La società dello spettacolo (Debord, 1973).

Perché il cinema «è un’invenzione senza futuro»? Forse perché i fratelli Lumière, memori dei tempi paralleli e incrociati di Back to the future e Interstellar, preparavano già allora un repertorio del presente, un’archeologia dell’immediato pronta per Schegge, Blob, Fuori Orario e 20 anni prima. Facevano cioè televisione. Come Vertov, Rossellini, Herzog e le Majors hollywoodiane. «La natura del desiderio televisivo è il dammene troppa sublime del bambino che chiedeva marmellata alla mamma, immortalato da Chamfort» (Ghezzi 2021). Questa frase di Ghezzi è l’idea-forza dell’intero volumone di scritti attorno alla televisione, cioè a tutto. Ripescata-rielaborata dall’aforista di fine ‘700 Sébastien-Roch Nicolas, rivoluzionario, spirito inguaribilmente satirico-sarcastico e vittima del Terrore borghese. È un modo scaltro per aggirare la contraddizione tra l’anatema di Adorno e della scuola di Francoforte contro il cinema e la magnifica ossessione di Ghezzi per il cinema. Adorno, a differenza di Benjamin non capiva neppure Mickey Mouse.

Se la tv non offre programmi al pubblico ma pubblico alla pubblicità e agli sponsor, senza pagarlo per il tempo rubato, e dunque gli fa male, i detournement minori e ingannevoli congegnati da Ghezzi e dalla sua frazione sono (stati) tentativi di far male alla televisione, possibilmente senza lasciare troppe tracce visibili (però a pag. 71 Nanni Moretti si scandalizza per un girato-verità Rai mai montato e fino allora mai mostrato perché insostenibile, sulla strage di Bologna). Spielberg e Lucas sono stati i maestri di Ghezzi in questo doppio gioco dell’immaginario, dimostrando che non sono i fumetti a far male ai bambini, ma i bambini (come loro) a far male ai fumetti. I loro fuochi d’artificio al cinema (da Guerre stellari a I Predatori) sono analoghi della tv generalista che è un grande evento in sé, «la Cappella Sistina di questo secolo», perché «rendere tutto uguale è la principale spiazzante virtù democratica della televisione». Oppure: «Amerò Lolita colorizzato come ho amato 2001 in Super 8». 

Come ben sottolineano Elisabetta Sgarbi nell’introduzione, e Aldo Grasso recensendo per il Corsera a tutta pagina con amichevole complicità, e la figlia Aura − una Indiana Jones tra gli scatoloni di casa che conservavano gli originali di quei pezzi, sempre ardui da editare − uno dei centri magnetici del prezioso volume eretico di Enrico Ghezzi è dunque proprio in questa frase eccitante, «il volere troppo e subito», scritta verso pagina 40, e ripresa altre volte. Che ci porta al di là della dicotomia tra “apocalittici e integrati” quando si parla di un mezzo di comunicazione di massa come la televisione: «Medium al quadrato, al cubo, all’infinito, modello cosmologico che moltiplica il mappamondo dando insieme l’idea dei mondi possibili e paralleli». Elettrodomestico che è come il telefono, una confusa enciclopedia e mitologia universale, come l’aria, come il dispiegarsi di tutti gli sport, di tutti i gesti».

Acefalo, senza linguaggio, come la pubblicità, semioticamente misterioso. Non pericoloso, non diabolico. E ingestibile da chiunque. Fa circolare il desiderio e perfino quel sentimento comico (Lacan) che è l’amore. Nei Commentari alla società dello spettacolo (1984) di Guy Debord − che «girava film senza immagini, di pura vibrazione-tempo», scrive «con frasi secentesche raramente enfatiche», che lo spettacolo sta diventando «la prosecuzione della guerra con altri mezzi», ma senza più attribuire speciale responsabilità alla televisione. E cita Sun Tzu (IV-V secolo a.C.) che suggerisce la nostra sfida futura: «È nelle occasioni in cui tutto è da paventare che niente è da paventare». Neppure a Viale Mazzini, perché − di tempo in tempo si fanno incanti − si aprì un varco, una luce tra Guglielmi e Balassone. E Ghezzi attaccò la profondità.  Anche se «il 90% del lavoro in Rai è lo sforzo fatto per cercare di lavorare. Ma quando ti conquisti la libertà di lavorare hai in mano una macchina potente e aggressiva». Come la sua Yamaha 500 SR.

Insomma ecco Ghezzi a tutto campo, inteso come il più “ordinato disordinato” alto dirigente Rai, ma l’unico ad essersi abbassato le lettere iniziali del nome e del cognome per modernità grafica (non si scrive più Maggio, Parlamento, Ministro con la maiuscola, consigliava Sergio Lepri), o per sfuggire all’omonimia con il guardiano della rete di Milan, Inter e del suo Genoa, o/e per modestia e timidezza. La prima volta che ho visto Ghezzi in un convegno, a Pesaro metà anni ’70, si era messo in testa un cartoccio per il pane, con tre buchi per occhi e bocca (quasi come la foto di Fulvia Farassino nella copertina di questo libro). Detestava prendere la parola ai convegni, ma le sue presentazioni di film (raccolte in due volumi Bompiani) scodellano parole che inventano spiazzano inebriano come quelle che «componevano Carmelo Bene». Il suo slogan dal Maggio parigino preferito è «Vogliamo parole, non fatti!». 

Qui Ghezzi è dunque in kermesse tra i suoi stessi scritti e telescritti, dalla fine degli anni ’70 ad oggi. La figlia Aura, nella prefazione nota una complessità e indecifrabilità dei testi che aumenta con l’avvicinarsi a oggi. Ma a leggerli tutti insieme sono chiarissimi. Come abituarsi alla armolodia di Ornette Coleman a forza di ascoltarla. Il papà poi le ricorda che ogni 7 anni cambiamo l’intera nostra struttura cellulare, e poi che la tv è un luogo che riformula il tutto. Quel che resta identico, al di là del comunicare, «che è sempre far pubblicità» è amore. L’amore di un anarchico-cattolico attore, resista, sceneggiatore, critico, produttore e operatore nato a Lovere (a proposito di jazz) nel 1952. L’acquario di quello che manca è una raccolta in nove tappe molto intense e appassionanti di suoi saggi, lectio magistralis, interventi convegnistici e articoli per quotidiani (quelli per il manifesto, chiarissimi, sempre arrivati fuori orario e fuori formato), settimanali e mensili specializzati come Duel, Duellanti, Sole 24 ore, Corsera, Repubblica.

1. Teorico e filosofo della televisione

2. Spettatore e ri-spettatore di film rigenerati, anche se o proprio perché seviziati, dal piccolo schermo

3. Giocatore professionista del found footage elettronico (Vent’anni prima, Schegge, Blob…)

4. Tuttologo

5. Appassionato scrutatore di sport

6. Apocalittico e disintegrato osservatore delle catastrofi

7. Politico e militante situazionista

8. Intervistato

9. Poeta e copy writer

Insomma ecco tutta la pratica teorica di Enrico Ghezzi, tra liceo e università due film al giorno al Cuc di Genova con Oreste de Fornari e Aldo Viganò, poi ex membro irriducibile delle Brigate Rossellini, i giovani turchi della critica anni ’70 e ’80 indocili al «cinema dello spettacolo e dell’impegno», al processo filmico drammatico-narrativo, alla produzione di immagini rinchiusa nella polarità evasione-informazione. Sia nel cinema sia nella televisione, in fondo, è l’invisibile che conta, l’evaporarsi del visibile, il senso in più, il pensiero motore di Edoardo Bruno (e Ghezzi scriverà molto per Filmcritica). Le brigate erano pronte per la lunga marcia dentro le istituzioni. Tra i poteri forti dell’informazione e della formazione agirono oltre a Ghezzi anche Marco Melani, i bettetiniani come Alberto Farassino e Aldo Grasso; Sergio Germani, i savonesi Carlo Freccero e Tatti Sanguineti. E, con altri tragitti, gli abruzzesiani-nicoliniani, Achille Pisanti, Bruno Restuccia, Rosario Rinaldo, Gino Frezza, Stefano Cristante, Giancarlo Guastini… In più, Ghezzi si può dire abbia trasferito di peso la sua (quasi) cattedra di filosofia morale negli studi di Raitre in via Teulada, dopo aver vinto con un tema infinito su Rossellini e la televisione il concorso di programmista-regista nel 1978 e fatto pratica di studi e di riprese nella natia Genova per un po’. 

Infine, si sente nella frase di Chamfort anche l’influenza di Il piccolo Hans, la rivista di psicoanalisi di cui Ghezzi fu collaboratore che iniziò a maneggiare Lacan perché intenzionata allo scasso linguistico, al lapsus, alla deformazione, al paradosso («una parola può essere il mondo, un’ora di tv equivale a una virgola»), al neologismo, (apofanico o apofantico? Apodittici o ipodittici?), all’ossimoro estremista, al gioco di parole barocco («torsione dello spazio in una perfetta disarmonia»), all’errore marinettiano (eminem diventa emim a pag. 106, perché chi passa i pezzi deve stringere e decapitare le parole per far entrare il tutto?) e all’abuso dei sette tipi di ambiguità del linguaggio scritto-parlato (è tra i pochi a parlare esattamente come scrive, tanto da costringersi al doppiaggio asincrono in video per ricordarci che tutto il film americano che crediamo di conoscere è proprio così).

«Il massimo di sapere tv si ha nello sfondamento iperbolico del luogo comune operato da Celentano in Fantastico» scrive Ghezzi a pagina 33. E continua: è un corso di media, il suo, stupefacentemente e paurosamente preciso ed efficace. Zavoli, Arbore e Costanzo saranno meno confusi nel legare parole come democrazia pace pubblicità acqua e ecologia, ma non lo possono eguagliare perché non ci mettono il corpo, la faccia, i gesti. Comunicano ma non producono rete comune, comunità virtuosa, totale comunione. La televisione è medium mutante, ingiusto, ingannevole («il falso è un reale momento del vero») sublimemente futile, ma è anche «quello più vicino a rappresentare la mappa della mente/inconscio». E Lacan insegnava che futile è l’aggettivo degli esploratori e dei contro corrente emozionali.

Già. E non ha più o meno l’età della televisione − gli anni ’50 − la “soggettività desiderante”? Quella parola d’ordine della modernità ribelle sganciata da Causa, Partito e Chiesa (anche se ondivaga, crepuscolare, evanescente, intermittente), fu rilanciata dalle nouvelle vague e prima di tutti da Nagisa Oshima: privilegia il monologo interiore, lo sguardo in soggettiva sul mondo e «getta il proprio corpo nella lotta», come avrebbero fatto Derek Jarman, Gunther Brus e Pasolini. I corpi cambiano e anche i monologhi, che dopo Joyce sono già diventati plurali, sovrimpressi, asincroni, capacità di indossare anche soggettività altrui.

Non parliamo oggi di corpi post-modern e post-umani, biopoliticamente deformati, mutanti dopo la modificazione genetica operata nei decenni anche dal flusso televisivo-telematico? Fritz Lang, interrogato da Peter Bogdanovich, e citato più volte da Ghezzi, pensando ai divorzi crescenti, sintomo di una vita più veloce, circondata come è dall’ansiogeno spettacolo cine-tv di massa − vedere due-tre film al giorno per esempio e non più come all’epoca dei suoi genitori solamente due spettacoli teatrali all’anno − si chiedeva: «Un uomo e una donna hanno abbastanza con un’altra singola persona? Forse oggi si può assorbire molto di più. Compresi mogli e mariti».

Ma Ghezzi, sensibilità postmoderna, come Carmelo Bene, come Wiliam Burroughs, come Edoardo Sanguineti e come tutti i suoi compagni d’arme, perché è soprattutto un non-critico e un non-cineasta (Coppola, Lynch “telefilo più che cinefilo”, Straub-Huillet, Ophuls, Kitano, Vigo, Walsh, Bressane, Diaz, Ciprì&Maresco, Sokurov, Carpenter, Cronenberg, Dick, Battiato, Scimeca, Corman, Pynchon, Ronconi, De Bernardi, Hou Hsiao Hsien, Ioseliani, Pelesjan, Glauber Rocha) parte da una scientifica certezza critica: «L’essere qui e altrove, e né qui né altrove, dell’immagine (visiva e sonora)». Infatti di cosa parliamo quando parliamo di cinema? «(S)fortunatamente non si sa. Parliamo di tutto, di troppo, di troppo poco, soprattutto di altro» (ivi, p. 155). 

Riferimenti bibliografici
J. Lacan, Il Seminario. Libro XV. L’atto 1967-1968.

Enrico Ghezzi, L’acquario di quello che manca, La nave di Teseo, Milano 2021.

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