«Non andare fra le viti nel filo di mezzogiorno: è l’ora che il corpo dei defunti, svuotati dalla carne, con la pelle fina come la carta velina, appaiono fra la lava. È per questo che le cicale urlano impazzite dal terrore» (Sapienza 2019). Così scrive Goliarda Sapienza in esergo de Il filo di mezzogiorno (che fa parte di una delle Autobiografie delle contraddizioni che cominciò a scrivere alla fine degli anni ’60). Per gli antichi i fantasmi e le paure paniche apparivano a mezzogiorno. Il sole allo zenit, assorbendo le ombre dava adito all’apparizione di Pan, il dio che permetteva l’emergere perturbante dei traumi. L’ora in cui è possibile lasciarsi rapire da Pan e uscire di senno. L’ora del panico dove si scatenano le forze naturali a un tempo minacciose e salvifiche. Roger Caillois in un bellissimo libro aveva mostrato come i rapporti che legano le divinità meridiane, Pan, le sirene e le ninfe, agli uomini, le loro apparizioni, fossero anche un mezzo di guarigione tramite le seduzioni e gli effetti delle loro tentazioni, parossismi, abbandoni, deliri che avvolgono di soprassalto nell’ora dei demoni meridiani. Ed è a mezzogiorno che Goliarda scrittrice (ma anche attrice) e uno psicoanalista si incontrano in una stanza della casa di lei per dipanare un filo (svolgendolo e riavvolgendolo in una inestricabile e apparentemente interminabile anamnesi).
Lei è Goliarda Sapienza, lui Ignazio Majore. Siamo agli inizi degli anni ’60. Goliarda è la compagna di un cineasta, Citto Maselli, che l’ha tirata fuori dalla trappola di una clinica psichiatrica dove le veniva praticato l’elettroshock e l’ha affidata alle cure di uno psicoanalista di scuola freudiana, che però inventa un metodo eterodosso, rispetto alla psichiatria ufficiale, la cosiddetta “analisi mentale”. Entrambi siciliani. Lui giovane analista introdotto negli ambienti intellettuali e cinematografici (fu uno degli analisti di Fellini); lei catanese cresciuta in un quartiere popolare come San Berillo, in una famiglia di antifascisti, sindacalisti e militanti socialisti (la madre, Maria Giudice, figura mitica, la cui morte segnerà per Goliarda una lunga elaborazione del lutto), coinvolta in un rapporto forte con i fratelli (del radicalista Ivanoe in una intervista disse che fu il solo vero amore della sua vita, e rivelò di avere assunto il nome Goliarda da quello di Goliardo, fratello morto adolescente, affogato dai fascisti). Goliarda non va a scuola perché il padre non vuole che diventi una “piccola italiana cretina”, ma studia da sé musica, filosofia, divora i libri disseminati per casa, anzitutto i testi teatrali, tanto che il padre la iscrive all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio D’Amico di Roma, dove supera la prova e viene ammessa.
Gridai con la voce di quella pazza: “La mala Pasqua a te!”. Mi dolevano le ginocchia sulle quali, nel grido, mi ero buttata e il torace come squarciato. Avevo gridato troppo forte? Le mani che mi rialzavano ora erano tante e calde, rassicuranti. Dicevano brava? O dicevano talento? “Certo la dizione spaventosa, l’accento pazzesco ma temperamento… temperamento”. Con le ginocchia ed il torace rotto ero stata ammessa alla Regia Accademia d’Arte Drammatica con la borsa di studio (Sapienza 2019, p. 18).
Ma Goliarda lascia l’Accademia e, dopo aver recitato in alcune compagnie pirandelliane, smette di fare l’attrice. Ha incontrato Maselli, i due saranno per molti anni inseparabili, passionalmente legati. Comincia a lavorare nel cinema, in piccole ma significative parti, in assonanza con il suo temperamento “contraddittorio”: per Visconti è l’ambigua “affittacamere” di Senso (1954), con Blasetti è Letizia in Fabiola (1948), una donna vittima delle persecuzioni religiose, che scrive la storia dei cristiani, a partire dai racconti ascoltati dal Maestro Cassiano. Ma è dopo la morte della madre, affetta da Alzheimer, che Goliarda comincia al contempo a scrivere. E la scrittura diventa una sorta di sonda dolorosa nel proprio profondo. Dentro di sé, attraverso la scrittura, che si fa a poco a poco sia discesa agli inferi sia autocura per raccogliere ciò che in lei comincia a frantumarsi, si rivela una sorta di destino che ha a che fare con uno sdoppiamento. Le crisi depressive, i tentativi di suicidio, diventano come una sorta di rifrazione, di frantumazione, che lei stessa mette in scena come una psicomachia, nel teatro della mente.
Ecco: nella drammaturgia che Ippolita Di Majo ha costruito, e nello spettacolo che Mario Martone ha messo in scena, si accende questo teatro mentale, proprio lungo queste direttive di sdoppiamento e di specchio in frantumi. Vengono messi in campo la complessità ribollente, magmatica (come la terra vulcanica da cui Goliarda proviene), il suo viscerale esporsi alle situazioni limite, i frammenti di specchio della sua mente, quel suo arcano e istintivo provenire (come si vede nei tratti somatici del suo profilo greco) da un retroterra “ancestrale” (questo il titolo del suo primo libro, poesie dedicate alla madre morta), qualcosa di menadico, che incarna le seguaci di Dioniso. In modo obliquo e sottile, come un inganno della percezione e della mente, il manifestarsi di forze che hanno a che fare con la potenza dell’eros e i misteri di un tempo non lineare, di un “presente continuo” (come intitola Ippolita Di Majo la sua suggestiva presentazione nel programma di sala), emerge questo clima dove si confondono i vivi e i morti, i moderni sacerdoti (gli psicoanalisti) e le moderne possedute (antiche sacerdotesse non riconosciute, non riconciliate).
All’inizio, scostando il sipario rosso, appare Goliarda (incarnata da Donatella Finocchiaro con una intensità fisica e insieme con una paradossale “apatia” frenetica, un alternarsi di abbandono inerme e di ribellione lucida), in sottana bianca come uscisse da uno dei disegni che ci sono rimasti delle isteriche curate dal dottore Charcot alla Salpetrière. Goliarda diventa subito il polo magnetico di attrazione in una esposizione spaesata, frammentaria, ipnotica, spudorata, spasmodica della sua “scena psichica”. E quando si apre il sipario ci troviamo di fronte a un interieur, a una scena che a prima vista sembra un interno borghese, anche un po’ dimesso («mi ero imborghesita frequentando troppo l’ambiente intellettuale», confessa la scrittrice nell’intervista citata). Questo squarcio da teatro naturalista, subito ci dà una strana vertigine, che è la stessa di Goliarda. Lei ha perso la memoria a seguito degli elettroshock cui è stata sottoposta, non riconosce più la sua casa, i suoi mobili, i suoi libri. Seduto tranquillamente su uno dei due divani, c’è quella presenza estranea che ha il compito di cavare come filamenti brucianti dalla sua sofferenza mentale le schegge infrante, e pone domande con un atteggiamento calmo e impassibile, che diventa mano a mano paziente empatia, sottile partecipazione, seduzione, come in ogni transfert analitico. Goliarda si sente:
Smontata pezzo per pezzo […] sente affiorare alla superficie del suo corpo mentale “vecchie piaghe cicatrizzate da compensi” che il “medico dei pazzi” riapre “frugandoci dentro con bisturi e pinze”. Una premura di cura che diventerà premura di fretta: “richiudere, ricucire quelle piaghe alla meno peggio… e in quella fretta spastica aveva dimenticato dentro qualche pinza” (Lingiardi 2021).
Via via la memoria affiora e Majore investe il ruolo di qualcuno che plasma e manipola il corpo psichico, come investito da una funzione quasi sacerdotale (Roberto De Francesco, che ha il ruolo dell’analista, calibra in modo raffinatissimo questo procedere manipolatorio). In realtà Martone ci sta mettendo di fronte, sulla scorta dello spiazzamento della labirintica drammaturgia di Ippolita Di Majo, a una sorta di trompe l’oeil che dà forma all’io diviso, al destino sdoppiato di Goliarda, a quella fragile parete invisibile, a quella “immagine allo specchio” (c’è appunto anche un sapore bergmaniano) che progressivamente va in frantumi proprio nel riflettersi di una falsa simmetria (da qui il rumore di vetro-specchio infranto che costella i momenti sonori.)
La scena viene percepita sottilmente come una stessa zona a specchio. La zona 1 e la zona 2 le ha chiamate la Di Majo, il notturno inconscio e il diurno reale, che però diventano i riflessi l’uno dell’altro, dal momento che, se le ombre dell’inconscio resistono nell’immaginario al tentativo di coercizione del simbolico, per dirla con Lacan, è proprio l’abisso del reale, ciò verso cui convergono e divergono. Non resta altro allora che il transfert (“mi sono innamorata di lei”) si rovesci nel controtransfert. Si tratta di una “storia d’amore”: così l’ha definita Angelo Pellegrino (che ha prefato la nuova edizione del libro per La Nave di Teseo), a sua volta figura “contraddittoria”, caratterista nel cinema comico italiano e uomo colto, professore di latino e greco, anche lui non a caso siciliano, con dentro “la corda pazza” pirandelliana, e che è stato per vent’anni marito di Goliarda Sapienza, avendo il merito del successo mondiale e postumo della scrittrice, a partire da un sublime romanzo come L’arte della gioia.
A questo punto chi si sottrae, chi esce di scena, “umiliato e offeso” ma in realtà colto dal terrore dell’ora di mezzogiorno dove l’amore si mescola alla morte, e costituisce il giubilo che fa tremare la vita, è lui, l’analista. Mentre il femminile eterno, nel suo volto folle e insieme sapiente, vince il corpo a corpo. Lo vince proprio nel suo r-esistere fisico fino allo stremo, e nella gioia di «morire perché si è vissuti», e di rivivere perché si è morti più volte, visitando gli inferi. Risuona la voce della Sophia antica, e questa parola greca si traduce, appunto, in Sapienza.
Riferimenti bibliografici
R. Caillois, I demoni meridiani, Bollati Boringhieri, Torino 1999.
V. Lingiardi, La stanza della memoria, Programma di sala dello spettacolo, 2021.
G. Providenti, La porta della gioia, Nova Delphi, Roma 2016.
G. Sapienza, Il filo di mezzogiorno, a cura di A. Pellegrino, La Nave di Teseo, Milano 2019.
Il filo di Mezzogiorno. Testo: Goliarda Sapienza; regia: Mario Martone; interpreti: Donatella Finocchiaro, Roberto De Francesco; aiuto regia: Ippolita di Majo; scene: Carmine Guarino; costumi: Ortensia De Francesco; fotografia: Mario Spada; luci: Cesare Accetta.