Ciò che trovo straordinario nel cinema di Valeria Bruni Tedeschi è la sua libertà, che prende la forma anche dell’imperfezione. Questo era vero per I villeggianti, e si vede anche in quest’ultimo film corale, Forever Young (Les Amandiers). Personaggi liberi, originali, tutti amati dalla regista, e situazioni contrassegnate da ciò in cui una civiltà meglio si esprime, cioè nell’organizzazione del tempo libero e delle arti: la convivialità ne I villeggianti e il teatro in quest’ultimo film. Dove è in gioco soprattutto la gioventù, la formazione teatrale, l’entrata nell’ambita scuola di teatro di Nanterre, “Les Amandiers”, diretta da Patrice Chéreau.

Qui il carattere autobiografico della storia, ambientata negli anni ottanta, nella scuola di teatro frequentata dalla stessa Bruni Tedeschi, diventa la via d’accesso non per la ricostruzione di un’epoca, ma per usare un periodo (anni ottanta), una pratica (il teatro) e soprattutto una condizione (la gioventù), come intercessori per esprimere un sentimento della vita come disponibilità continua a scoprire e sperimentare. Sperimentazione che sia in amore sia sulla scena di un quotidiano inseparabile dal teatro non è esente da rischi né da paure: della malattia (Aids), della droga (eroina) e della morte che ne può conseguire. In fondo, la disponibilità della gioventù è nei confronti della vita stessa. E l’attore è chi questa disponibilità la misura nel moltiplicarsi dei ruoli, in un “fuori” – il personaggio – a cui è esposto il suo sé: mai completamente se stesso e mai totalmente “altro”. E questo “tra” il sé e il ruolo, associato alla disponibilità indefinita della gioventù, fa dell’attore e della formazione attoriale e collettiva una vera formazione alla vita, oltre la definitezza e stabilità dei ruoli, delle strutture molari, delle “striature” (Deleuze) intorno a cui è organizzata la vita sociale. Il maggiordomo, che incarna il “buon senso”, dice a Stella (la protagonista del film) e alla sua amica, in attesa di sapere se hanno superato la selezione per accedere alla scuola, che sposarsi e avere figli apre ad una vita moderatamente infelice, e fare l’attore dispone invece ad una vita di sofferenza.

La macchina da presa sta a ridosso di questi giovani attori in formazione, dei loro volti, dei loro corpi inquieti, così come inquieti sono i corpi e le menti, sia pur talentuosi, dei loro maestri (tra cui uno Chéreau interpretato da Louis Garrel). Ne coglie il loro errare, la loro ambizione ad esserci, la loro rivalità per i ruoli assegnategli, il loro desiderio di essere per un periodo alla Scuola di Lee Strasberg di New York.

In questa pedagogia comunitaria, in questo romanzo di formazione collettivo, diviso tra arte ed amore (binomio che ricorda un’altra comunità di artisti, quella di Die Zweite Heimat), scopriamo che questa formazione è forse in primo luogo educazione alla perdita, alla scomparsa, alla fine possibile o effettiva, provvisoria o definitiva. Come per la morte di Etiennne, il ragazzo eroinomane che Stella ama, e nel finale fa “tornare” attraverso la magia della scena, attraverso la recitazione. Stella, ritornando allo Strasberg Institute, reciterà immaginando Etienne, sentendolo presente, fino a quando non ascolteremo la sua voce fuori campo cantare “Guarda che luna”. L’intensità della recitazione di Stella, su un letto matrimoniale in una stanza vuota, colpisce la maestra che la osserva.

Un’assenza ritorna presenza per effetto del desiderio e dell’amore che animano la simulazione attoriale. Ridare presenza ad un’assenza e viceversa è il gioco teatrale fra attore e personaggio, secondo una logica della reversibilità: il personaggio quando emerge fa sparire l’attore; e quando quest’ultimo si manifesta (per esempio nel comico) cancella il personaggio. Recitare è abitare questo spazio tra l’uno e l’altro, l’attore e il personaggio. La recitazione si contrappone alla costruzione del carattere come effetto del costituirsi e del contrarsi nel tempo di abitudini. Il carattere è la forma con cui ci si difende dalla vita. E la scena è invece il luogo dove la vita si fa più intensa. Senza abitudini e senza carattere. E dunque anche pericolosa. Violenta.

Il cuore del film è proprio il radicamento della recitazione nella formazione e di questa nella giovinezza. È il carattere teatrale con cui prende forma la vita stessa in quella fase in cui la disponibilità con cui ci si apre al mondo è la non coincidenza con alcun ruolo definito. Questa disponibilità, che nella vita non più giovane tende a ridursi per il moltiplicarsi di striature e schematizzazioni, sulla scena trova la sua intensificazione. La vita in scena è la vita che vive. Nella finzione la vita si intensifica. E tale intensificazione rifluisce e riconfigura la vita quotidiana dell’attore. Il circuito diviene allora intenso e completo. La vita si fa rischio, fragile e potente allo stesso tempo, come sono i ragazzi del film.

In un certo senso un attore non diventa mai grande. Può essere un “grande attore” ma per esserlo, e per continuare a restarlo, deve abitare quello spazio di disponibilità che è connaturato alla giovinezza. Per questo un grande attore è sempre in un certo senso giovane. E questa gioventù dell’attore proiettata sulla giovinezza anagrafica crea circuiti la cui intensità – vitale e violenta allo stesso tempo – il film magnificamente mostra.

Cosa resta oggi di quei circuiti? La gioventù sembra la fase della vita più di altre segnata dalla paura e dal controllo, tipici della maturità, dove la disponibilità sembra di fatto scomparsa dietro una pervasiva effervescenza comunicativa. L’età adulta sembra a sua volta essere diventata il periodo in cui la capacità di creare con esperienza ha ceduto il posto ad un giovanilismo bloccante e ricorsivo. La vita ha smesso da un pezzo di modellarsi su una formazione teatrale, preferendo la vetrina social dove la potenza del vivere (che tiene tutte le età insieme) prende la forma di una vita senza potenza in cui sentimenti, gesti ed espressioni si trasformano nelle emoticon che occupano i nostri schermi, che hanno sostituito ogni scena non solo pubblica ma perfino privata.

Per questo lo sguardo di Bruni Tedeschi su un decennio ed un gruppo di ragazzi non ha nulla di nostalgico. Ci fa semmai vedere e sentire intensamente vicina l’esperienza di un essere giovani, e dunque vivi e disponibili. Attraverso quest’esperienza messa in scena vediamo che un’altra vita, un’altra scena è stata vissuta, sentita ed immaginata. E solo da una tale scena è possibile immaginare il gesto collettivo di una nuova pedagogia, e una nuova vita, fondate sulla teatralità e su una esposizione intensa e rischiosa sulla scena, distante dalle protette vetrine social e dal profluvio di supporti e dispositivi, tecnologici e non, che plasmano le nostre vite e il nostro presente e vengono cantati come liberatori.

Forever Young – Les Amandiers. Regia: Valeria Bruni Tedeschi; sceneggiatura: Valeria Bruni Tedeschi, Noémie Lvovsky, Agnès de Sacy; fotografia: Julien Poupard; montaggio: Anne Weil; musiche: François Waledisch; interpreti: Nadia Tereszkiewicz, Sofiane Bennacer, Louis Garrel, Micha Lescot, Clara Bretheau, Oscar Lesage, Alexia Chardard, Sarah Henochsberg, Noham Edje, Liv Henneguier; produzione: Ad Vitam, Agat Films, Bibi Film, Arte France Cinéma; distribuzione: Lucky Red; origine: Francia; durata: 125′; anno: 2022.

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