“Dove vorresti andare?”
“Su un set, per far parte di qualcosa di grande…”
La trasognata risposta del giovane assistente messicano Manny Torres (Diego Calva) alla didascalica domanda dell’aspirante star Nellie LaRoy (Margot Robbie) – prima di farsi travolgere dal fiume di illusioni, droghe e perdizione di una festa hollywoodiana anni Venti – distilla sino all’essenza il desiderio che muove ogni personaggio di Damien Chazelle. Dai training indie-jazz di Whiplash ai musical-graffiti di La La Land, dall’allunaggio analogico di First Man alla serigrafia della Hollywood Babilonia di quest’ultimo film, l’ossessione rimane la stessa. Ossia il piacere (o il dovere?) di catalogare le forme del cinema del XX secolo per svelare infine l’esistenza di un “set” (in un teatro, in una sala o persino sulla Luna) da abitare come ultima frontiera possibile per ritrovare sé stessi.
Il cinema come cura per ogni abisso identitario: Chazelle è prima di tutto uno spettatore rimasto orfano dell’esperienza cinematografica novecentesca rinegoziata fatalmente negli ambienti mediali e interattivi del XXI secolo. Un’anelata “grandezza” che cerca oggi di sopravvivere negli occhi innamorati, nostalgici o addolorati di personaggi colti in un eterno viale del tramonto (basterebbe l’inquadratura di Brad Pitt che galleggia inerme nella sua piscina come William Holden nel film di Billy Wilder per aprire infiniti link immaginari).
Partiamo. Siamo a Hollywood, nel 1926, un attimo prima della prima morte del cinema ad opera di una rivoluzione tecnica (l’arrivo del sonoro e di tutti i cantanti di jazz) e di una presa di posizione ideologica (il codice Hays che seda ogni eccesso dentro e fuori lo schermo). Due fattori decisivi per edificare l’ordine morale e immaginario della golden age dagli anni Trenta in poi. Pertanto, da bravo ed eterno studente di cinema, Chazelle vuole cogliere gli ultimi fuochi delle pulsioni selvagge e sperimentali dell’era del muto tra le ville appena edificate di Hollywoodland e l’ancestrale confine desertico di Los Angeles con le sue improvvise derive pulp. Uno spazio senza regole abitato da personaggi liminali, visionari e non conformati: dalle lucide ambizioni di Thalberg alle folli visioni di Von Stroheim, dalle apocalissi gravitazionali Keaton alle Babilonie di cartapesta di Griffith, il cinema nasce come grande metalinguaggio della modernità che riesce a prefigurare tutti i linguaggi globali del futuro. Un’ambizione spropositata?
Chazelle radicalizza la sua estetica da playlist di scene madri catapultandoci tra le feste (a dir poco) eccessive raccontate da Kenneth Anger dove guarda caso irrompono gli elefanti come simbolo della magniloquenza hollywoodiana. Quindi le citazioni de La dolce vita di Fellini pedinate dai barocchi piani sequenza scorsesiasini possono terminare solo nel terzo atto quando il film viene posseduto da un improvviso intento didattico su cos’è stato il cinema. Insomma, qui siamo ben oltre la nostalgia postmoderna degli stili e persino oltre l’archeologia tec-nostalgica dei dispositivi. Perché Babylon vuole prima di tutto configurare una sorta di oltre-museo del cinema dove non ci rimane altro che assistere inermi a uno sfrenato rito collettivo per tentare di rievocare i fantasmi di una comunità di visione ormai sciolta tra display e piattaforme.
Tutto eccessivamente calcolato e didascalico? Certamente. Ed è per questo che bisogna sondare le pieghe di queste immagini a tratti oscene per coglierne scarti e aperture improvvise: occhi che lacrimano a comando perché afflitti da dolori inconfessabili; nuove forme di intolleranze da suturare solo con la purezza del gesto e della performance; primi piani insistiti di star senza futuro (sempre più lucido Brad Pitt nella decostruzione del suo statuto iconico) che sanno ancora svelare un’irriducibile umanità. Infine, lo sguardo perennemente affabulato di un alter ego/spettatore che trova finalmente il modo di montare i frammenti impazziti del suo passato con quelli di un ipotetico futuro (proprio come nel finale di La La Land). Ed è qui che Chazelle sfiora lo spirito del nostro tempo. In questa sovrabbondanza sgradevole di immagini fini a sé stesse che sembrano non aver più bisogno di un fuoricampo denunciando (o, secondo alcuni detrattori, confermando) una tragica mancanza di sguardo che sappia raccordarle alla nostra sensibilità.
Fermiamoci qui. Al di là di ogni evidente fragilità formale e filosofica Babylon resta un film sincero e coraggioso proprio perché (in modi totalmente diversi dai ben più riusciti ultimi film di Tarantino, Cameron e Spielberg) sa riaffermare l’urgenza dell’esperienza del cinema (e della sala cinematografica) come spazio del pensiero atto a far balenare l’origine del nostro rapporto con le immagini. I tre protagonisti del film ricordano sé stessi operando un montaggio personale di singole inquadrature estatiche, di stracci di memoria già visti ma vissuti insieme a noi per la prima volta. Ecco che Manny, Nellie e Jack diventano personaggi tragici e indimenticabili in un flusso anestetico di immagini grossolane e dimenticabili. Non è poi così poco.
Babylon. Regia: Damien Chazelle; sceneggiatura: Damien Chazelle; fotografia: Linus Sandgren; montaggio: Tom Cross; musiche: Justin Hurwitz; interpreti: Margot Robbie, Diego Calva, Brad Pitt, Jovan Adepo, Li Jun Li; produzione: Paramount Pictures, Marc Platt Productions, Material Pictures; distribuzione: Eagle Pictures; origine: Stati Uniti d’America; durata: 189′; anno: 2022.