La kryptonite nella borsa (Cotroneo, 2011)

A Napoli “l’esistere è una questione collettiva”, scriveva Walter Benjamin negli anni ’20 del Novecento in Immagini di città. Il filosofo diceva che dalle porte, dagli anditi, dalle soglie di Napoli la vita prorompe. Quando scrive con Asja Lacis nel 1925 Naepel, l’immagine della città emerge con tutta la sua potenza fluida e metamorfica.

A Napoli nulla è per sempre, tutto fluisce a fiotti dalle voragini del reale, e il magma dei segni innesta una porosità fatta di improvvise accensioni, di relazioni inaspettate, di anacronie in cui il sostrato arcaico si proietta in un avvenire continuamente riprogettato, e tutto si apprende nell’istantaneità di un presente continuo e contiguo. È come se le aperture della città fossero altrettanti “buchi di reale”, direbbe Lacan, dove immaginario e simbolico si inanellano in una sorta di gorgo, senza che l’uno si esaurisca nel sogno dilagante, e l’altro nella struttura rigida di regole e leggi, dato che la forza di emergenza delle pulsioni reali che fanno corpo con gli spazi e i tempi della vita inerisce alla materia (e alla forma di vita) che si scioglie e si coagula, precipita e scorre trasformandosi e plasmando corpi antichissimi e nuovissimi (Althenopis e Parthenopis  sono due nomi mitici di Napoli che rimandano allo  sguardo della “vecchiezza” e della “verginità” insieme), coniugando estremo orrore ed estrema bellezza, mostruosità e divinità, morte e rinascita (in un libro come La Pelle di Malaparte e in un film come Viaggio in Italia di Rossellini, tutto ciò risulta evidente).

Alla luce di questo campo intensivo di Napoli può leggersi una sensazione che negli ultimi tempi si è fatta fenomeno diffuso. Oggi in una città come Roma appare sempre più difficile vivere, mentre a Napoli, come in uno specchio, si riflette invece l’opposto: un eccesso, un prorompere di vita, forme di vita, contingenti, immanenti, potenti che generano narrazioni, riemersione di archetipi, risvolti romanzeschi e melodrammatici, musicali e commedici, ogni volta filmabili e teatralizzabili in modi nuovi e imprevisti. In questi tempi il territorio napoletano non è solo percorso da un turismo che riporta la città al centro dell’idea del “viaggiatore” in cerca di un itinerario di “formazione” (come fu per Goethe) capace di imprimere forze allo sguardo, ma è anche cercato come paesaggio in cui far cortocircuitare la forma del reale con gli stili dell’immaginario o gli “status” del simbolico (per due volte i vicoli della città sono stati set di sfilate en plein air di Dolce e Gabbana filmate da Matteo Garrone, e Sky ha scelto Napoli per un festival mediatico “diffuso” sul lungomare, nei vicoli e nel Rione Sanità). Ma soprattutto il set Napoli viene scelto in questo periodo da autori importanti del cinema italiano (Gianni Amelio, Marco Tullio Giordana, Ferzan Ozpetek), tanto, se non più, di quanto lo fosse negli anni ’50 e ’60 (quando insieme a Roma era la città più filmata per le storie d’autore quanto per i generi popolari). La serialità televisiva ha messo al centro con il fenomeno Gomorra una narrazione epica e popolare, non disgiunta però da una consapevolezza drammaturgica “alta” (che ha presente il tragico come Shakespeare), e sono in progetto seriali “alti” che tengono d’occhio il “romanzo teatrale” napoletano (il progetto dal ciclo di Elena Ferrante, il progetto sulla civiltà teatrale di Napoli, da Scarpetta a Viviani a Eduardo).

Roma oggi somiglia sempre più a un luogo da Basso Impero dove si naviga a vista tra frammenti di immaginario, lacerti di riapparizioni fantasmatiche che provengono, senza più connessione tra di loro, dal serbatoio spettrale felliniano oppure dagli spazi vuoti e “limitrofi” di Antonioni o Moretti, per cui l’incontro con la vita è diventato sbiadito ed esausto, coniugando volgarità e dolore, sciatteria e cinismo, irraccontabili se non sul lato liminale di un privato corroso e in agonia (come in Sacro Gra di Rosi). Invece Napoli appare sempre più frequentemente come luogo generatore a fiotti di immagini, storie, forme, atmosfere che si concretano intorno a un numero sempre più largo di film, ma soprattutto intessendosi in un telaio filmico la cui tramatura è stata disegnata nei decenni recenti in modo intenso e suggestivo dal lavoro dei migliori cineasti italiani contemporanei (Martone, Garrone, Sorrentino, Capuano, Gaudino: quattro su cinque napoletani e che hanno eletto ciascuno a suo modo Napoli come territorio ispirativo).

Il telaio di un “nuovo cinema italiano” che si fa a Napoli rientra certo nell’orizzonte vasto e stimolante del cosiddetto “cinema del reale”, che rilancia in modo fertile la lezione neorealista e rosselliniana. E in questa prospettiva autori napoletani come Leonardo Di Costanzo o Pietro Marcello sono esempi notevoli, così come “factory” produttive che lavorano sulla fertilità del reale, quali i “Figli del Bronx” con Gaetano Di Vaio e il suo gruppo o la Scuola di Ponticelli con Antonella di Nocera e il suo gruppo, e una “officina” storica come Teatri Uniti che produce indifferentemente teatro e cinema.

A Venezia 74 la visibilità delle “forme di vita” messe in cinema era debordante: Ammore e Malavita dei fratelli Manetti, musical e action movie che mette insieme ritmi alla John Woo con le memorie di Nino D’Angelo, Alfonso Brescia, Roberto Amoroso (risalendo agli anni dai ‘50 ai ‘70); Gatta Cenerentola di Rak, Cappiello, Guarnieri e Sansone, cartoon postmoderno che unisce le favole barocche di Basile a un “landscape” partenopeo intriso di citazioni (da Ridley Scott a Rosi, da Welles a Bigelow); L’equilibrio di Vincenzo Marra, Nato a Casal di Principe di Bruno Oliviero, Veleno di Diego Olivares, Il cratere di Silvia Luzi e Luca Bellino, Gomorra VR-We Own the Streets di Enrico Rosati, La recita di Guido Lombardi, MalaMénti di Francesco Di Leva, Le visite di Elio Di Pace, tutta una costellazione di film questa che (tra Terra dei Fuochi, territori vesuviani, hinterland napoletano) fa erompere dalla porosità lacerti reali che si irraggiano su una verità dei corpi, una stratificazione di storie vere, una passionalità del sentire o una secca radiografia delle innervature di sentimenti.

Una coloritura stralunata e distorta oppure melodrammatica, che talvolta fa pensare a Matarazzo o riporta alla mente l’idea di cinema come vita, di “soggettiva libera indiretta” che aveva Pasolini. A proposito di Pasolini (che diceva che i napoletani vanno preservati come una sorta di tribù depositaria del segreto delle forme di vita) c’è un episodio che si racconta inerente al set di un suo grande film “napoletano” Il Decameron. Girando per i vicoli medievali di Caserta Vecchia con la macchina a mano, una corsa a perdifiato di Ninetto, a un certo punto il rullo di pellicola finisce. L’operatore gli fa presente che non c’è più pellicola e Pasolini tranquillamente risponde: “Non ti preoccupare, continua a girare”La vita “si gira” da sé, non ci sarà mai pellicola che basti a filmare le forme di vita che emergono dal reale della città porosa e che sono già immagini.

Riferimenti bibliografici
W. Benjamin, Immagini di città, Einaudi, Torino 2007.
C. Malaparte, La pelle, Adelphi, Milano 2010. 

Share