Un variegato manipolo di uomini viene spedito in Montana, allora nel Territorio del Dakota e più o meno all’estremità del mondo conosciuto, per presidiare un non meglio precisato confine. Hanno età, convinzioni e provenienze diverse, ma sono uniti dall’uniforme unionista, da un certo senso del dovere e – almeno alcuni di loro – dal desiderio di arricchirsi. È il 1862: la Guerra civile americana è in corso da un anno, mentre la febbre dell’oro ha appena iniziato a contagiare la zona delle Black Hills.
È in questo singolare cronotopo che si svolge I Dannati, ultimo film di Roberto Minervini, vincitore del premio per la miglior regia nella sezione “Un certain regard” del Festival di Cannes. Un premio per certi versi inaspettato, dato che Minervini esplora qui per la prima volta i territori della finzione deliberata, pur mantenendo quello sguardo che attraversa in forme estremamente coerenti tutti i suoi film, da The Passage (2011) a Che fare quando il mondo è in fiamme (2018).
Per chi conosce il lavoro del regista marchigiano residente negli Stati Uniti può non essere semplice immaginarlo alle prese con un’opera di finzione, per di più in costume; eppure, I Dannati riesce a mantenere i tratti più tipici del suo cinema, seppur elaborati a rovescio, obbligandoci più volte nel corso della proiezione a ricordare a noi stessi che di finzione si tratta, e non di documentario, in termini esattamente speculari all’esperienza di visione dei suoi film precedenti che spesso sembravano nascere da libere invenzioni.
Nelle dichiarazioni rilasciate dopo la presentazione al Festival, Minervini riconosce subito questa specularità, mettendo inoltre in luce i temi che sorreggono il film e tracciano una continuità con quelli che lo hanno preceduto: il racconto delle vite – soprattutto quelle bianche – ai margini della società in senso ampio e che restano escluse dalla narrazione mainstream, come in Low Tide (2012); le fratture dentro il corpo sociale e politico degli Stati Uniti, esplorate soprattutto a partire da Louisiana – The Other Side (2015); la fede religiosa e il bisogno di credere, nonostante le difficoltà nel riuscire a farlo, come in Ferma il tuo cuore in affanno (2013); i rapporti dentro comunità rette da un inaudito – nella patria dell’individualismo – spirito di mutua assistenza, evidente sin dal primo The Passage (2011); il conflitto con l’altro, tangibile eppure invisibile, come in Che fare quando il mondo è in fiamme. Tutti questi aspetti ricorrenti sembrano essere riannodati e ricondotti a un’origine possibile – un anno e un luogo che sono entrambi, contemporaneamente, inizio e fine di un qualcosa – saldandosi con questioni di stretta attualità, quali la guerra, la mascolinità, la nascita del capitalismo.
Ma al di là dei temi che sono ormai entrati stabilmente in un prontuario critico del cinema di Minervini, ci sono almeno altre tre questioni che questo film riprende ed espande dalle opere precedenti, permettendo di apprezzare meglio la densità e l’estensione del lavoro del regista. Lavoro che deve essere inteso anzitutto come esperienza fisica: fare un film è sempre uno spingersi al limite, uscire dalla propria zona di comfort, che vuol dire letteralmente cimentarsi a lungo in ambienti ostili, o comunque radicalmente estranei. E da questo punto di vista, I Dannati ha costituito una vera avventura di confine à la Werner Herzog: girato in zone disabitate, con una troupe minima e un cast “irregolare” che hanno vissuto in un accampamento, facendo esperienza da vicino delle condizioni di vita messe in scena.
La prima di tali questioni è un aggiornamento del metodo Minervini che consiste nel «farsi da parte» (Zonta 2017), stabilendo un rapporto di fiducia – se non proprio di intimità – con i membri delle comunità rappresentate attraverso periodi molto lunghi di pre-produzione che lo rendono poi un testimone invisibile di una quotidianità nella quale è ormai incluso a pieno titolo. Si tratta di qualcosa di analogo all’idea di «documentario conviviale» proposta da Guy Gauthier, che conferisce tra l’altro uno spiccato rilievo alla costruzione di una comunità di lavoro fondata su principi di fiducia reciproca e di negoziazione del processo creativo. Questo consente a Minervini di esplorare la superficie del mondo nelle sue screziature e increspature, percorrendola attraverso uno sguardo tattile – o addirittura “olfattivo”, come lui stesso definisce la sua relazione sul set con i personaggi – che porta lo spettatore a un contatto quasi epidermico con lo spazio della rappresentazione attraverso l’estrema prossimità con i personaggi e un angolo di ripresa piuttosto alto, che schiaccia i soggetti e abbassa la linea dell’orizzonte.
Trasferire queste costanti formali dallo spazio del documentario a quello della finzione è stato probabilmente l’aspetto più complesso da dover gestire; eppure – complici anche attori come Tim Carlson, già interprete di sé stesso in Ferma il tuo cuore in affanno – la dimensione finzionale del film trae buona parte della sua forza proprio dall’adozione delle forme tipiche del cinema del reale. Questa ibridazione formale conduce al cuore della seconda questione: il rapporto con la tradizione, chiaramente ineludibile quando ci si confronta con il Western.
I Dannati gioca questa partita su molteplici piani, a partire dalla sua ambientazione nordoccidentale, decisamente insolita per un film ambientato durante la Guerra di Secessione, ma anche per Minervini stesso, che sinora si era mosso in zone diametralmente opposte quali Texas e Louisiana. Questo ribaltamento è solo l’ultimo di una lunga serie già presente negli altri lavori del regista: ad esempio, l’uso insistito del fuori fuoco che rende quasi inconoscibili i luoghi e i paesaggi, venendo meno a quella dimensione inglobante dell’ambiente che invece sorregge il genere sin dai suoi albori, oppure il ricorso esclusivo alla macchina a mano, che rinuncia programmaticamente all’affermazione di un punto di vista forte sul mondo e sulle vicende narrate.
Si tratta di un ribaltamento duplice, perché oltre al Western c’è la grande tradizione del film di guerra. A essere rifiutata in questo caso è la logica dell’azione – e in particolare dell’azione eroica – che conferisce una chiusura ai percorsi narrativi dei personaggi, definendone anche le motivazioni e il carattere. Qui, la guerra è invece concepita come attesa indefinita (non a caso sono stati proposti parallelismi con Il deserto dei Tartari di Buzzati, o con i lavori di Terrence Malick), vuoto di senso che non si riesce a colmare, nemmeno con la fede, che infatti alla fine del film vacilla. E anche quando la battaglia irrompe improvvisamente, due componenti fondamentali restano escluse: l’eroismo (compresa la sua negazione, cioè il tradimento) e il nemico. Non sapendo contro chi combattere, lontani migliaia di miglia dal cuore del fervore ideologico della East Coast, i personaggi puntano a sopravvivere, magari rannicchiandosi ai piedi di un albero in attesa che cessi lo scambio a fuoco.
Piuttosto che indicare un rifiuto della tradizione dei grandi generi hollywoodiani, questi elementi denunciano la sopravvivenza di uno “stile moderno” che ha innervato il cinema del reale italiano degli ultimi anni e ora ritorna, ripensato e ricodificato, nuovamente nell’alveo della finzione. Emblematico a questo proposito Martin Eden (2019) di Pietro Marcello, dove sono rintracciabili molti degli elementi qui analizzati, soprattutto per quanto riguarda le scelte compositive e di messa in scena.
L’aderenza al mondo sensibile e la sua trasfigurazione in forma aprono infine la strada alla terza questione: il fatto che il cinema contemporaneo stia riscoprendo la sua vocazione materialista, cioè che abbia riconosciuto come proprio oggetto specifico la materia del mondo, in concomitanza con quel material turn che sta contagiando molte direttrici culturali e scientifiche. Nel caso di Minervini, questa attenzione materiale non si concretizza solo nella rappresentazione vivida delle cose o delle persone, per quanto sia un aspetto fondamentale della sua notevole resa visiva; piuttosto, sembra definirsi come un incrocio tra la domanda di senso sollecitata dal trascendentale (la fede come appiglio per fronteggiare l’insensatezza della guerra) e la ricerca del senso nella materia della realtà circostante (la pepita di quarzo che lascerebbe presagire la presenza dell’oro in quei territori ancora inesplorati).
È questo un aspetto ricorrente nell’opera di Minervini, che trova una declinazione singolare in una figura specifica: l’abbraccio. Il cinema del regista marchigiano è in effetti un cinema degli abbracci, che ricorrono in momenti cruciali della narrazione, all’inizio (Ferma il tuo cuore in affanno, Louisiana o Che fare quando il mondo è in fiamme) o alla fine (Low Tide, o ancora Ferma il tuo cuore in affanno). Anche nel caso di I Dannati, inaspettatamente per il contesto rappresentato, un lungo abbraccio è presente esattamente a metà film, quando il gruppo si separa, dividendo per sempre padre e figlio Carlson.
L’abbraccio deve essere inteso come figura concreta della dimensione affettiva, gesto materiale che figurativizza quell’ecologia dei sentimenti – non esclusivamente tra umani, come nel caso di Sara con le capre in Ferma il tuo cuore in affanno – così centrale nella concezione di Minervini della realtà al di qua e al di là dello schermo. Due concezioni convergenti che, risalendo sino alle proprie origini simboliche, esplorano nuove forme di contaminazione estetica e linguistica per raccontare il mondo di fronte a noi – questo mondo dove la condizione bellica è tornata prepotentemente maggioritaria – con sguardo eticamente, politicamente e felicemente libero da ogni convenzione di genere.
Riferimenti bibliografici
G. De Vincenti, Lo stile moderno. Alla radice del contemporaneo: cinema, video, rete, Bulzoni, Roma 2013.
D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Milano-Udine 2018.
G. Gauthier, Storia e pratiche del documentario, Lindau, Torino 2009.
I. Perniola, L’era post-documentaria, Mimesis, Milano-Udine 2014.
D. Zonta, L’invenzione del reale. Conversazioni su un altro cinema, Contrasto, Milano 2017.
I Dannati. Regia: Roberto Minervini; sceneggiatura: Roberto Minervini; fotografia: Carlos Alfonso Corral; montaggio: Marie-Hélène Dozo; musiche: Carlos Alfonso Corral; interpreti: Cuyler Ballenger, René W. Solomon, Bill Gehring, Jeremiah Knupp, Timothy Carlson, Noah Carlson, Judah Carlson; produzione: Okta Film, Pulpa Film, Rai Cinema, Michigan Films; distribuzione: Lucky Red; origine: Italia, Belgio; durata: 89’; anno: 2024.