L’attuale situazione epidemica è una impressionante cartina di tornasole. Permette di leggere da un punto di vista politico, psico-sociale, filosofico, tutto il nostro presente. Ed anche retrospettivamente il nostro passato. E in un certo senso rende legittime tutte le letture, perché nessuna in fondo mette in questione ciò che va fatto, ora e in questa situazione.

Ad eccezione forse di quella di Agamben, per cui l’abitudine all’emergenza significa abitudine ad una vita “ridotta a una condizione puramente biologica che ha perso ogni dimensione non solo sociale e politica, ma persino umana e affettiva”. Posizione che non va ignorata, non nonostante non possa essere percorsa, ma proprio per la sua attuale impercorribilità. Perché rivela che ciò che può essere fatto risponde ad una sorta di necessità inesorabile (corrispondente a quello che è accaduto negli anni passati in ambito economico), di cui si fanno garanti medici e scienziati.

L’unica possibile apertura sembra riguardare il futuro che – quando è sottratto ad una visione apocalittica – si apre a quella utopica che, esorcizzando la distopia presente, immagina attraverso l’epidemia l’affermazione di un nuovo comunismo (Badiou e Zizek). La situazione che viviamo è nuova, ma non del tutto. Per questo è incidente e ci preoccupa. E per questo novità e continuità vanno di pari passo.

  • “È una epidemia nuova”, si dice: ma epidemie, anche in epoche recenti (Sars, Ebola), ci sono sempre state.
  • “Viviamo una situazione di isolamento e reclusione”: ma in un certo senso eravamo pronti a questo, tant’è che qualcuno addirittura diverse decadi fa (Gunther Anders nel 1936) parlava di una libertà che si afferma proprio attraverso la negazione della sociabilità e del rapporto con l’altro.
  • “Il presente è dominato dall’uso dei social”: ma i social media è da tempo che definiscono un prioritario tessuto comunicativo e relazionale. Senza la loro presenza, checché se ne dica, questa reclusione forzata non sarebbe stata immaginabile.
  • “Siamo ostaggio di un sapere biomedico”: la cosa non è certo nuova; anche solo ad arretrare al Novecento, sappiamo bene (da Foucault, ma non solo) come l’orizzonte sanitario di una pratica biopolitica sia quello in cui ci siamo mossi e ci continuiamo a muovere.
  • “Lo smart working ci dominerà”: la faccenda non è poi così nuova, fa parte di quella destrutturazione di lungo corso dell’articolazione spazio-temporale da parte della “società di controllo” (Deleuze). Saltate le distinzioni tra formazione e lavoro (con l’idea di “formazione permanente”), o quelle tra tempo feriale e tempo festivo (nella continua disponibilità a rispondere agli input lavorativi), quelle tra spazio privato e spazio pubblico ne conseguono. E la casa può sostituire completamente lo spazio pubblico: diventa luogo di lavoro, luogo di reclusione (per esempio con gli arresti domiciliari), luogo di cura (sostitutiva degli ospedali). In questo momento, le nostre case sono tutto questo insieme.
  • “Ci troviamo in uno stato di eccezione”: certo, ma da più parti è stato detto – e a ragione – che tale stato di eccezione e di crisi permanente definisce oramai da tempo il nostro quotidiano.
  • “La formazione – scolastica ed universitaria – così è finita”: che la formazione non fosse più il luogo di una trasformazione collettiva di soggetti (docente ed allievi) nell’esperienza comune della lezione, ma la trasmissione di un sapere teso a costruire competenze pronte per il mercato del lavoro, era un dato acquisito già da tempo (arretrando arriviamo a Nietzsche). L’emergenzialità della didattica online non fa che evidenziarlo.
  • Il cinema e lo spettacolo così sono finiti”: che il cinema si fosse trasferito nell’home theatre domestico con la perdita della centralità della sala era un dato acquisito da tempo (è sufficiente pensare a tutta la discussione sul ruolo delle piattaforme come Netflix).

Potremmo continuare, ma il punto è chiaro. Il carattere traumatico del presente sta nel rivelarci ciò che siamo diventati senza accorgercene. L’isolamento risiedeva nel comfort stesso con cui erano organizzate le nostre case (e non bisogna certo scomodare Adorno su questo). Dunque, per dirla con Bergson, in gioco ora ci sono “differenze di grado” e non “di natura”. Ma queste “differenze di grado” sono decisive e ci rivelano la nostra “natura”. E questo ci spaventa. Questa rivelazione smaschera l’illusione di controllo, che ci ha accompagnato ma mai rassicurato.

E ci spaventa come la nostra “natura”, orientata al controllo, non sia di fatto in grado di controllare nulla, tantomeno l’incontrollabilità della natura stessa (che non riguarda solo zoonosi, ma altri fenomeni distruttivi, terremoti, tsunami). E dunque ora ci troviamo di fronte alla prospettiva di un esercizio sovrapposto tra poteri di controllo (digitale) e poteri disciplinari (polizia), tesi tutti a limitare il movimento libero dei corpi (perfino il passeggiare all’aria aperta) e l’espressività dei volti, con la maschera che proteggendoci dal virus ci nega il sorriso, il primo segno dell’apertura al mondo.

Situazione temporanea, si dice, ma dal perimetro temporale indefinito. Dove gli esperti stessi ipotizzano andamenti ciclici. Con un’unica certezza, che diventa quasi un monito minaccioso che una parte del mondo dà a se stessa: “Nulla sarà come prima”. Che fare, dunque? Se si tratta di “differenze di grado” è su queste che bisogna intervenire.

La lotta al virus non può essere lotta senza quartiere contro “la Bestia”, come è stato ridenominato in forma al fondo rassicurante da alcuni politici. Da un lato perché sarebbe una lotta contro l’invisibile, che sta ovunque, nell’aria e sulle cose, nei corpi senza sintomi del “portatore sano”, dove è addirittura la salute che è “silenzio degli organi” (Canguilhelm) a poter nascondere la colpa, la possibilità di contagio. Dall’altro perché la caccia “paranoica” all’origine del male che ci perseguita e delle colpe che ci assillano (e che prendono anche le forme della caccia all’“untore”) rischia non tanto di finire come Ahab con Moby Dick, quanto di risolversi in una vittoria che lascia sul terreno una completa devastazione esistenziale, sociale ed economica.

E in quel caso sarà impossibile immaginare un cambiamento di stile di vita, resterebbe solo la mera vita senza stile alcuno. Il virus non è la Bestia, è una forma parassitaria del vivente che quando incontra i nostri corpi può aggredirli fino alla morte. In quanto tale, il virus va affrontato con decisione, come tutto ciò che ci può far male, ma va anche accettato. Il che significa affrontato nella forma giusta (con un’azione medico-sanitaria adeguata e con comportamenti sociali prudenti), senza lacerare fino ad un punto di non ritorno tutto il perimetro della vita civile, sociale, culturale.

Qualcuno tra i politici finalmente dice che con questo virus bisogna “conviverci”. Il che significa almeno due cose: spostare su un piano politico e comunitario più ampio quella “pazienza” che ora viene richiesta ai singoli cittadini; ma cosa ancor più importante, significa sottrarre alla paura legittima del virus la diffusione virale della paura. Se rimaniamo tra paura “persecutoria” (del virus e della polizia) e paura della “depressione” nell’isolamento domestico, difficilmente ne usciremo. “Convivere con il virus” significa dunque orientarsi a prevedere una riapertura della nostra vita sociale, civile, culturale: tornare a passeggiare, a scambiarci sorrisi, a fare lezione nelle aule, a ritrovarci come comunità.

Ma si sente dire: “Così si rischia di vanificare tutto!”. Ma questa chiusura non doveva servire a prendere tempo per organizzare bene la risposta medico-sanitaria? A tale scopo sta servendo. Se però da questo si passa ad immaginarla come la possibilità di estirpare il “male” dalla terra, il compito sembra vano: la terra è vasta (si tratta di una pandemia) e la possibilità che il virus ritorni – ci dicono gli esperti – esiste comunque anche se adesso azzeriamo i contagi. E allora? Tanto vale tenerne conto. Ripartire con la nostra vita e se è il caso richiudere nelle forme opportune. Una struttura ciclica, essendo fondata su nuovi inizi, è sempre meglio di questa tendenza ad una chiusura progressiva, continuativa e prolungata fino a non si sa bene quando. E avrebbe due grandi meriti: quello di mitigare il sentimento più profondo che sta segnando il presente: la paura; e quello di sottrarre le pratiche di governo al rischio – o all’obiettivo – maggiore (che si sta vedendo altrove), quello di funzionare come meri dispositivi di potere anche in assenza del virus, orientati al controllo e alla disciplina della popolazione.

Calata la maschera, posti davanti alla verità di una situazione che sapevamo senza sapere, siamo di fronte anche alla possibilità che il “nulla sarà come prima” si trasformi in una opportunità. Quella di metterci nella condizione individuale, sociale e politica di operare una frattura con ciò che è stato, di determinare non una ennesima modulazione di “grado” ma un vero cambio di “natura”. E quel “fuori” a cui ci sentiamo ora fragilmente esposti senza riparo diventa non più la scusa per  sviluppare biopolitiche immunitarie orientate al controllo ed animate da una volontà di disciplina, ma lo spazio in cui reinventare in modo aperto ed imprevedibile nuove forme di vita, luogo in cui l’incontro con l’altro avvenga dalla scoperta di una vita-in-comune, e dove la politica faccia del confine – nazionale e sociale – il segno di un contatto e di un transito e non la traccia di una esclusione.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Chiarimenti, Quodlibet, 17/3/2020.
G. Anders, Patologia della libertà. Saggio sulla non-identificazione, Orthotes, Napoli 2016.
H. Bergson, Materia e memoria. Saggi sulla relazione tra il corpo e lo spirito, Laterza, Roma-Bari Milano 2019.
G. Canguilhelm, Il normale e il patologico, Einaudi, Torino 1996.
G. Deleuze, Poscritto sulle società di controllo, in Pouparler, Quodlibet, Macerata 2019.
M. Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli, Milano 2005.

Tags     coronavirus, epidemia, paura
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