«Vengo da un ambiente rude, volgare, duro. Non avevo un orizzonte davanti a me: direi piuttosto un confine». È Jack London a parlare. Parla di se stesso e di un’America senza orizzonte. Cioè senza frontiera, o meglio dove la frontiera diventa interna – perlomeno in Martin Eden – all’articolazione sociale in classi. E dove sarà la prospettiva temporale a sostituire quella spaziale.
È il futuro e non l’altrove a definire le magnifiche sorti e progressive. Alla fine del medesimo testo, Cos’è la vita per me, è lo stesso London a dirlo: «Continuo a credere nella nobiltà e nell’eccellenza dell’uomo. Credo che la dolcezza spirituale e la generosità sconfiggeranno la volgare ingordigia dei nostri giorni. Infine, ho fede nella classe lavoratrice».
È la prospettiva utopica e di visione idealizzante del futuro a determinarsi come la condizione stessa dello scacco. La wilderness da conquistare o nella quale rinnovarsi o perdersi (presente in altre opere di London, a partire da The Call of the Wild) diventa in Martin Eden quella da esorcizzare, trascendere, sublimare. Come emerge nell’amore idealizzato di Martin, intercessore esplicito dello stesso London, per la bella ragazza altoborghese: «She was a being apart […] His lover’s imagination had made her holy, too holy, too spiritualized […]. Love itself denied him the one thing that he desired».
L’idealizzazione della donna accompagna quella della scrittura e della civiltà. Per cui anche il mare che nella grande letteratura americana (a partire da Moby Dick) è stato sempre immagine ed elemento di libertà, di fuga, e di sguardo altro sulle faccende di terra, per il marinaio Martin Eden diventa oggetto di mera invenzione narrativa per trovare riconoscimento e successo sociale. Il desiderio di Martin dunque è tornare a terra (San Francisco), scrivere dell’esperienza fatta, inviare i testi ai giornali, essere pagato per questo, avere successo e riconoscimento sociale, e dunque essere amato da Ruth (Elena nel film): «Clearly, and for the first time, he saw Ruth and her world […]. He saw it as a whole and not in detail, and he saw also the way to master it. To write!».
È l’Ovest dell’ascesa sociale, del dominio del mondo, della scrittura. È l’Ovest idealizzato da conquistare sur place, orientando la sovranità della volontà individuale verso il successo a tutti i costi. Volontà di affermazione, guidata da una severa disciplina (lavoro, studio, scrittura) e dall’obiettivo da raggiungere. Controllo della propria vita, del mondo e dei sentimenti altrui, attraverso il “diventare scrittore”.
Qui in gioco c’è dunque l’azione e la forza di volontà come suo motore. La dicotomia che ne segue è tutto sommato prevedibile: agire per entrare nel mondo o agire per cambiarlo. Nel primo caso l’azione è individuale, nel secondo potrà essere solo collettiva. La divisione è schematica: individualismo o socialismo. Per questo i tratti del personaggio si fanno quasi mitici, ed incarnano, sintetizzandoli efficacemente, i destini privati e pubblici di un intero secolo.
È qui che interviene l’idea, per molti versi geniale, di Pietro Marcello, e del co-sceneggiatore Braucci, di trasformare un (letterale) romanzo di formazione in una via d’ingresso per leggere i destini privati e pubblici di un intero secolo, il Novecento, e ben al di là dell’America e di San Francisco. Il film è infatti ambientato a Napoli, città-mondo, «città porosa» (Benjamin), città portuale capace di vivere la contaminazione tra le classi ma anche la loro rigida distinzione. Stili di vita, linguaggi, pratiche, si intrecciano, si sovrappongono, e il modello edificante della emendazione della rudeness e della fascinazione della casta, che segnava il percorso dell’Eden di London, si trasforma nel film nella destrutturazione di quel modello di formazione e di “soggettività”. Ma il film non opera una de-formazione regressiva, piuttosto sconfessa l’idea stessa del formare una identità.
La porosità spaziale diventa anche coesistenza temporale. I tempi e le fasi di un intero secolo si sovrappongono. Gesta, pratiche di vita di anonimi o meno, si intrecciano, facendo delle immagini di archivio non tanto un controcanto della finzione, quanto ciò che svela di quella finzione il carattere di “sintesi mitica”.
Con un ribaltamento di grande originalità, non sono qui le immagini di archivio a dare senso alla storia identificata dal nome proprio Martin Eden (che già etimologicamente porta con sé il segno di una battaglia per l’idealità di un territorio edenico), ma è la finzione narrativa che, destrutturata del suo portato mitico, dà senso e verità alle immagini d’archivio.
Dietro l’assimilazione immaginaria di condizioni ideali, ci sono le pratiche reali, che hanno determinato la formazione di soggetti: scioperi, rivolte, guerre, migrazioni, lotte di classe, parole, formazione e scrittura, che segnano le vite ordinarie di uomini qualsiasi e non (tra gli altri vediamo Errico Malatesta, Majakovskij, Nora May French).
Dietro le finzioni e le ideologie che hanno alimentato il mito di un “uomo nuovo” (individuo o collettività, capitalismo o socialismo), dietro il vitalismo che porta i contrassegni anche di una pulsione distruttiva, ci sono le pratiche e i discorsi che hanno attraversato un intero secolo, facendo del soggetto allo stesso tempo il prodotto di un dispositivo e il terreno di uno scontro (trasformando quest’ultimo spesso nel dispositivo stesso).
Sono quelle pratiche, quei volti, quei corpi ad animare le immagini d’archivio che, concatenandosi in un montaggio originale con quelle di finzione, ne smascherano il portato illusorio. Il film costruisce in forma creativa un’archeologia del soggetto novecentesco. E lo fa rivelando, dietro il portato mitico della storia raccontata (icasticamente sintetizzato anche solo dalla contrapposizione tra la bionda nobile Elena e la bruna popolana Margherita), le aporie di una onnipotente volontà, sequestrata dall’obiettivo di ascendere ad una condizione socialmente ideale, che porta il soggetto in un cul de sac.
La destrutturazione del mythos della civilizzazione della wilderness avviene nel film attraverso una scrittura che contraddice quella di cui si fa interprete lo stesso Martin Eden (che non è certo un intercessore di Marcello, come lo è invece di London).
Non si tratta di scrivere della propria esperienza, optando per finali drammatici (come per la storia stessa di Martin Eden) o – come gli suggerisce la sorella – comici, con un happy end che possa piacere.
Non si tratta di orientare la scrittura verso un finale (quale esso sia), ma verso un’origine. Questa origine non è un’arché, ma è una origine diffusa, un punto di insorgenza in perenne movimento, che nel film attraversa in forma anacronica un intero secolo e lo spazio poroso di una città-mondo.
In definitiva, il punto di insorgenza non sta nelle immagini ma tra le immagini, tra le immagini d’archivio e quelle di finzione. Il metodo del film è nella relazione analogica tra le immagini, che ne definisce anche l’esemplarità, mettendo radicalmente in questione la forma d’azione (duale) che sorregge la storia e il romanzo di Jack London.
La verità del Novecento è, per dirla con Badiou, nel Due del conflitto: «Nel XX secolo, la legge condivisa del mondo non è né l’Uno, né il Multiplo, è il Due […]. La guerra è la visibilità risolutiva del Due contro l’equilibrio combinatorio. È a questo titolo che la guerra è onnipresente».
Se il due è il numero che identifica la forma-azione nella sua dimensione conflittuale (guerra tra le classi, i sessi, i discorsi, le pratiche che il romanzo racconta), sottrarsi a questo gioco significa sottrarre le immagini al loro concatenamento orizzontale e aprire tra esse una relazione analogica che, unica, è capace di determinare una intelligibilità, trasformando ciò che ci viene mostrato in un caso, in un esempio: come quando vediamo Martin Eden invitato a tornare a scuola da Elena, accostato alle immagini di una lezione in un’aula di un’Italia povera, contadina, e dalla scolarizzazione precaria.
Il raccordo analogico tra immagini, la loro differenza di potenziale (tra archivio e finzione), come anche quella tra la musica e le immagini, costruiscono un principio di intelligibilità in ciò che vediamo, che supera il potenziale drammatico, in fondo prevedibile, della storia raccontata. Il film rende così la storia un caso, tra tanti. Come anche il personaggio di Martin Eden, uno tra tanti: ma questo senza fargli perdere di determinatezza e concretezza.
Ma c’è una immagine del due che ritorna nel film, che si sottrae al conflitto e alla guerra, e che resta impressa per il suo ritornare. Due bambini ballano. Il loro accordo è precario, maldestro, ma vitale. Non si lasciano. Una mano tiene ferma l’altra, rende possibile le piroette della danza. I piedi si muovono sia pur in scarpe improbabili a ritmo della musica. Ballano, si divertono, giocano: è lì che un equilibrio combinatorio si determina. È intorno a quel due che il mondo è capace di iniziare nuovamente. Qui l’intellegibilità dell’analogia è sospesa a vantaggio di una ripetizione poetica. Qui la presenza al mondo non ha bisogno di analogie per essere compresa, riposa immediatamente in quel ballo infantile.
Dopo un grande film sull’Italia come Bella e perduta (2015), Pietro Marcello si misura con un classico della letteratura americana (confermando un interesse che arriva al nostro neorealismo, letterario e cinematografico, con Pavese, Vittorini, Americana, e anche il James Cain di Ossessione), e lo usa disarticolandone la sua possibile prossimità, nella duplice direzione dell’analogia e dell’esempio e in quella della ripetizione poetica.
La sfida ad ogni logica dicotomica e duale, ad ogni immagine-azione è radicale, perché è sfida al nucleo stesso del Martin Eden di London.
È per questa trasformazione analogica di una grande finzione narrativa che il Martin Eden di Marcello si impone come uno dei grandi film che sono stati in grado di operare una lettura originale di tutto il Novecento, delle forze che lo hanno attraversato, dei sentimenti che lo hanno segnato, delle pratiche che lo hanno composto.
Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Le siècle, Seuil, Paris 2005.
J. London, Martin Eden, Penguin Classic, London 1994.
J. London, Cos’è la vita per me, in Id., Rivoluzione, Mattioli 1885, Parma 2016.
*Le immagini presenti nell’articolo provengono dal sito della 01 Distribution.