Strani incontri tra registi geniali. In Tokyo-ga (1985), affascinante viaggio wendersiano nell’immagine attraverso il Giappone, alla ricerca delle tracce di Ozu, lo spettatore incontra due sguardi diversi (ma attraversati da una stessa tensione, dalla stessa volontà di ricerca): quello di Chris Marker e quello di Werner Herzog. Due brevi ma significativi momenti e tre idee di cinema che si confrontano a partire dall’impero delle immagini, appunto il Giappone. Sono noti gli episodi: Marker si sottrae allo sguardo della macchina da presa di Wenders, nascondendosi dietro il disegno di un gatto in un bar di Tokyo; Herzog chiacchiera con il regista guardando il panorama della metropoli dall’alto della torre iconica della città, commentando sconsolato che non riesce a vedere nulla, che lo spazio della visione è coperto da migliaia di tetti, di strade, di automobili. L’artefatto ha nascosto il mondo. Ecco allora gli sguardi che si incrociano: per Marker il Giappone, la sua incessante proliferazione di immagini, è lo stimolo per riflettere sulla deriva dell’immagine stessa, sul suo perdere consistenza, sostanza e, al tempo stesso sul suo ritorno come rito, astrattezza, codice, segno e (di)segno.

Al contrario, per Herzog, la metropoli tecnologica, l’ipertrofia delle immagini che essa produce è il simbolo di un diabolico velo che copre ogni sguardo, che avvolge il mondo di una falsa immagine. Nessuna immagine è più possibile, nessuno sguardo può essere tentato. Wenders, dal canto suo è attratto e al tempo stesso disequilibrato dalle immagini di Tokyo, e la sua ricerca è una ricerca nostalgica, verso un’immagine asciutta, essenziale e potentissima (trascendentale, avrebbe ribadito Paul Schrader), l’immagine di Ozu. Per nessuno dei tre vagare per la città, vagabondare lungo le sue strade, palazzi, cartelloni e display può minimamente somigliare all’esperienza del flâneur evocato da Baudelaire (e da Benjamin) all’alba del Novecento.

Il Giappone e l’immagine, il Giappone e il cinema, ma da una prospettiva peculiare: il Giappone come teoria del cinema, o luogo dove le teorie del cinema si scontrano, si ripensano, vengono messe alla prova. È in fondo questa la grande fascinazione che il paese del Sol Levante ha sempre esercitato in tanti registi non nipponici, da Ejzenštejn a Paulo Rocha, da Kiarostami a Amir Naderi. Per tutti valeva lo stesso desiderio: trovare una storia che fosse anche un pensiero sull’immagine.

Herzog non si sottrae a questo percorso, e anche nelle sue immagini la riflessione prende corpo. Ecco (anche) perché Family Romance, LLC di Herzog può essere letto come un film-saggio, nonostante il fatto che il film è per ora l’unica fiction tra gli ultimi film herzoghiani da quattro anni a questa parte. Il viaggio in Giappone di Herzog non è infatti simile a quello dei viaggi cinematografici recenti del regista bavarese – viaggi/montaggi attraverso la Storia (Herzog incontra Gorbachev, 2018), lungo le catastrofi come segni e simboli del mondo (Into the Inferno, 2016, o Fireball, 2020), o attraverso la scoperta del mondo come scrittura (Nomad, 2019) – in cui lo sguardo documentario viene come sempre ripensato e ricreato anzitutto mediante la presenza del regista stesso e in secondo luogo attraverso le connessioni tra corpi, situazioni, storie e discorsi eterogenei.

Al contrario, Family Romance, LLC è invece un film di finzione, o meglio, un film sulla finzione, duplice: anzitutto per la sua narrazione, una storia incentrata su una agenzia che fornisce ai suoi clienti dei sostituti affettivi – padri, madri, fidanzati, mariti – che sono in realtà attori che interpretano il ruolo di qualcuno che non c’è più, che per qualche motivo è scomparso, che deve essere sostituito. Avatar in carne ed ossa, finzioni a pagamento, raccontate in un film a soggetto che appunto per questo è un film-saggio, capace di giocare con le forme (seriamente), di lavorare con corpi reali e in luoghi reali, riscrivendo la realtà. Da qui prende vita una seconda linea, che è appunto la riflessione sulla finzione stessa, sul mondo ridotto a favola, sugli schermi che cercano disperatamente di ricoprire e nascondere le assenze, le mancanze, le ferite.

Film duplice dunque, dalla doppia elica: un racconto-saggio sul potere salvifico della finzione, ma anche sul limite stesso del fingere, sulla figura dell’attore, sull’inquietudine del mondo replicato tecnologicamente. In Herzog la contrapposizione tra il mondo della tecnica e il mondo del rito, della credenza è da sempre fondamentale. La sua ricerca incessante è focalizzata sul trovare immagini che siano in grado di scardinare il mondo di cliché, di repliche e di ripetizioni che – come lo skyline di Tokyo – impedisce di vedere la realtà. C’è un doppio momento nel film in cui questa contrapposizione prende corpo: il primo è quando il protagonista, senza un ruolo da ricoprire, si reca al tempo buddista per pregare la volpe, che ha il potere di cambiare la realtà, appunto di trasformarla, di mostrarla altrimenti (come il cinema). Qui la finzione scopre la sua origine rituale, sacra, appunto legata alla credenza, al credere al potere della volpe.

Il secondo momento è l’arrivo del personaggio al Robot Hotel, albergo completamente automatizzato, dove tutto, dalle impiegate al desk fino ai pesci nell’acquario, è artificiale. Figure zoomorfe e antropomorfe, esseri non più viventi, ma robot. I due momenti sono legati insieme da un filo sottilissimo: se nel primo è il rituale antico a permettere al personaggio di credere ancora nel mondo, di orientarsi all’interno di esso, nel secondo, ogni spazio è serrato, è chiuso nella potenza asettica della tecnica. Ecco i due poli della finzione, quella rituale, profondamente umana, che fa capolino anche in altri momenti del film (nei dubbi del protagonista, nelle sue esitazioni, nel finale di fronte alla porta di casa), e quello del rischio di un mondo ricreato dalla tecnica (non era forse questo il tema portante di Lo and Behold, 2016, viaggio poetico e perturbante sul mondo riscritto attraverso la tecnica, attraverso la rete?). Riecheggia allora nel film il monito che Aby Warburg aveva lasciato nella conferenza sul rituale del serpente presso gli Hopi: la natura trasformata in un’onda infinita che docile obbedisce al comando dell’uomo ha perso il suo potere magico di orientare la vita umana (come la volpe): «In tal modo la civiltà delle macchine ha distrutto ciò che la scienza naturale derivata dal mito aveva faticosamente conquistato: lo spazio per la preghiera, poi trasformatosi in spazio per il pensiero».

Il Denkraum, lo spazio per il pensiero, è ciò a cui il cinema di Herzog non smette di aspirare, ogni volta in forma diversa, occasionato da diversi incontri, da innumerevoli erranze, che finalmente incontrano la terra delle immagini, il Giappone.

Riferimenti bibliografici
A. Warburg, Il rituale del serpente, Adelphi, Milano 1998.

Family Romance, LLC. Regia: Werner Herzog; sceneggiatura: Werner Herzog; fotografia: Werner Herzog; montaggio: Sean Scannell; interpreti: Yuichi Ishii, Mahiro Tanimoto; produzione: Skelling Rock; origine: Stati Uniti; anno: 2020; durata: 89′.

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