Farhadi sembra confrontarsi con un problema che è stato al centro della riflessione di molti scrittori e intellettuali iraniani del XX secolo: il confronto con l’Occidente. Questo confronto costituisce senza dubbio la cifra della storia dell’Iran moderno. Sia che lo si intendesse nel senso positivo di una modernizzazione, come fecero gli scià della dinastia Pahlavi, sia che lo si intendesse nel senso negativo di quella “occidentossicazione” (gharbzadegi) denunciata dall’intellettuale islamico Jalal Al-e Ahmad, il confronto con il mondo occidentale, con i suoi valori e modelli di vita e con la sua cultura, non ha smesso di tormentare le coscienze più avvertite tra gli iraniani. Tuttora, il regime al potere in Iran, pur connotandosi come uno strano misto di teocrazia controllata dal clero e democrazia rappresentativa, non smette di riproporre tale dilemma nelle più svariate contraddizioni. Se i religiosi al potere riaffermano la validità di legge per la sharia, la legge coranica, buona parte della popolazione, specie i giovani e le donne, non smettono di rivendicare i loro diritti e coltivano uno stile di vita occidentalizzato, nei limiti ristrettissimi consentiti dalle autorità o in privato, illegalmente.
Questa contraddizione si riflette anche nel campo dell’espressione artistica, specie in letteratura. È dall’inizio del XX secolo che gli scrittori e gli intellettuali iraniani non smettono di confrontarsi con i modelli letterari e filosofici provenienti dall’Occidente: si guardi oggi al ripensamento di concetti come liberalismo, democrazia e laicità in un pensatore come Ramin Jahanbegloo o, all’inizio del Novecento, al progressivo abbandono delle forme letterarie tradizionali a favore del verso libero in poesia o della nuova forma narrativa del romanzo. Vale la pena citare i due nomi più importanti: quello della poetessa Forough Farrokhzad, autrice anche di un film documentario, e dello scrittore Sadegh Hedayat. Quando volevano criticare la politica, la società o la cultura del loro paese, gli intellettuali iraniani dei primi del XX secolo adottavano volentieri, rovesciandola, la strategia che aveva inventato Montesquieu nelle Lettere persiane per criticare la Francia dell’ancien régime: fingere un punto di vista esterno – uno straniero in visita nel proprio paese o un compatriota che racconta ciò che ha visto in una nazione straniera – per stigmatizzare i mali dell’Iran.
Fino a oggi, anche quando sceglievano la strada della critica sociale o politica, come nel caso esemplare di Jafar Panahi, i registi iraniani si sono tenuti alla larga dall’evocare il confronto con l’Occidente, troppo scottante in un regime fondato sulla retorica fondamentalista, conservatrice e anti-americana. Farhadi, il quale è ormai al secondo film girato all’estero, sembra voler tornare a percorrere questa strada: il richiamo ad About Elly è troppo forte, infatti, perché non si inneschi un paragone tra come il motivo narrativo della sparizione è trattato in un’ambientazione iraniana e in una europea.
Nel film del 2009 Elly è una ragazza che si aggrega a un gruppo di giovani coppie della borghesia laica e colta di Teheran per un fine settimana sul Mar Caspio; la sua improvvisa sparizione, non spiegata fino alla fine del film, fa emergere tutte le contraddizioni tra i personaggi nella società repressiva e maschilista che li circonda. Nel film del 2018 la sparizione della figlia adolescente di Laura (Penelope Cruz) e Alejandro (Ruben Darín) durante la festa di matrimonio della sorella di lei fa sì emergere drammi familiari e segreti meno nascosti di quanto i personaggi credessero; di qui il titolo del film. Il finale porta però a un chiarimento di tutti i misteri. Tutti credono che in Argentina, dove Laura ha seguito il marito, la coppia sia ricca; in realtà la società di Alejandro è fallita e lui è senza lavoro da due anni. La coppia nasconde da sempre la verità sulla nascita della ragazza, che è figlia di Paco (Javier Bardem), l’uomo che Laura ha lasciato sposandosi e che oggi è il padrone della vigna, un tempo possedimento del padre di Laurea, sperperatore del patrimonio familiare.
Farhadi ripete qui il meccanismo tipico di molti suoi film; oltre ad About Elly basti pensare a Il cliente (2016): un dramma familiare travestito secondo la logica del giallo. Ciò che colpisce in Tutti lo sanno, se lo si paragona ai film iraniani dello stesso regista, è che, a differenza di quei film, l’esposizione dei segreti, delle invidie, dei desideri insoddisfatti dei personaggi non è più affidata al mantenimento fino alla fine dell’enigma, ma al suo scioglimento. Solo scoprendo che Paco è veramente il padre della ragazza – l’uomo è felice della scoperta al punto di vendere le terre per pagare il riscatto e perdere così sua moglie –, o che la nipote di Laura aspirava ai soldi della sorella o di Paco, insomma a una ricchezza che le era stata negata, possiamo gustare appieno l’indagine psicologica messa in atto dal regista. Questo momento di “agnizione” nei film precedenti si reggeva invece proprio sul fatto di mantenere l’enigma; anche quando, come ne Il cliente, l’enigma poliziesco veniva risolto e si scopriva il colpevole, qualcosa sui destini dei personaggi rimaneva in sospeso e in quella sospensione lo spettatore era chiamato a elaborare il suo punto di vista.
Non è in questione il chiedersi se sia meglio il vecchio o il nuovo Farhadi, o se a un film “occidentale” un regista iraniano si sia sentito in obbligo di dare un finale che gli poteva parere più in linea con il gusto del pubblico o con l’industria cinematografica occidentali. Ci interessa piuttosto, senza con ciò avere la pretesa di poter dare una risposta, di sottolineare come Farhadi sembra avere di sé una forte percezione come autore, in un senso quasi letterario del termine: autore non è solo chi porta avanti o sviluppa una certa estetica o un certo stile; nel caso di Farhadi questa originale commistione di dramma familiare e giallo. Autore è anche chi torna su una certa “storia ideale”, sempre ripensandola, rifacendola e rimaneggiandola: nel caso di Farhadi questa storia ideale è senza dubbio quella della sparizione. Ma un autore siffatto vive necessariamente dello scambio che ha con il mondo che lo circonda e lo sollecita, come accadeva ai grandi romanzieri del XIX secolo. Resta perciò significativo, ma è un enigma che lascio aperto, il fatto che la sparizione in Iran significhi l’apertura verso un’ambiguità irrisolvibile, mentre in Europa dia luogo al racconto realistico della decadenza di una borghesia di possidenti, divenuti già classe media e che sembrano incamminarsi verso una nuova trasformazione.
Riferimenti bibliografici
E. Abrahamian, Storia dell’Iran: dai primi del Novecento a oggi, Feltrinelli, Milano 2013.
F. Sabahi, Storia dell’Iran, Bruno Mondadori, Milano 2006.