Un Frecciarossa arriva alla stazione di Milano. Sullo schermo appare la scritta «Ai fratelli Lumière», poi subito dopo un’altra scritta: «…e a Gianni Minervini». Come se con questo suo nuovo film (presentato Fuori concorso al 38° Torino Film Festival) Capuano volesse riattingere a una origine. Da un lato alla natura testimoniale del cinema, come itinerario di un riconoscimento nel porsi faccia a faccia, guardando semplicemente nelle cose, dritto negli occhi del reale, nel suo dato tragico, e nella sua valenza politica. Dall’altro alle origini del suo stesso cinema che, fin dai suoi primi film (prodotti da Minervini, recentemente scomparso), metteva in questione la carne viva di un luogo come Napoli e il suo fondo tragico (sempre dissimulato nel sentimento di quella bellezza dispersa e maledetta, di quella armonia perduta di cui parlava Raffaele La Capria): prima nel filmare con Vito e gli altri (1991) l’“educazione criminale” di un sottoproletario dodicenne sopravvissuto al massacro insensato della sua famiglia, poi con Pianese Nunzio, quattordici anni a maggio (1996), piegando il tragico al melodrammatico con l’amore fatale e redentivo tra un giovane sacerdote impegnato sul campo contro la camorra e un adolescente bellissimo dotato di un misterioso talento musicale, che finirà col denunciare il prete per molestie.

Ma lo sguardo di Capuano non si fa mai cronachistico, il suo stile è sempre obliquo, commisto, sperimentale, secco ed esornativo a un tempo, con una libertà nel lasciare andare il film per cammini interrotti e subito ripresi, lungo un filo che congiunge stile, sguardo critico e sostanza narrativa. C’è una urgenza nel suo far cinema che ogni volta irrompe e sorprende, e anche un alternarsi di registri, che svariano nel paradossale, nel grottesco nero, nel tragico deformato (come avviene rispettivamente in Polvere di Napoli, 1998, e nella rilettura dell’Orestea su sfondo camorristico di Luna Rossa, 2001).

Vediamo tra la gente scesa dal treno una ragazza con gli occhiali scuri, va all’appuntamento con l’assassino di suo padre, un poliziotto ventenne ucciso da un militante di estrema sinistra nel maggio del ‘77. Dopo decenni si è decisa ad incontrarlo, a guardarlo negli occhi. Lei che, nata quando il padre era già caduto sanguinante sul selciato di una strada di Milano, quel padre non lo ha mai visto se non in una foto sulla parete di casa sua: un ragazzo dalla faccia pulita. E qui ritornano in mente i versi scritti dell’“empirista eretico” Pasolini in Il PCI ai giovani nel 1968:

Perché i poliziotti sono figli di poveri.
Vengono da subtopie, contadine o urbane che siano.
Quanto a me, conosco assai bene
il loro modo di esser stati bambini e ragazzi,
le preziose mille lire, il padre rimasto ragazzo anche lui,
a causa della miseria, che non dà autorità.
La madre incallita come un facchino, o tenera
per qualche malattia, come un uccellino  (Pasolini 1972).

“Mi chiamo Serra Maria” dice quella ragazza rivolta alla camera e comincia a raccontarci come in diretta, interpellandoci, la sua storia, con un piano-sequenza magistrale, mentre si spoglia della tuta di spazzina. Maria è una strepitosa Teresa Saponangelo (che già in un episodio di Polvere di Napoli parlava a rotta di collo alla macchina da presa in un monologo da mozzare il fiato). Il suo personaggio è ispirato a una storia vera, quella di Antonia Custra, figlia di un carabiniere di San Giorgio a Cremano, ucciso da un militante di Prima Linea nel 1977, che decise dopo trent’anni di andare a conoscere, a guardare negli occhi, chi uccise suo padre, uscito di prigione.

E nel film tra i due riecheggia ancora quella poesia di Pasolini. “Mio padre era un proletario e finì per essere il bersaglio di quelli come voi, figli di ricchi” dice lei in un confronto serrato con l’ex-militante, e lui: “Fu come sparare nel buio mentre la luce ti acceca con un buco nero di fronte”. “Io il buco ce l’ho nella testa”, gli risponde Maria. L’appello ai Lumière iniziale allora può intendersi come il ritrovare l’affondo nel reale. E il reale, come sapeva Lacan, è una sorta di buco, un vuoto in cui il soggetto viene risucchiato dallo iato di una mancanza, di un manque-à-être di un oggetto perduto. Qui lo spazio vuoto è insieme esistenziale e politico. Da un lato il dolore sordo di una donna, figlia di un giovane poliziotto venuto dal Sud, da Torre del Greco, entroterra napoletano, che non ha mai visto nascere sua figlia, dall’altro lo squarcio mai elaborato degli anni di piombo, del Settantasette, della guerriglia armata.

Maria cresce introiettando quel vuoto, con un lutto quasi impossibile da elaborare. Maria è cresciuta con quel “buco in testa”, i suoi rapporti con gli uomini sono precari, hanno insieme il tono della sfida e quello dell’appello a una tenerezza amorosa solo intravista. Nel rapporto con un “maestro di strada” che insegna teatro in un centro sociale ai ragazzini dei vicoli napoletani (destinato anche lui a un epilogo sanguinoso, quando viene arrestato, per aver ucciso a sua volta un fascista). In quello con un giovane poliziotto su cui Maria sembra proiettare l’immagine paterna. In quello con un vecchio amico di famiglia che fin da bambina l’aveva amata. Solo la solidarietà femminile con una amica costretta ad abortire sembra farle ritrovare un rapporto umano. E il dialogo con una psicologa la spinge alla decisione di partire per Milano per incontrare colui che l’ha lasciata orfana prima ancora di nascere.

Il film procede su un tempo divaricato, con un montaggio che si interseca tra due luoghi e due dimensioni del tempo: la giornata trascorsa a Milano per incontrare l’invecchiato e intristito assassino del padre (un Tommaso Ragno che vive nel suo corpo stanco l’opacità e l’oscurità del suo senso di colpa), e il risalire lungo un flashback/flusso di coscienza la vita immersa nel disagio di Maria, sotto i cieli desolati e la distesa di un mare grigio nella sua Torre del Greco. Con una madre accanto quasi ammutolita nell’incallirsi di un dolore protratto, dolore al limite della follia che la conduce un giorno a barricarsi in casa afferrando un coltello, allucinando un agguato delle brigate rosse.

Capuano esplora l’itinerario di un riconoscimento da parte di Maria. L’individuazione di un punto oscuro che vorrebbe anche lei suturare con un colpo di pistola, con una sorta di vendetta covata nel tempo. Ma non sarà così: Maria nell’atto mancato ritrova la capacità di “fare pace” con se stessa e con il mondo, attraverso l’irrompere di un sentimento di perdono che improvvisamente prende campo, proprio nel momento in cui sta anche lei per sparare all’assassino del genitore, con la stessa pistola del padre, ritrovata in una scatola, insieme a tutti gli oggetti del passato rimosso, tra cui la fotografia di un militante che impugna l’arma (Capuano cita una foto scattata all’epoca da Paolo Pedrizzetti, quella dell’autonomo con il passamontagna che punta la P38, divenuta quasi una tragica icona). Maria non sparerà a sua volta.

Spesso gli esseri umani:

Hanno paura di rendersi conto delle proprie ferite e hanno perso il contatto con le proprie lacrime. Lo spirito femminile, che ha il coraggio di affrontare sia la ferita che la forza dell’ira e le lacrime, può guarire attraverso l’apprezzamento del potere ciclico naturale […] e la capacità della terra di accogliere i nuovi semi di creatività. (Leonard 1985, p.165)

Tutto ciò viene come diffratto e frammentato con un andamento insieme contratto e dilatato, che alterna strappi di montaggio a momenti in cui il tragico si distende in una sorta di triste elegia del paesaggio umano e naturale (esemplare come Capuano filma, attraverso gli occhi di Maria, il mare e la spiaggia, estroflettendone un sentimento di indefinibile pietas, che congiunge dolore e bellezza). Lo stile sperimentale tipico di Capuano e la sua attenzione agli spazi e ai cromatismi si dischiude nella ricostruzione dell’omicidio, resa con una serie di sovrimpressioni, materiali d’epoca, decolorazioni punteggiate di rosso (le “macchie rosse” ricorrono spesso negli ambienti e negli accessori del film, quasi in modo simbolico), il tempo rimosso dell’epoca che si riflette come una proiezione in tempo reale nelle vetrine, fino al momento lancinante in cui Maria si accascia sul marciapiede nel punto stesso in cui il padre cadde al suolo colpito dal proiettile. Capuano riesce a scavare l’immagine ad enuclearne una sorta di visione policentrica, in cui è possibile la catarsi dal momento in cui il dolore singolo si fa collettivo e si comprende che, come diceva Jean Renoir in un dialogo de La règle du jeu (1939): “Ognuno ha le proprie ragioni”.

Octave: “Vuoi sapere una cosa? Vorrei sparire in un pozzo senza fondo!”
Robert: “E a che cosa ti servirebbe?”
Octave: “A non vedere più nulla, a non cercare più ciò che è bene e ciò che è male. Perché a questo mondo c’è una cosa terribile, che ognuno ha le proprie ragioni”.

Il passaggio dei treni che solcano molti momenti del film, con il “va e vieni” degli stati d’animo di Maria, danno la misura di una andata e ritorno alle radici del generarsi delle immagini in empatia con il processo di riconoscimento di una donna, con il suo impulso a guarirsi attraverso una pacificazione che ha le sue ragioni anzitutto nell’umano. Ed è il suo volto riflesso nel finestrino del treno che la riporta a casa, un volto la cui bellezza e la cui sofferenza trovano finalmente assolvimento nel rivolgersi, al di là del tempo e dello spazio, a suo padre che ora ha trovato posto in lei quasi insieme coincidendo con, e suturando il, buco nero che dalla sua testa è come disceso nel cuore, chiarificandosi.

“Ciao Papà sto venendo, l’aggio guardato int’all’uocchie, ma proprio quando…. però è bello a fa pace, è bello”, sono le parole del cuore che, come echeggianti dal ritmo dei binari e dal flusso della musica di Philip Glass, ascoltiamo, mentre l’evanescenza delle immagini e dei paesaggi trascorre sul suo volto riflesso dal finestrino, assimilato allo schermo. Quest’immagine finale ci fa comprendere che quando un film è capace di rispecchiarci, allora guardiamo negli occhi noi stessi.

Riferimenti bibliografici
L.S. Leonard, La donna ferita. Modelli nel rapporto padre-figlia, Astrolabio-Ubaldini, Roma 1985.
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 1972.

Il buco in testa. Regia: Antonio Capuano; sceneggiatura: Antonio Capuano; fotografia: Gianluca Laudadio; montaggio: Diego Liguori; interpreti: Teresa Saponangelo, Tommaso Ragno, Francesco Di Leva, Gea Martire, Vincenza Modica, Anita Zagaria, Daria D’Antonio (II), Bruna Rossi, Alberto Ricci Höiss, Vincenzo Ruggiero, Pietro Juliano; produzione: Eskimo, in collaborazione con Rai Cinema, Minerva Pictures Group, Mad Entertainment; origine: Italia; anno: 2020; durata: 95′.

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