Il modo in cui singoli fili s’intrecciano a formare un tessuto, o lo svolgimento di fatti, lo sviluppo di situazioni, azioni narrate in opere letterarie, filmiche, teatrali, oppure il complotto, l’ordito, la macchinazione, sono, in italiano, trama. Il corrispettivo inglese è plot, il cui verbo significa tracciare, disegnare, misurare, e – di nuovo – complottare.

Quella de Il filo nascosto (2017), di Paul Thomas Anderson, vede un couturier londinese degli anni ’50, Reynolds Woodcock (Daniel Day-Lewis), la cui maison veste l’alta società europea, nobili e reali. Scapolo, in una dedizione e identificazione monacale col proprio lavoro; le donne costituiscono per lui unicamente fonte di ispirazioni, da cambiare di volta in volta secondo l’amministrazione di creatività e vita sentimentale che la sorella-segretaria Cyril (Lesley Manville) intesse per lui. La nuova musa Alma (Vicky Krieps), una cameriera, si rivela però più tenace nel tentativo di legare a sé l’uomo.

Tutt’altro che nascosta è la metafora che il film intreccia tra la professione del sarto e l’attività di un regista se entrambi artisti/artigiani, entrambi tessitori di trame in cui è all’opera una techne di occhio e mano.

Parimenti evidente, da subito, è che la fascinazione che Alma esercita su Reynolds risieda essenzialmente nel suo essere modella e manichino, e in modo altrettanto fermo e cristallino presto l’uomo afferma che è l’onestà verso il lavoro a impedirgli di sposarsi. Lo stilista, metro alla mano, prende su Alma le misure, annotate rapidamente da Cyril, in una scena dove soggettive o pseudo-soggettive di Woodcock e sorella sono accomunate dallo stesso vedere attraverso le lenti degli occhiali, per inquadrature leggermente flou. La possibilità di un appuntamento intimo tra il protagonista e la donna, è dunque non solo smentita dall’arrivo invadente di Cyril, ma proprio dallo stesso gesto di Reynolds che centimetro dopo centimetro prende le distanze, come può fare un direttore della fotografia decidendo la focale, e come già rilievi e misure degli appezzamenti ne Il Petroliere  (2007) si facevano con strumenti ottici, treppiedi, cavalletti.

Alma sembrerebbe quindi puro oggetto di uno sguardo a lei precluso e condiviso da stilista e macchina da presa. Vestire materiali dati (umani o no, poco importa: di modelli si tratta comunque) con un proprio stile che abita la creazione o ne costituisce l’abito, cucirne insieme le fogge eterogenee (montarle), è la non nascosta similarità nei gesti degli artigiani, i quali operano secondo una propria trama di riti, tecniche, regole, metodiche rigidissime, austere, britanniche. Salvo imprevisti: Alma, infatti, che a propria volta ordisce una propria trama per far sì che il legame di Woodcock con lei sia assoluto, non sostituibile.

Per quanto forte, il parallelismo tra professioni e gesti artistici da solo non è il film. Né la donna è relegata alla passività di un oggetto sul quale il maschio esercita la sua scopofilia, come certa teoria influenzata dalla nozione di Male Gaze (Mulvey, 1975) ha rilevato quale tratto comune inerente alla rappresentazione filmica del femminile (e trovando molti dei suoi oggetti, non di rado utilizzati come mere illustrazioni esemplificative delle sue costruzioni concettuali, proprio nel cinema anni ’50).

Diversamente da molto cinema precedente di Anderson spesso incentrato su figure maschili di padri e figli (con l’eccezione di Vizio di forma, dove il romanzo di Pynchon e del suo eroe Doc Sportello si raccontava per bocca dell’amica del protagonista, Sortilege), è infatti qui Alma a prendere parola: Woodcock si racconta nei flashback di lei, anche quando è lui solo a guardarla. «Se vuoi fare una gara di sguardi con me, perderesti», gli dice, e quando l’uomo pure la crea secondo il capriccio dell’ispirazione, del desiderio (come James Stewart vestiva di Madeleine Elster la Kim Novak de La donna che visse due volte) o ne scruta la sfilata nella maison da un occhiello nella porta (come Anthony Perkins spiava invece lo spogliarsi di Janet Leigh in Psyco), o Cyril ne tiene a freno le iniziative (come Joan Fontaine in Rebecca – La prima moglie (1940) era vessata dalla governante che s’interponeva tra lei e Laurence Olivier), ecco che invece la donna lo guarda di rimando. Tutt’altro che passiva, continuamente cerca di guadagnarlo al proprio desiderio, a ribadire la propria presenza e pretendendo l’amore di lui.

Di fronte a questa concretezza immediata, a portata di mano e di sguardo, Woodcock è invece tutto posseduto dal demone della propria attività e da una figura fantasmatica: la madre che lo aveva iniziato al mestiere e della quale aveva cucito l’abito nuziale. L’origine del titolo Phantom Thread è del resto riferita al modo in cui le sarte d’epoca vittoriana, pur terminato il proprio turno di lavoro, continuavano a muovere le mani come continuando a cucire abiti inesistenti.

Allora, forse, a dispetto della certosina dedizione, Reynolds non è a tutti gli effetti in possesso del proprio saper fare: paradossalmente ne è appunto posseduto, abbagliato da un fantasma (la madre, ma anche i neri della fotografia, compatti quanto l’austerità delle regole della casa, e all’opposto il biancore dell’atelier, dove la luce lattiginosa ammanta gli astanti rendendoli quasi indiscernibili). Woodcock non ha quindi occhi per Alma concretamente presente: in questo davvero nascosta. Il culto per le proprie ossessioni profonde (quanto quelle del petroliere Daniel Plainview) e nascoste è così tenace da essere preferito alla manifestazione di un corpo invece evidente, vicino.

Si sa che buona parte del cinema classico americano, costruito secondo la prassi del montaggio invisibile o della trasparenza, ha di fatto nascosto il proprio ordito tecnico a tutto vantaggio dell’evidenza dello sviluppo della trama, il cui filo teneva lo spettatore senza fargli “sentire la macchina”. Dissimulato così nella trasparenza il gesto del saper fare, si rendevano opache, invece, apparenze fantasmatiche su schermo.

Da parte sua, dopo Ubriaco d’amore (2002), Anderson è andato gradualmente occultando la macchina che precedentemente si faceva sentire per ipercinesi e ammiccamenti postmoderni, diventando sempre più un cineasta che pur muovendo da influenze evidenti e dichiarate (Altman, Demme, Ophüls e – quindi – Kubrick), non gioca solo ironicamente al pastiche citazionista di forme. Al contrario, sembra crederle. Lo stesso accade anche quando esplicitamente ricrea inquadrature (la già ricordata spiata di Woodcock che riecheggia quella di Norman Bates): non è tanto per un’attitudine ludica, o al più nostalgica, creando scarti tra ciò che si vede e ciò che si dice inserendovi un certo scetticismo (come è tipico dei dispositivi ironici). Affiora, anzi, il senso di una certa fiducia o sincerità di sguardo, che è tuttavia passato sì per il pastiche di frammenti, ma che paradossalmente cerca del nuovo al fondo di un classicismo cui la postmodernità aveva cessato di credere. 

I veri futuri “ribelli” letterari in questo paese potrebbero benissimo emergere come uno strano gruppo di antiribelli, guardoni nati che osano in qualche modo rifiutare il ruolo di spettatori ironici […]. Questi anti-ribelli sarebbero fuori moda, sarebbero sorpassati, chiaramente, ancor prima dell’inizio. Morti in partenza. Troppo sinceri. Palesemente repressi. Retrogradi, antiquati, ingenui, anacronistici. Forse sarà proprio quello il punto. Forse è proprio questa la ragione per cui saranno i veri ribelli del futuro (Wallace 2011, p. 94).

 

Credere, allora, di nuovo alla possibilità di uno sguardo non ironico, implica che la riflessione sul cinema non sia tanto esercitata per le marche dell’ironia o di metafinzioni di sorta, quanto per fili nascosti della techne filmica che recuperano un senso di stupore perduto nel caustico scetticismo postmoderno, e che la profondità di un procedimento si celi in cose anche evidenti, o gesti semplici.

I movimenti di macchina che accostano le scale della maison Woodcock, ancora, impalpabili, consentono di credere alla misura di distanze tra Reynolds e Alma, e al reciproco ascendere, eppure il loro virtuosismo si cela se frammisto al classico montaggio della trasparenza. Nella fissità di campo e controcampo, allora, senza che alcuna macchina si faccia manifestamente sentire: Woodcock e Alma e Cyril si parlano, litigano, corpo a corpo da un lato all’altro del tavolo dove siedono, nessuno a fare mistero delle proprie posizioni, evidentemente incompatibili. Nei loro faccia a faccia, come spettatori si è nella condizione di suturare (secondo la figura proposta da Oudart sulla scorta di Lacan) il piano dell’uno e dell’altro, producendo senso dalla successione di campi nel sistema di rappresentazione, volta a volta occupando l’asse visuale di un personaggio fuori campo, ma del cui vedere (che non ci appartiene in toto, se parte dell’inquadratura è occupata dalla sua quinta) si partecipa, occupando un campo non dato nella visione.

Nella gara di sguardi che, secondo Alma, Reynolds perderebbe pur provandosi da Pigmalione a cucirla (riuscendo però ad assecondarne il desiderio di bellezza, e guadagnandola quindi a una concezione del vestito come habitus e norma di comportamento), è la donna a tessere nuove trame e renderne complice chi guarda. Tesa a smentire l’autosufficienza di lui, lo rende indifeso, bisognoso, servendogli – come in una fiaba e curiosamente come nell’ultimo, splendido L’inganno di Sofia Coppola – funghi tossici (buona parte della seduzione passa, come sempre, per il cibo, e dire di «essere affamati» è dichiarare altri generi di appetito). Quando Woodcock afferra la trama, si può davvero dare relazione tra i due come un semplice e folle venirsi incontro (come, in maniera diversa, Belmondo accettava l’avvelenamento della Deneuve in La mia droga si chiama Julie sancendo così l’indissolubilità dell’unione): suturare due diversità che non possono comunque riconoscersi pienamente l’una nell’altra, inscriversi con la propria singolarità in un nuovo habitus, comporre trama consci che un filo di capi ne ha due. Nel mezzo, si guarda l’ordito, il disegno, ciò che sta tra cose e persone, per superficie (schermo o vestito o corpo) che sia.

Riferimenti Bibliografici
L. Mulvey, Cinema e piacere visivo, Bulzoni, Roma 2013.
J. Oudart, La suture, in «Cahiers du cinéma», n. 211, Aprile 1969.
D. Foster Wallace, E Unibus Pluram: gli scrittori americani e la televisione, in Tennis, tv, trigonometria, tornado (e altre cose divertenti che non farò mai più), Minimum Fax, Roma 2011.

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