Sorprende I villeggianti. Sorprende pur non essendo un film perfetto. Sorprende per una radicale libertà che lo attraversa, per la vita che passa e segna personaggi e situazioni, senza mai chiuderli, ma rilanciandoli costantemente.

C’è la borghesia e la villeggiatura. Ma siamo distanti dalle “smanie” delle villeggiature goldoniane di una borghesia in ascesa. Qui la borghesia è sfatta. Il suo disfacimento però prende i tratti di un carnevale malinconico, che rimette in gioco tutti, i congiunti e i separati, i vivi e i morti, come nell’epilogo felliniano dove in un set nebbioso, il mondo viene cancellato e assorbito in un immaginario che rende pari tutto: chi non c’è più e chi c’è ancora, il personaggio e l’attore, il presente e il passato, l’attuale e il virtuale. 

Anna è una regista (interpretata dalla stessa Valeria Bruni Tedeschi), che fa sempre “lo stesso film”, come lei stessa confessa nell’audizione iniziale con una commissione per ottenere il finanziamento. Anna è in crisi sentimentale con il fidanzato Luca (Scamarcio), che ha un’altra, più giovane, più seducente (icona pubblicitaria). Nel tempo sospeso della villeggiatura e nello spazio isolato di una sontuosa villa sulla Costa Azzurra, Anna si ritrova – nel tentativo di finire di scrivere il suo film –  con famiglia e amici. Luca resta a Parigi. Lei non riuscirà a scrivere, lo chiamerà di continuo. Ma anche nei momenti più drammatici, quando i due litigano e, alla stazione, lei gli sputa addosso, o quando rompe con una gomitata il vetro di una cabina telefonica, il conflitto e il dolore non si fanno fino in fondo drammatici, perché la recitazione della Bruni Tedeschi stilizza il personaggio (rendendolo indiscernibile dall’attore, dal suo vissuto, ma anche dai personaggi degli altri suoi film) e ne indebolisce la potenza mimetica. Il dramma è in primis recitato.

Ma il film ci riconsegna un ritratto corale, una messa in scena di borghesia e servitù dalle risonanze renoiriane. La borghesia non è più segnata da pratiche e norme codificate di comportamento e relazione, ma è già insularizzata. Ogni personaggio viene rappresentato come una quasi-maschera, nel tratto tipico del suo vizio in fondo amabile: la fragilità troppo partecipe della sorella (Valeria Golino), l’opportunismo del cognato ricco (Pierre Arditi), il carattere distaccato della madre, per cui tutti da “bambini hanno subito qualcosa” (con riferimento alle molestie ricevute dalla figlia). E poi c’è anche la servitù, senza livrea, senza disciplina, intrecciata non solo in rapporti d’amore al suo interno, ma anche con i padroni (la “scopata” che si fa la sceneggiatrice – nel film e del film, Noémie Lvosky  – con uno di loro).

È come se tutto un mondo ed una tradizione novecentesca (divisione in classi, ricchezza come stile di vita, servitù vicina ai padroni) giungesse oramai come guscio vuoto, fantasma, mascherata quasi grottesca, in una contaminazione di registro drammatico e comico. Ma dove alla fine è quest’ultimo a dominare: la scomparsa in mare di uno degli ospiti (situazione prossima a L’avventura di Antonioni) si trasforma nel suo ritorno, nell’“impossibilità di morire”.

La morte scampata, il ritorno del vivo, è anche il ritorno del morto (il fratello, intorno alla cui morte gira il film da farsi), che diviene esemplare nel finale. I vivi e i morti, gli ancora uniti e i separati, si ritrovano in un finale commedico, dove il tempo si redime attraverso la potenza di una immaginazione che si fa racconto della vita, che è sempre allo stesso tempo drammatica e comica.

Questa unione di toni, che la borghesia conosce meglio del popolo, è anche unione di registri, che il film felicemente opera. La borghesia ha in primis il dominio quotidiano della messa in scena. Al popolo è concesso invece solo allo spazio-tempo limitato del carnevale (lo sappiamo da Bachtin). Ma quando al registro carnevalesco popolare è affidato il compito di rappresentare il dramma borghese, come in questo caso, allora la mescolanza diviene felice.

La transitorietà del tempo della vita viene restituita nell’intreccio tra linearità  e ciclicità. La linearità del tempo produttivo borghese (orientato verso la fine) si mescola al tempo ciclico del popolo (orientato verso il ritorno). La chiave della felicità del film è questa: affidare al carnevalesco popolare (segnato dal riso) la rappresentazione del mondo borghese e dei suoi drammi (marcato dal pianto). E viceversa: portare nel popolo e nella servitù il dramma d’amore borghese. Le rivendicazioni sociali vengono infatti stancamente portate avanti dal maggiordomo anziano, ma senza particolare energia e senza alcun riscontro da parte dei signori, che hanno sempre qualcosa d’altro da fare.

Restituire il dramma come commedia, la fine come inizio. Questa è anche una delle chiavi per leggere tutta una grande tradizione del cinema italiano, da Fellini a Moretti. Con i quali il film condivide anche l’uso di personaggi come espliciti intercessori dell’autore: i registi. E con Moretti condivide qualcosa di più: la presenza del regista anche come attore. Questo rende chiara una cosa: il personaggio non serve esclusivamente a se stesso, né alla storia (in fondo inesistente), ma serve all’autore per liberare una visione estetico-etica del mondo. Il personaggio di Anna nell’interpretazione di Valeria Bruni Tedeschi inscrive nelle pratiche, nei gesti e nei dialoghi dell’alta borghesia un tratto sconnesso, maldestro, lunare (segnato da un certa clownerie) che dall’interno lo mina costantemente, gli crea un’intercapedine: per cui sappiamo sempre, in ogni momento del film, che quel dramma non potrà finire comunque come dramma. E le figure eccentriche che l’attorniano, sempre sul punto di precipitare verso un inesorabile piano inclinato, un precipitato drammatico, rimangono sempre commedicamente in piedi (fino a rinascere, a tratti, come il fratello morto).

La destrutturazione sociale e simbolica delle classi, dei valori, delle pratiche di vita della borghesia, oramai compiuta, può essere salvata solo dall’assunzione di una posizione “minoritaria”, per questo più libera e più felice, quella dove il misurarsi con l’inconciliabilità del tempo (la fine di una storia d’amore, la morte) trova riscatto nello sguardo “commedico” sul mondo, capace di tenere insieme, come emerge nell’epilogo, in una indistinzione tra reale ed immaginario, presente e passato, privato e pubblico, realtà e messa in scena, il senso della vita. Un senso propriamente romanzesco, dove è impossibile distinguere in forma netta dramma e commedia. 

E in tutto questo si libera anche la potenza di un sentire e di uno sguardo femminile, capace di sorprendere con una messa in scena felicemente sottratta ad ogni logica e ad ogni controllo. E in questo includere la posizione dell’altro, il carnevalesco popolare, il film ci indica anche una via di libertà decisamente femminile, privilegiatamente minoritaria, molecolare ed eccentrica (presente anche in Lazzaro felice di Alice Rohrwacher), l’unica veramente possibile ed interessante, che va oltre le gabbie ideologiche della strada senza uscita del risentimento infinito, percorsa da un senso comune che sembra limitare il femminile ad una posizione di arroccamento.

È questo sguardo che va riconosciuto ed alimentato, è questo sguardo che crea una “pedagogia dell’arte” che si esercita sui sentimenti e sulla loro elaborazione dialogica e anche giocosa (come quando le due sorelle cantano “Ma che freddo che fa” di Nada). In questa pedagogia la commedia ha naturalmente un privilegio innegabile. Davanti ad ogni divorzio e perdita, la commedia ci insegna innanzitutto a non divorziare dalla vita.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, a cura di P. Vignola, Orthotes, Salerno 2017.
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2015.

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