Il genere biografico si configura come un esercizio letterario complesso, specialmente nei casi in cui il contributo di un autore o di un’autrice si inserisce in una tradizione di studi critici esistenti già autorevoli e prestigiosi. Nel caso di Garbo di Robert Gottlieb, pregevole volume di recente pubblicazione per i tipi de Il castoro, questa premessa contestuale ha una sua validità intendendola come una possibilità d’integrazione e di scarto rispetto a quanto scritto finora sulla Divina. Infatti, la ragione critica che ci preme indagare in questo momento è legata alle innovative forme di problematizzazione che la biografia di Gottlieb esibisce nei confronti del suo lettore.

Biografare una diva – o una star se preferite – comporta assumersi la responsabilità di non scadere in atteggiamenti semplicistici o da biografismo psicologista con cui si entra in rapporto dialettico nel momento in cui si sceglie l’oggetto indagato.

Come ci insegna magistralmente un film come Mank (Fincher, 2020) interamente costruito sulle diverse stratificazioni simboliche del ruolo dello screenwriting e dello screenwriter nella Hollywood classica, un film non può raccontare in due ore la vita di una persona; può restituire soltanto un’impressione di essa. Seguendo, dunque, una linea parallela, potremmo dire che Gottlieb in Garbo riesce a restituire romanzescamente al lettore l’impressione di conoscere la diva attraverso un flusso ininterrotto di dichiarazioni e testimonianze, di gossip e scandali, di aneddoti e vulgate popolari, mantenendo però quella promessa del mistero che il racconto della star più enigmatica della storia dello star system classico esige come premessa inviolabile.

In questo cospicuo volume (corredato da oltre 250 immagini d’archivio), Gottlieb da un lato ripropone nella maniera più tradizionale il racconto reale e fattuale della vita di Greta Garbo scandendo la narrazione per tappe cronologiche inevitabili: l’infanzia poverissima a Stoccolma, l’incontro col suo mentore Mauritz Stiller, l’approdo a Hollywood a soli diciannove anni e la firma con la MGM di Louis B. Mayer e Irving Thalberg a cui sarà legata per tutta la sua carriera, il ritiro dalle scene dopo l’insuccesso di Non tradirmi con me (Cukor, 1941), e infine il suo vivere da “eremita in città” a New York per i successivi cinquant’anni; dall’altro lato, invece, il racconto di Gottlieb risuona di una polifonia di voci fuori campo costituita da quella costellazione di figure e personaggi della Hollywood degli anni venti e trenta che hanno animato gli scandalosi volumi di Kenneth Anger e che hanno recentemente trovato un controcanto trasfigurato in celluloide in Babylon (2022) di Damien Chazelle.

In questo senso, potremmo affermare che questa biografia di Greta Garbo compie un lavoro di descrizione e restituzione di un contesto storico-culturale così nevralgico per la storia del cinema al pari della migliore tradizione letteraria dell’hollywood novel o dei backstudio pictures. Infatti, seguendo questa chiave interpretativa, leggere Garbo non costituisce un percorso dissimile da quello offerto dalla lettura de Gli ultimi fuochi di Francis Scott Fitzgerald o dalla visione di Viale del tramonto (Wilder, 1950), l’esempio principe di un backstudio picture ancora oggi insuperato per la sua capacità di descrivere in maniera autoriflessiva lo spirito di opulenza, decadenza e rifondazione che da sempre sembrano innervare la formula perfetta hollywoodiana.

Infatti, Gottlieb riesce sempre con grande abilità narrativa ad attraversare i confini labili e porosi che intercorrono tra public e private persona demandando all’icona Garbo il ruolo di epicentro di numerose tensioni discorsive all’interno dell’industria hollywoodiana classica. Pertanto, l’esplorazione dei ruoli della carriera della diva è funzionale alla comprensione dei meccanismi di costruzione del modello di stardom voluto dai grandi tycoons della MGM, ovvero di quell’insieme di valori simbolici, commerciali e contrattuali attributi allo star power o alla condizione di una stella in grado di intercettare e orientare le tendenze e i gusti di una nazione. Presentata come vamp in film come Il torrente (Bell, 1926), La tentatrice (Niblo, 1926) e La carne e il diavolo (Brown, 1926), il cui successo è legato alla straordinaria tensione erotica tra le figure reali e finzionali di Garbo e John Gilbert, e in seguito ascritta al mito di Sfinge, di Idea o di Evento in un film come La donna misteriosa (Niblo, 1928); poi tragica interprete di drammi contemporanei come nel primo film parlato della MGM (Garbo Talks!) Anna Christie (Brown, 1930), spia indipendente e condannata a morte in Mata Hari (Fitzmaurice, 1931), protagonista sublime di melodrammi come La regina Cristina (Mamoulian, 1933), Anna Karenina (Brown 1935) e Margherita Gauthier (Cukor, 1936), fino allo sberleffo autoriflessivo (Garbo Laughs!) di Ninotchka (Lubitsch, 1939); la Garbo nel corso della sua carriera ad Hollywood sembra rivendicare più di ogni altra star maschile e femminile contemporanea la capacità di determinare gradualmente la scrittura dei propri ruoli; in altri termini, è la prima ad avanzare la possibilità di essere autrice della costruzione del suo stesso mito, oppure, per dirla con Barthes, di apportare ulteriori e intercambiabili mitemi e biografemi ad una narrazione mai univoca sul suo conto.

Questa capacità di scrittura del sé da parte della Garbo, infatti, ci suggerisce ancora una volta di dialogare con la posizione avanzata da Francesco Alberoni nel suo seminale testo L’élite senza potere (1963), secondo il quale «l’élite dei divi, pur essendo composta di privilegiati […] non è tale in quanto esercitante un potere di costrizione sugli altri membri della comunità» (Alberoni 1973, p. 121), asserendo inoltre che «coloro che manovrano lo star system detengono un potere nei riguardi del pubblico, ma, proprio per questo è verso di loro e non verso i divi che si può costituire e si costituisce un risentimento di classe» (ibidem). In realtà, sebbene la tesi di Alberoni risulti tuttora efficace e sociologicamente fondata, il racconto di Gottlieb recupera una sfumatura socio-simbolica a cui lo stesso Alberoni allude quando scrive che «essi [i divi] perciò svolgono una funzione di unificazione, meglio sarebbe dire isomorfizzazione, comunitaria» (ivi, p. 124). D’altro canto, però, la lettura di Gottlieb ci induce a ridefinire la condizione di una stella, ossia la sua capacità di affermare il proprio potere simbolico dentro e fuori il sistema.

La Garbo, in sostanza, è stata l’unica star dell’epoca in grado di rivendicare un percorso di agentività e di negoziazione con i capi della MGM. Comprendere e ripercorrere, dunque, i contesti e le modalità di produzione del cinema classico hollywoodiano attraverso la vicenda della Garbo non comporta, quindi, presupporre un’incidenza normativa del potere della star; significa altresì evitare di rischiare di cadere in un legaccio metodologico e narrativo che delegittima il potere simbolico della Garbo in quanto soggetto e identità in grado effettivamente di generare differenze.

La vita della Garbo, inoltre, viene raccontata da Gottlieb anche in relazione ai rapporti professionali, interpersonali e sentimentali più importanti. Dalle egemonie psicologiche di Mauritz Stiller prima e di Salka Viertel poi sulla sua mente e sulla sua carriera, all’amore tormentato ma rispettoso con John Gilbert; dalla sessualità fluida e ambigua esplorata nella relazione con Mercedes de Acosta, all’ossessione nei suoi confronti da parte di figure come la stessa de Acosta, George Schlee e Cecil Beaton, fino alla protezione offertale da Cécil de Rothschild e alla frequentazione degli Onassis e Churchill.

La biografia di Gottlieb, infine, protegge quella Babilonia di misteri che la stessa Garbo ha faticato per tutta la vita per tenere al sicuro. Proprio come nel sopracitato film di Chazelle in cui Jack Conrad (Brad Pitt) viene costruito sul modello dello stesso John Gilbert che al viale del tramonto del cinema muto venne messo da parte dallo Studio System, e Nelly LaRoy (Margot Robbie) viene costruita su una combinazione di Clara Bow e di Joan Crawford tanto amante di quelle feste sfrenate che Greta amava e odiava in egual misura, il testo di Gottlieb è un viaggio in quel reame deificato e poi reificato di Hollywood suffragato dalla vicenda pubblica e privata di colei che ne costituisce il filtro per tutta l’esperienza della sua fondazione mitica.

Riferimenti bibliografici
F. Alberoni, L’élite senza potere. Ricerca sociologica sul divismo, Bompiani, Milano 1973.
R. Barthes, Miti d’oggi, Einaudi, Torino 2016.
P. McDonald, The Star System: Hollywood’s Production of Popular Identities, Wallflower, London 2000.
E. Morin, I divi. Genesi, metamorfosi, crepuscolo e resurrezione delle star, Garzanti, Milano 1977.
I. Mayer Selznick, A Private View, Alfred A. Knopf, New York 1983.

Robert Gottlieb, Garbo, Il Castoro, Milano 2023.

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