ad altre arte e ad altre immagini che lo ispirano.

Il suo sguardo è guidato dalla filosofia di Giordano Bruno («pensare è speculare per immagini»); «dai paesaggi musicali e poetici» dell’amato Bob Dylan; dalla pittura di De Chirico e Morandi; dal cinema dei suoi conterranei Antonioni e Fellini; dall’architettura di Aldo Rossi; dalla cosiddetta Roadside Photography avviata da Walker Evans («l’autore che ho amato, amo e stimo più di ogni altro», Ghirri 1997, p. 35) e proseguita con Meyerowitz, Eggleston, Baltz, Rusha, Shore, ecc., che liberandosi di ogni estetismo e osservando il territorio dal finestrino dell’automobile ci insegnano «a costruire la nostra identità che è dentro e fuori di noi, in una singolare sintesi di mondo esterno ed interno» (ivi, p. 105).

Insomma, The Map and the Territory ci ha ricordato qualcosa che in fondo sappiamo già: il ruolo innovativo di Luigi Ghirri nella fotografia di paesaggio italiana ed europea. Fotografo, teorico della fotografia, fondatore della casa editrice Punto e Virgola dedicata alla fotografia, grafico, curatore di mostre e progetti collettivi, promotore del nuovo modo di fotografare il groviglio impossibile di luci, pietre, nebbie, gesti, pensieri, oggetti che è l’Italia.

Riferimenti bibliografici
G. Bachelard, La poetica dello spazio, Edizioni Dedalo, Bari 2011.
L. Ghirri, Niente di antico sotto il sole. Scritti e immagini per un’autobiografia, a cura di P. Costantini, G. Chiaramonte, SEI, Torino 1997.
L. Ghirri, Lezioni di fotografia, Quodlibet, Macerata 2010.

* In anteprima un particolare di Fidenza (PR) (1985) di Luigi Ghirri.

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