Nel teatro, nel cinema, nella televisione, nei concerti e nei concetti, nei romanzi, nella poesia di Carmelo Bene, gli oggetti hanno quasi sempre funzione negativa: oggetti del malessere, spesso destinati a nascondere il vuoto che racchiudono, o a rivelarlo clamorosamente. Ne feci già un elenco, in occasione del decennale della morte, nel libro Carmelo Bene. Il cinema oltre se stesso (Pellegrini 2012), elenco che ripropongo qui in versione aggiornata. La parola chiave è “oltre”: il romanzo si tramuta in teatro, il teatro in cinema, il cinema in televisione ecc. Gli oggetti, certi oggetti, diventano il veicolo concreto di un vuoto, un oltre destinato a non colmarsi mai.

Allo sconcerto d’un pubblico e d’una critica miope, che andavano a teatro per sentire/vedere l’ennesima ripetizione d’un testo quasi mandato a memoria e restavano sconcertati di fronte all’irriconoscibile, corrispondeva la vera e propria ira d’un pubblico cinematografico, convinto di andare a vedere un film dallo svolgimento narrativo comprensibile – un pubblico convinto d’essere preso in giro, capace, per la rabbia, di distruggere la sala, nonostante che gli esercenti stessi avvertissero preventivamente che si trattava di film “difficili”.

In un film narrativo, un oggetto può essere il motore della storia, ma per assolvere questa funzione occorre che sia chiaramente riconoscibile, che venga messo in primo piano e su di esso si insista, sottolineandone l’importanza. In questo senso, è un oggetto il primo piano stesso del volto dell’attore, dai cui sguardi, dalla cui espressione, dalle parole che pronuncia, si deduce il seguito della storia. Ma la voce di Carmelo Bene parlava quasi sempre d’altro rispetto a quello che gli accadeva intorno. O peggio, quello che gli accadeva intorno non si capiva, nella sparizione d’ogni filo narrativo.

Gli oggetti stessi, allora, diventavano irriconoscibili, o difficilmente riconoscibili, in quanto tali. Gli stessi oggetti e perfino le architetture. Irriconoscibile il Palazzo Moresco di Nostra Signora dei Turchi, di fronte al quale c’è la casa di un cretino, lo stesso Carmelo Bene, che dalle sue finestre si butta continuamente, fino a farsi un corpo ricoperto di bende e cerotti. Si butta dalle finestre, forse nell’illusione di poter volare, come faceva San Giuseppe da Copertino. Oppure cade continuamente dal letto.

Risuonano arie di Verdi, il grande amore di Carmelo Bene – quelle arie che già sostenevano il tessuto sonoro di Hermitage:

[…]
Ma se m’è forza perderti
Per sempre, o luce mia,
a te verrà il mio palpito
sotto qual ciel tu sia,
chiusa la tua memoria
nell’intimo del cor.
Chiusa nell’intimo del cor.

Ed or qual reo presagio
lo spirito m’assale,
che il rivederti annunzia
quasi un desio fatale…
come se fosse l’ultima
ora del nostro amor?

Come se fosse l’ultima,
l’ultima ora –
ora del nostro amor!
[…]

(G. Verdi, Un ballo in maschera, atto III, scena 2)

Risuona altrove (in Nostra Signora ) una canzone, Musica Proibita: «Vorrei baciare i tuoi capelli neri…».

Santa Margherita, su quel letto fatidico, legge Annabella, e sarebbe disposta a perdonare i  tradimenti del protagonista, fin quasi alla fine – quando, impacciato da un’armatura, Carmelo Bene soccombe ai piedi del suo altare. Estremo monito della Santa a Carmelo Bene: “Ricordati di pagare la bolletta del telefono”. Il Palazzo Moresco acquista ali, o piuttosto vele, salpando verso il mare. Famiglie di turchi lo abiteranno a poco prezzo. Si impone qui una prima categoria di oggetti, quella di OSSA e  TESCHI. Ossa umane, teschi dei martiri, decapitati in nome della Fede su un campo di grano da turchi inturbantati. Raccolti nella cattedrale d’Otranto, i teschi formano colonne di scheletri ammiccanti. Qualcuno, per miracolo, ha conservato addirittura gli occhi. Teschi e ossa. Ossa che tornano ad affiorare dalle tombe segnate dalle CROCI, piantate in riva al mare in Un Amleto di meno.

Qui oggetti privilegiati si confermano i BAULI, alla lunga assimilati a SARCOFAGI. Li preparano Amleto e Kate, sulla scena d’una tragedia che non si reciterà. Kate è Gertrude, regina di Danimarca. Amleto, sulla scia di Laforgue, vorrebbe trascinarla a Parigi, darsi con lei alla bella vita, tanto è vero che ad ogni baule viene incollata l’etichetta “Paris Express”. Nell’allegra confusione della partenza, i bauli si riempiono di costumi, accessori di scena, trovarobato vario. Si riempiono come non avessero fondo, e forse non l’hanno. Kate tentenna. “Non sono che una povera disgraziata” – dice – “ma ho l’animo elevato, io. Vorrei diventare infermiera, per dedicarmi ai poveri feriti della guerra dei Cento Anni”.

I bauli contengono anche CORAZZE. E le Corazze sono lì per essere indossate dai guerrieri, dai capitani catafratti, dagli eroi senza paura, destinati alla guerra o alla vendetta. Solo che alla fine daranno l’impressione d’essere vuote, involucri senza contenuto, mosse dall’automatismo d’una misteriosa forza d’inerzia. Oppure chi le indossa ne viene inglobato e annullato, come Mauro Contini in Lorenzaccio, etero diretto dai rumori di finti duelli. Un Amleto di meno è anche il luogo dei LIBRI, che però sembrano letti per finta, in genere da ragazze discinte e occhialute. Formano cataste irregolari, e spesso le loro pagine vengono strappate, magari usate per trascrivere messaggi sibillini. In Macbeth torna il motivo delle BENDE, della ferita che non è nel braccio, o nella testa, ma nella benda stessa. E anche qui ogni eventuale amplesso con lady Macbeth è ostacolato dalla corazza, tanto è vero che, per la rabbia, Macbeth inizia addirittura a distruggere il palcoscenico.

In Capricci, il poeta combatte contro il pittore a colpi di QUADRI. Quadri che imitano oggetti reali, ma anche oggetti reali che imitano quadri. Si ammassano inoltre cataste di AUTOMOBILI, sfasciate senza un perché dal poeta delirante (qui occorrerebbe fare il confronto con Week End di Godard, dello stesso anno: film “fatto di rottami”). Nel Don Giovanni, tra Mozart e Barbey d’Aurevilly, troviamo forse l’oggetto più enigmatico di tutto il cinema di Carmelo Bene, il PIANOFORTE (o PIANOLA ) senza suono, sui cui tasti muti invano passano le dita di Gea Marotta: strumento di suono senza suono, come un Don Giovanni senza seduzione. Per Pentesilea o l’in-vulnerabilità di Achille, invece, gli oggetti di scena sembrano meno sfuggenti, sono PROTESI in gesso raffiguranti arti femminili (teste, braccia, mani, gambe). Sfuggenti, anzi spettrali, diventano, anche questi oggetti, quando sono investiti all’improvviso da una luce accecante. Il corpo in gesso di Pentesilea allora quasi miracolosamente si ricompone, rivive, si offre all’eroe nell’ultima carica di eros necrofilo.

Infine bisogna menzionare i FIORI, le rose verdi di cui si cinge la testa Carmelo Bene (Giacobbe) in Hermitage. Giacobbe invia lettere a se stesso, a un se stesso/donna che solo per un equivoco è Rachele, silenziosa dirimpettaia. Anche qui cade continuamente dal letto, luogo di non-riposo, ma la sua attenzione è catturata da un vaso da fiori lacaniano, posto su un tavolino, che lo ipnotizza per ragioni misteriose. Carmelo Bene guarda il vaso, il vaso lo guarda. Aleggiano le ombre di Mallarmé e Lacan. Per me sono fiori di ascendenza anche pasoliniana (Accattone), sebbene Carmelo Bene non fosse incline a riconoscerlo. Hermitage prova di luci per Nostra Signora? Certo, prova di luci, o prova di morte in scena. Ma soprattutto della morte (del Nulla o del Tutto che è Nulla) importa ridere.

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