“Al college vi insegnano a essere creativi, vero? Perché qui [ad Abu Ghraib] è la creatività che serve”. Così dice John Gordo, ex torturatore dell’esercito americano passato ad occuparsi di sistemi digitali di sorveglianza. Sembra dunque che Paul Schrader, nel tratteggiare un personaggio che allude esplicitamente alla «war on terror» come al laboratorio della contemporanea «società del controllo», abbia voluto precisare che di quest’ultima sono parte integrante le più recenti evoluzioni del sistema educativo. Riferimento marginale, forse, ma non troppo: dopotutto, sono i debiti del college di Cirk a spingerlo verso il protagonista, William Tell. E se, allora, Il collezionista di carte fosse un film che ci parla, fra l’altro, anche di quello che è diventato il sistema educativo e di ciò che potrebbe invece essere?
Già dai tempi de Il trascendente nel cinema, e poi nei suoi film, Paul Schrader ha incrociato Ozu e Bresson: la forma zen, coincidente col vuoto, come chiave per reintrodurre l’incarnazione cristiana in un mondo che ormai ne fa a meno. Oggi, il mondo è per davvero governato da una forma vuota: l’algoritmo. Vuota, perché trasforma qualunque contenuto in un’identità quantificabile. Lo si vede nei dispositivi di riconoscimento facciale promossi da Gordo, ma anche negli altri personaggi: da LaLinda che vive alla grande senza soldi ma gestendo quelli degli altri, a William che si fa algoritmo vivente per poter vincere al tavolo verde. E il giovane Cirk, parlando degli abusi di Abu Ghraib, usa una metafora che distingue forma e contenuto: “Il problema non erano le mele marce, ma la cesta”.
Da questa forma vuota, però, William cerca di distinguersi per eccesso, sposando un pretesco formalismo neo-dandy che esaurisce la propria vita nei rituali ossessivi, trasformandola in forma vuota: è il suo modo di pensarsi come definitivamente al di là dei conflitti, dunque (di nuovo Il trascendente nel cinema) al di là di qualunque prospettiva narrativa (William dice di fare quello che fa per “passare il tempo”), sostituita semmai dalla scrittura. Gli eventi, tuttavia, lo porranno di fronte a una sottigliezza teologica inattesa: come in First Reformed, per essere un vero prete-dandy, bisogna che la forma vuota si riconosca in un contenuto. Cirk, da materiale attraverso cui riconfermare la bontà della forma vuota sposata da William (astraendosi dai conflitti), diventa materiale con cui William si identifica per sostituire all’ascesi una sanguinosa imitatio Christi. Risultato: il ritorno al punto di partenza, una vita carceraria scandita dai rituali ossessivi. Ma nell’ultimissima inquadratura, ennesima citazione da Pickpocket, lo schermo divisorio toccato da William e LaLinda spacca l’immagine in due metà, una fuori dal carcere, una dentro.
Su questa interscambiabilità tra interno ed esterno si chiude un film che in molte maniere allude a una topologia analogamente escheriana; ad esempio, quando il carcere viene visitato da fuori, grossomodo a metà tra un inizio e una fine ambientati dentro di esso: il dentro che incornicia il fuori. Poco dopo, William e LaLinda visitano un parco luminoso in notturna nel quale migliaia di led sostituiscono forme tridimensionali inesistenti, ma ricostruibili gestalticamente da un soggetto percipiente che tuttavia non sta loro davanti, ma dentro e in movimento.
Già la vecchia metafisica dell’incarnazione si fondava sull’inversione interno-esterno. Più di recente, insieme al teologo Clayton Crockett, Catherine Malabou ha riconosciuto come la plasticità da lei teorizzata liberi il potenziale auto-decostruttivo insito nel cristianesimo: la metafisica dell’incarnazione senza la teleologia lineare. Non uno spirito «prima» e «dentro» che prende corpo «fuori» e «poi», ma il punto di indistinzione tra uno e l’altro.
Impossibile, in poche righe, dar conto del concetto di plasticità, uno dei gesti filosofici più fertili e ricchi di potenziale degli ultimi anni. In breve, plastica è quella forma capace di ricevere la forma, dare forma, e distruggere la forma al tempo stesso. Plasticità è la capacità, da parte della forma, di incorporare la contingenza di una nuova forma, cambiando quella di partenza, laddove «cambiando» indica non un progresso verso un qualche futuro, ma la riscoperta e la ridefinizione di ciò che la forma di partenza è sempre stata. Dentro e fuori, prima e dopo, contingenza ed essenza si scambiano le parti mimeticamente ed escherianamente. Ciò che la plasticità non è, è flessibilità. Feticcio neoliberale, la flessibilità è una forma che si adatta passivamente a qualunque contingenza, affinché la forma soggiacente a tutte le contingenze confermi se stessa senza lasciarsi individuare.
“Flessibilità” fa rima con “creatività”. Per John Gordo, aggrappato alla vecchia metafisica antiplastica dell’espressione, la creatività serve ad estrarre dai corpi un contenuto (William: “E se non hanno nessun contenuto da condividere?”; Gordo: “Ma certo, dite tutti così”). In un film come Il collezionista di carte, in cui viene opposta una forma vuota pensata come separata rispetto a qualunque contenuto, e una forma vuota che pone in reciproca tensione forma e contenuto, prima e dopo, dentro e fuori, il dialogo in esergo sembrerebbe il sintomo di una contrapposizione, parallela a quella tra forme vuote appena delineato, in seno alle istituzioni educative ai tempi delle «società di controllo» neoliberali.
Da un lato, la partecipazione attiva degli studenti che diventa obbligo formalizzato, flipped classrooms, problem solving, e altri anglismi male invecchiati che curiosamente vengono ancora spacciati come novità in alcune province dell’impero. L’idea è quella dello studente come futuro troubleshooter, ovvero qualcuno che, quando si inceppa qualcosa, è abbastanza sveglio da aggiustarla lasciando tutto come prima, senza farsi domande sul perché il problema si sia creato in origine (e potrebbe dunque crearsi ancora). Qualcuno che, davanti ai dati dissonantemente conflittuali di un problema, si inventa una soluzione, creando una forma dove prima non c’era: la creatività, qui, è la facoltà di produzione di un qualitativo complementare al principio di quantificabilità universale che regge le «società del controllo», votato a tapparne le inevitabili falle.
Dall’altro lato, le scienze dell’educazione hanno già cominciato a studiare forme di intersezione tra pedagogia e plasticità nel senso specifico di Malabou (quello in bibliografia è solo uno dei numerosi esempi reperibili). La maggior parte si concentra su una rivisitazione della vecchia idea di Bildung alla luce di una temporalità plastica e non lineare: lo sviluppo a tutto tondo dell’individuo non come un processo graduale in prospettiva di un esito prefigurato, ma come un sistema di ridefinizioni della personalità grazie agli incontri con contingenze esterne, estranee e non programmabili in anticipo. Non va dimenticato, tuttavia, che per la plasticità l’autocoscienza del soggetto e la coscienza della forma sono rigorosamente la stessa cosa. Perciò il soggetto cui guarda un’istruzione “plastica” non è quello che assembla elementi irrelati creando la forma dall’informe. In un’ottica di plasticità, l’informe non esiste. C’è sempre una forma, anche quando è irreperibile, e il soggetto cui tende un’istruzione “plastica” è quello capace di riconoscerla e di individuare in essa il punto di crisi tra le sue componenti, sulla scorta di cui potrà agevolare il cambiamento della forma, incorporando una contingenza che ne ridetermini retroattivamente l’essenza.
Un’istruzione “plastica” insegna dunque non a essere creativi, ma come funziona la creatività. Insegna, cioè, a familiarizzare con i processi di cambiamento “plastico” delle forme (non solo artistiche, ma anche sociali, tecnologiche etc.), indirizzati non a un telos futuro, ma a un’incessante rideterminazione retroattiva del passato di cui un presente sempre nuovo è il risultato. Familiarizzarsi con questi processi rende possibile un uso autocosciente e responsabile della creatività, anziché a comando giusto quando serve (“flessibilità”, lo sappiamo, fa anche rima con “precarietà”).
Al cuore della forma ci sarebbe insomma qualcosa di analogo alla Nachträglichkeit freudiana: la forma presente rideterminerebbe retroattivamente ciò di cui essa sarebbe espressione, lasciandosi plasmare dalla contingenza e plasmandola a propria volta. Non si contano i fenomeni storici, filosofici, letterari, artistici etc. che esemplificherebbero agevolmente questo principio, e che dunque si presterebbero a fornire le basi per un’educazione alla plasticità ancora da inventare. Anni dopo Il futuro di Hegel, Malabou ha brillantemente dimostrato che le neuroscienze, per essere fedeli alle proprie stesse premesse, hanno bisogno di un inquadramento filosofico squisitamente “continentale”; più in generale, l’enfasi sulla creatività di tanta accademia contemporanea (soprattutto anglosassone) sembra, proprio malgrado, adombrare per le discipline umanistiche un inatteso, possibile futuro.
Riferimenti bibliografici
C. Crockett, C. Malabou, Plasticity and the Future of Philosophy and Theology, in “Political Theology”, vol. 11, n. 1, 2010.
K. Horn Hogstad, Is (It) Time to Leave Eternity Behind? Rethinking Bildung’s Implicit Temporality, in “Journal of Philosophy of Education”, Settembre 2020.
C. Malabou, L’avenir de Hegel: plasticité, temporalité, dialectique, Vrin, Paris 1996.
P. Schrader, Il trascendente nel cinema: Ozu, Bresson, Dreyer, Donzelli, Roma 2010.
The Card Counter. Regia e sceneggiatura: Paul Schrader; fotografia: Alexander Dynan; montaggio: Benjamin Rodriguez Jr.; scenografia: Ashley Fenton; costumi: Lisa Madonna; musica: Giancarlo Vulcano, Robert Levon Been; interpreti: Oscar Isaac, Tiffany Haddish, Tye Sheridan, Willem Dafoe; produzione: Braxton Pope, Astrakan Film (Lauren Mann), David Wulf, Saturn Streaming, Redline Entertainment in associazione con LB Entertainment, Enriched, Media Group, Grandave Capital, One Two Twenty Entertainment; origine: Usa, Regno Unito, Cina; durata: 112’; anno: 2021.