C’è un filone della cinematografia iraniana che potrebbe essere definito cinema dell’esilio. Questa linea attraversa in modo trasversale l’opera di autori diversi. Abbas Kiarostami, il maestro indiscusso del nuovo cinema iraniano, ha girato pochi film all’estero, forse neanche i più belli, e solo negli ultimi anni di attività; tutto il suo cinema è però costruito attorno a uno sguardo in cerca di un distanziamento dalla pressante attualità del mondo che lo circonda. Asghar Farhadi ha girato un film in Francia e uno in Spagna: in entrambi emergono motivi narrativi e una rappresentazione dei sentimenti umani che non potrebbero essere messi in scena in maniera così esplicita secondo i rigidi codici della censura iraniana. Jafar Panahi, a cominciare da Taxi Teheran (2015), da quando cioè i tribunali della Repubblica islamica lo hanno condannato a non poter più girare film, ha fatto della destituzione di senso del divieto il motore della sua ricerca creativa, fino al recente capolavoro Gli orsi non esistono (2022), letteralmente costruito sulla soglia tra dissidenza ed esilio. Se prendiamo Kiarostami e Panahi, che di Kiarostami è stato assistente, come punto di partenza e punto di svolta del nuovo cinema iraniano, possiamo dire che il primo pratica la possibilità dello sguardo attraverso un esilio interiore, mentre il secondo porta avanti con le immagini un’azione di resistenza sotto forma di esilio interno.

Ali Abbasi rappresenta una terza generazione rispetti ai registi citati. Il suo esilio, reale, è iniziato presto, da studente, prima che Abbasi diventasse un autore cinematografico. Il suo primo successo internazionale, Border (2018), è stato girato in Svezia. Abbasi stesso vive a Copenhagen e ha preso la cittadinanza danese. L’ultima fatica del regista, Holy Spider, condivide con l’opera precedente il fatto di trasmettere una sensazione di emancipazione dello sguardo, libero di volgersi verso gli aspetti più scabrosi della vita, interdetti dalla censura in Iran. Con la significativa differenza, però, che Holy Spider racconta una storia iraniana, anche se ricostruita in Giordania.

Said è un muratore di mezz’età che vive a Mashhad, la città santa sede del più importante santuario dell’Iran presso il sepolcro dell’Imam Reza, discendente del Profeta e ottava guida dell’Islam dopo il Profeta secondo il credo sciita, maggioritario in Iran. Said è un uomo devoto e un padre di famiglia, che decide di intraprendere un’opera di pulizia morale della città santa in cui vive: uccidere tutte le donne che si prostituiscono nei pressi del santuario. Si aggira di notte in motocicletta, fingendosi un cliente, adesca la vittima, la conduce a casa sua quando la famiglia è dai parenti, o in uno degli appartamenti dove lavora, e lì la strangola selvaggiamente con il foulard che le copre i capelli; poi abbandona il corpo in un campo e avverte un cronista del quotidiano locale per farlo ritrovare. Dalla capitale Teheran arriva Rahimi, una giovane e intraprendente giornalista dalla vita privata chiacchierata, esplicitamente ostile alla teocrazia iraniana. La donna vuole indagare sugli omicidi del serial killer, noto come “il Ragno”: deciderà di fingersi prostituta per scoprire l’assassino e incastrarlo.

Abbasi elimina qualsiasi elemento di suspense e di immaginazione da questo insolito thriller: lo spettatore conosce fin dall’inizio l’identità dell’assassino e le sue motivazioni; nessun dettaglio morboso o violento gli viene risparmiato. Piuttosto si è portati a mettere a confronto la figura di questo aberrante vendicatore della morale religiosa con i serial killer a cui ci ha abituato la cronaca e di cui è nutrito l’immaginario hollywoodiano.

L’azione di quale serial killer non tradisce un’ambigua sovrapposizione tra il desiderio di uccidere la vittima e un’inconfessata pulsione erotica? Il personaggio di Said non fa eccezione: perfino quest’uomo pio si concede di sfiorare voluttuosamente il corpo delle sue vittime, salvo chiedere subito perdono a Dio. E quante menti omicide, tanto in Oriente quanto in Occidente, non sono germogliate da un’educazione ossessivamente puritana, o hanno scelto una simile formazione come il mascheramento migliore per dare sfogo agli impulsi più perversi? Cambia il punto dove cade l’accento del racconto: agli occhi di un pubblico, anzi di un’opinione pubblica, occidentale la rivendicazione di un movente religioso da parte di un serial killer sarebbe stigmatizzata come il delirio di un pazzo, mentre nell’Iran di Abbasi il suo gesto è forse condannabile, ma le motivazioni sono condivise da un’ampia fetta della popolazione.

Vale la pena ricordare che la vicenda raccontata nel film si basa su fatti realmente accaduti. Lo spostamento di accenti non riguarda la mente dell’assassino, in ogni caso delirante, ma lo sguardo sociale: è il delirio collettivo l’autentico tema di Holy Spider. Il vero ragno non è il serial killer, ma la società iraniana, rappresentata simbolicamente dalla panoramica sulla città di Mashhad, città santa e metropoli del vizio, le cui luci notturne sono tentacoli mortali.

Il senso del film sta tutto nella sua fine. Un thriller senza suspense non mette in scena la ricerca di un assassino già noto allo spettatore. Il mistero da svelare non è l’identità del colpevole, ma cosa farà di lui, e del sostegno popolare che ha, il potere. Se la polizia ha avuto poco o nessun interesse a trovare il serial killer, il mellifluo dignitario religioso che lo giudica agisce in modo da compiacere allo stesso tempo la giornalista laica e anticonformista che lo ha catturato, condannando Said a morte, e il popolo tradizionalista, dandogli un martire della fede.

Il processo, insieme farsa e castigo esemplare, apre l’abisso che permette alla protagonista, interpretata dalla bravissima attrice Zar Amir Ebrahimi, di ridiscendere fino alla radice profonda, psicologica, della violenza sessista che ha mosso l’assassino. Sul pullman che la riporta a Teheran dopo il processo, la donna rivede sulla sua videocamera l’intervista che ha fatto ai familiari del serial killer dopo l’esecuzione della condanna a morte. Il figlio maschio inventa i racconti che il padre gli avrebbe fatto sulle sue imprese moralizzatrici: lo rappresenta come un supereroe, fino a inventare dettagli sugli omicidi. Al culmine di questo racconto infantile e macabro il ragazzo mette in scena uno degli omicidi commessi dal padre nel salotto di casa, coinvolgendo la sorellina che finisce coperta dal tappeto mentre mormora: sono morta. Abbasi non voleva raccontare le inquietanti imprese di un assassino: voleva mostrare dove prende corpo il suo istinto omicida.

Holy Spider. Regia: Ali Abbasi; sceneggiatura: Ali Abbasi, Afshin Kamran Bahrami; fotografia: Nadim Carlsen; montaggio: Hayedeh Safiyari, Olivia Neergaard-Holm; interpreti: Mehdi Bajestani, Zahra Amir Ebrahimi, Arash Ashtiani, Forouzan Jamshidnejad; produzione: Profile Pictures, One Two Films, Nordisk Film, Wild Bunch, Film i Väst, Why Not Productions, ZDF, Arte France Cinéma; distribuzione: Academy Two; origine: Danimarca, Germania, Svezia, Francia; durata: 117′; anno: 2022.

Tags     cinema iraniano, esilio
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