Intitolato The Whole Equation: A History of Hollywood e pubblicato nel 2004 dalla Knopf, il libro di David Thomson è una storia idiosincratica del cinema hollywoodiano classico, scritta in uno stile digressivo e torrenziale che una recensione del New York Times definì a suo tempo «verbosa fino allo stordimento del lettore». Thomson è una firma importante della critica cinematografica anglosassone, autore del fortunatissimo New Biographical Dictionary of Film, pubblicato per la prima volta nel 1976 e da allora regolarmente aggiornato e ampliato, famoso per l’impatto divisivo delle schede dei personaggi biografati (un esempio fra i tanti: Joaquin Phoenix «potrebbe finire a recitare nudo e silenzioso in un film di Lars von Trier»). Ora The Whole Equation esce per la prima volta in Italia, nella traduzione di Gilberto Tofano, per i tipi di Adelphi, editore che ha avuto un notevole successo con l’edizione italiana dei due volumi di Hollywood Babilonia di Kenneth Anger.

Il titolo La formula perfetta non deve ingannare: l’intenzione di Thomson non è affatto quella di fissare le coordinate produttive, stilistiche, distributive e ricettive del cinema hollywoodiano classico così come si sono consolidate e codificate in una o più formule, per quanto talvolta l’autore ci si soffermi:

È interessante osservare come il cinema americano di quegli anni, mentre metteva a punto uno stile di ripresa narrativo, definisse al tempo stesso il rapporto economico tra produzione, distribuzione e sale di proiezione. Per capire come è fatto un film americano bisogna considerare queste branche non semplicemente come elementi collegati ma come parti di uno stesso organismo o flusso sanguigno. Intendo l'abbondanza di leve narrative, colpi di scena congegni a effetto (Thomson 2022, p. 154).

Così Thomson definisce, a suo modo, il cinema hollywoodiano classico come dispositivo economicamente orientato alla produzione di un’ontologia dell’azione e di una logica dell’intreccio (la struttura mitica); nei termini di Roberto De Gaetano, il cinema americano assume complessivamente la forma «del potere del capitale e dell’immaginario come suo mezzo di realizzazione». Tuttavia, non è esattamente questa la declinazione del mythos su cui è incentrata la maggior parte del libro.

A Thomson interessa il mito di Hollywood nell’accezione dell’insieme di eventi e personaggi idealizzati e amplificati dall’immaginazione popolare. Questo è il materiale che l’autore si impegna a restituire in un lungo flusso di coscienza (600 pagine) in cui si mescolano fatti e opinioni, realtà e finzione; un flusso in cui non c’è alcuna differenza tra Irving Thalberg, il giovane produttore della MGM, e Monroe Stahr, il personaggio creato da Francis Scott Fitzgerald a immagine e somiglianza di Thalberg per il romanzo incompiuto Gli ultimi fuochi: entrambe le figure, per Thomson, fanno parte del mito. Proprio dalle pagine di Fitzgerald, del resto, viene il titolo originale: «Not half a dozen men have ever been able to keep the whole equation of pictures in their heads» («Non più di cinque o sei uomini sono riusciti ad avere ben chiara nella mente la formula perfetta dell’industria del cinema» nella traduzione italiana).

A volte l’attenzione dell’autore si rivolge allo spettatore-voyeur, protetto dal buio mentre si concede il desiderio dei corpi sullo schermo; altre volte ci presenta i grandi uomini di Hollywood evidenziandone splendori e miserie (Louis B. Mayer, Charlie Chaplin, David Wark Griffith, Erich von Stroheim); altre volte ancora si mette a sferzare il cinema per la sua marginalità artistica rispetto alle grandi opere della letteratura, della musica, del teatro della prima metà del XX secolo («Non ho molta simpatia per l’esaltazione del cinema muto come Arte», ivi, p. 238), oppure si lancia nella lunga descrizione di un dipinto (New York Movie di Edward Hopper). Si tratta di una precisa strategia affabulatoria che Thomson rivela esplicitamente in più passaggi al lettore, cercando di tenerlo dentro il flusso:

Capisco quanto possano disturbare certi accostamenti strani tra il piano storico e quello onirico (cioè la vera America e i suoi film). […] Eppure credo che questo modo di mescolare fantasia e realtà, per quanto spiazzante, sia […] un elemento centrale di quella che ho chiamato la formula perfetta del cinema (ivi, p. 234).

Nel disordinato fluire della miscellanea di Thomson, talvolta si affaccia la scrittura critica in senso pieno, come accade quando l’autore, per chiarire la sua posizione rispetto all’introduzione del sonoro nel cinema hollywoodiano, ci presenta questo esempio:

Prendiamo […] la scena di Marocco in cui Marlene Dietrich (in frac e cappello a cilindro) ha appena finito di cantare. Durante l’applauso scrosciante degli avventori, Amy Jolly (il nome del suo personaggio) punta una giovane seduta a un tavolo del locale. La scruta. La ragazza è turbata da quello sguardo indagatore. Amy ha un attimo di esitazione (possiamo dire che Sternberg sia stato il primo a filmare l’esitazione) poi si avvicina e la bacia. Che cosa è successo? Che significa? […] Abbiamo visto e sentito una mente al lavoro, una mente e un corpo che possono avvalersi del sonoro, cosicché Amy può scegliere, per pochi secondi, di restare in silenzio (ivi, p. 240).

In sostanza, è il cinema sonoro a generare il silenzio, come sa bene lo spettatore di 2001: Odissea nello spazio.

Qui e in altri momenti davvero preziosi del libro, le storie e le leggende di Hollywood lasciano spazio a una forma di scrittura del tutto differente, capace di estrarre l’idea dall’opera e di produrre quella che secondo De Gaetano è «l’unica conoscenza a garantire il passaggio dalla singolarità dell’opera alla continuità delle forme».

Riferimenti bibliografici
R. De Gaetano, Cinema italiano: forme, identità, stili di vita, Pellegrini, Cosenza 2018.
Id., Critica del visuale, Orthotes, Napoli-Salerno 2022.
D. Thomson, The New Biographical Dictionary of Film: Completely Updated and Expanded, Knopf, New York 2010.

David Thomson, La formula perfetta. Una storia di Hollywood, Adelphi, Milano 2022.

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