“Perché mi guardi?”
“Così”
“Guarda da un’altra parte!”

Dopo aver giocato tra i copertoni ammassati e vagheggiato fughe saltando su un treno merci di passaggio, Ronaldo e il fratellastro Titus si incamminano verso casa, dove devono rientrare prima che le luci dei lampioni si accendano, ordine tassativo della madre, strategia di autodifesa in un quartiere dove le morti per arma da fuoco scandiscono le cronache del quotidiano. I due ragazzi, 14 e 9 anni, sono ripresi frontalmente in campo medio, mentre la macchina da presa retrocede anticipando i loro passi. Uno scambio di battute completamente inserito nel contesto della scena, ma che inevitabilmente chiama in causa il dispositivo che la incornicia e la rende visibile, elidendo la barriera insormontabile tra filmico e profilmico.

La cifra costitutiva del cinema di Roberto Minervini risiede proprio in questa ingiunzione mai rispettata: l’essere presente, addirittura prossimo, eppure incredibilmente invisibile; un testimone ostinato, ma per nulla indiscreto. Un testimone che non volta mai la testa, nemmeno dietro ordine perentorio, ma bracca il reale lì dove ne avverte l’imminente insorgenza (anche in controtempo, ecco dunque l’importanza del fuori campo nei suoi lavori), senza curarsi eccessivamente della realtà delle cose, quanto piuttosto della verità dell’immagine. Che fare quando il mondo è in fiamme, opera ultima presentata a Venezia lo scorso settembre del regista marchigiano trapiantato negli Stati Uniti, porta la sua idea di cinema del reale a compiere un passo ulteriore rispetto ai film precedenti, allargando lo sguardo su una coralità plurale (quattro infatti le linee narrative che si intrecciano senza sovrapporsi) e introducendo un elemento politico che chiama in causa l’attualità in modo diretto.

Minervini ha impiegato quasi tre anni a realizzarlo, un tempo lungo ma necessario per conquistare la fiducia dei suoi protagonisti, per essere ammesso all’interno di una comunità i cui membri sono esposti al pericolo incombente di una pallottola o di un manganello. Al centro si staglia la figura di Judy Hill, barista del quartiere Tremé di New Orleans costretta a chiudere il locale che gestisce a causa dei processi di gentrificazione sempre più invasivi; ci sono poi Ronaldo e Titus, ai quali la madre instilla la paura come necessaria strategia di sopravvivenza, e che Ronaldo, il maggiore, si incarica di trasmettere per suo conto al fratello minore; c’è Big Chief, intento a preservare le tradizioni degli avi – sia afro-americani che nativi – per celebrare la processione del Mardì Gras per le strade della Big Easy; e ci sono infine le New Black Panther, movimento “armato e non-violento” che rivendica un nazionalismo nero, offrendo assistenza ai diseredati di Louisiana e Mississippi. Su tutti loro, a cerchi concentrici, gravano le memorie del recente omicidio di Alton Sterling a Baton Rouge, dei conflitti a fuoco, della droga e degli abusi domestici, della violenza istituzionale e della segregazione razziale, lungo una spirale di sopraffazione che affonda le radici nell’atto di nascita stessa degli Stati Uniti d’America.

Dopo la “Trilogia del Texas”, questo film si configura come secondo atto di un percorso di sconfinamento nei territori attigui a Est, nella Louisiana che degli Stati Uniti è uno degli insediamenti più antichi e affascinanti, crogiolo di etnie e culture entrate in contatto a partire dal XVI secolo e i cui strati sovrapposti sono ancora lì, in bella vista, a testimoniare la ricchezza dei processi di creolizzazione. Che però, quasi paradossalmente, è proprio quanto rimane escluso da Che fare quando il mondo è in fiamme e dal precedente Louisiana – The Other Side, focalizzati solo su uno dei colori del variopinto spettro etnico a ridosso del Golfo del Messico. Nel film del 2015 erano i white supremacist a essere il centro del racconto, l’orgoglio degli emarginati bianchi in lotta al tempo contro Barack Obama, le limitazioni alle armi e una maggiore equità sociale. Lì l’America nera era dunque invisibile, ma ben presente in tutti i gesti e i discorsi dei protagonisti, che sognavano di dare alle fiamme i valori “liberal” come avviene nell’ultima scena, con la carcassa di un’auto sulla cui fiancata troneggia la scritta “Obama Sucks Ass” e al suo interno una maschera dell’allora presidente. Qui è invece l’altra parte a occupare il centro della scena, il “Black Power!” gridato dai neri, con i bianchi che incarnano sulla cornice l’ordine e il potere, la sopraffazione violenta che si pone al di sopra delle regole.

Un dittico che non nasce da premeditazione, ma che in qualche modo sembra essersi imposto in fase di lavorazione, tanto che il primo episodio è già “the other side”: tutte queste storie sono dal principio un altro lato, un’altra faccia dell’auto-narrazione accomodante della più grande democrazia del mondo. Ma in questa doppia focale non c’è alcun equilibrismo, nessun tentativo di mediazione tra due parti così antitetiche. Compito del regista è prendere posizione, suggerisce Minervini: il potere bianco impresso a fuoco nella lamiera di una vecchia macchina è lo stesso delle manette che spezzano i polsi dei manifestanti disarmati o della ghettizzazione che ha causato centinaia di morti nel 2005 in seguito al passaggio dell’uragano Katrina e che ora rosicchia anche gli spazi di quei ghetti attraverso la gentrification; il potere nero è invece il grido di chi è costitutivamente in minoranza, di chi è sempre sull’orlo della spossessione del sé, di chi è costretto a negoziare continuamente la propria legittimità di soggetto. E allora potere bianco e potere nero non sono l’uno l’altra faccia dell’altro, ma sono due aspirazioni inconciliabili che obbediscono l’uno a logiche immunitarie, l’altro a logiche comunitarie, come le Black Panther che portano viveri ai senza tetto senza distinzioni di pelle.

Il bianco e nero contrastato scelto per rappresentare questo mondo spinto ai margini della società contemporanea ha certamente un valore simbolico che trascende nel politico. Ma è la sua dimensione estetica ad aprire scenari più interessanti: non solo – come afferma lo stesso regista – in virtù della riattivazione di uno schema iconografico che rimanda alle immagini delle lotte per i diritti civili degli anni ’60, ma soprattutto nella volontà da parte dei soggetti neri di confrontarsi dialetticamente con l’attributo cromatico del potere, il bianco appunto, del quale si cingono o del quale si disfano. Sono le scene della processione di carnevale a costituire la cornice che racchiude le vicende narrate, scene di straordinaria intensità figurale, nelle quali si esplicita il legame tra passato e presente e la riattivazione di una memoria mitica e rituale. Piume, perline, stoffe: i dettagli enfatizzati dai primi piani isolano la materia cromatica dallo sfondo buio e indecifrabile, il bianco e il nero saturano l’inquadratura e creano un gioco dialettico che preclude a ogni possibilità di sintesi.

Bianco e nero sono così due opzioni politiche che scaturiscono dallo stato delle cose e si confrontano sulla superficie del visibile, e che nulla hanno a che vedere con ogni supposta nobilitazione dei sommersi mai veramente salvi di Tremé. Quelle maschere bianche non coprono più la pelle nera, ma è quest’ultima al contrario che le cattura e le risemantizza, trasformandole in paramenti festivi per meglio esorcizzarle. Le due facce della Louisiana non si incontrano – non possono farlo – e acquistano senso, rispettivamente, solo nel fuori campo l’una di quell’altra, sotto forme diverse: la paranoia e la sopraffazione (il nero visto dal bianco), la paura e la soggezione (il bianco percepito dal nero). In quella faglia che separa con taglio netto la bicromia sociale, lo sguardo di Minervini si costruisce per accumulo di dati, portando le storia a prendere corpo dopo una lunga gestazione che sullo schermo sboccia in lampi di verità attraverso i personaggi. E riuscire a credere a quelle immagini, come per tutto il cinema moderno, diventa la preoccupazione estetica decisiva, anche e soprattutto quando ci porta lontano dai territori sicuri del realismo, nella vertigine del reale.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, F. Guattari, Millepiani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2011.
M. Dinoi, Lo sguardo e l’evento. I media, la memoria, il cinema, Le Lettere, Firenze 2008.
D. Dottorini, La passione del reale: il documentario o la creazione del mondo, Mimesis, Milano 2018.
R. Esposito, Termini della politica – Vol. 1, Mimesis, Milano 2018.
F. Fanon, Pelle nera, maschere bianche, a cura di S. Chiletti, ETS, Pisa 2015.

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