A quattro zampe sul letto disfatto di una piccola stanza, una ragazza nuda rivolge lo sguardo verso la finestra dove una tenda è mossa dal vento. L’istante sospeso sembra essere quello di un intervallo tra un accaduto ed un’attesa. In mezzo resta una strana inquietudine. È Evening Wind di Hopper, un’acquaforte del 1921. Di Hopper mi hanno sempre colpito, più di altri, i quadri in cui donne sole, nude o vestite, smarrite perlopiù in piccoli ambienti, abitano un intervallo i cui estremi sono indefiniti e identificano il fuoricampo vuoto del quadro.
Se un’opera è in primo luogo un modo d’uso – di linguaggi, tecniche, temi, modi di espressione – e se l’insieme di tutto questo forma un mondo, l’opera di Edward Hopper ha identificato uno dei mondi più originali ed influenti del Novecento. Ne sono state date diverse spiegazioni: presenza del figurativo, realismo, sguardo cine-fotografico, immaginario americano ed eredità europea, e via dicendo. Ragioni vere ma che colgono verità parziali, mantenendosi tutte all’interno della valorizzazione di un immaginario la cui pervasività capillare è andata ben oltre la pittura. Pensiamo per il cinema al rapporto con autori come Hitchcock, Antonioni, Wenders, o per la letteratura alla recente narrativizzazione di alcuni dei suoi quadri più noti fatta da grandi scrittori americani (da Michael Connelly alla Joyce Carol Oates a Stephen King) nel volume Ombre. Questo non basta a spiegarci il sentimento di inquietudine ferma che ci colpisce guardando i quadri di Hopper. Che non è leggibile con generico riferimento alla condizione di solitudine dell’uomo moderno che viene rappresentata.
Un altro grande pittore figurativo del Novecento, Francis Bacon, ci ha raccontato l’avventura del “dipingere le forze” che disarticolano i corpi con sullo sfondo sature campiture di colore (come ci ha detto Deleuze). Si tratta in Bacon di captare qualcosa che attraversa il presente del corpo “deformato” dalla pressione di qualcosa che dall’esterno lo colpisce.
In Hopper no, le pose dei corpi, collocati in ambienti piccoli (interni) o ampi (paesaggi), portano il contrassegno di qualcosa che c’è stato (forse) e di qualcosa che (forse) potrà accadere. In mezzo lo stallo, la stasi, il corpo svuotato (Hotel Room), assorto (New York Movie, Automat), perso nel vuoto (Morning in a City) o con lo sguardo proteso verso il “fuori” dell’attesa (Cape Cod Morning). Le forze che lo hanno attraversato e abbandonato forse potranno miracolosamente ritornare.
Il massimo che il presente può riconsegnarci è una composizione ferma di forme geometriche, di luce, di colori. Forza e desiderio, se immaginati, sono dislocati in un fuoricampo assoluto che scarta il contiguo. E che rimanda ad un futuro indefinito, indicato da una luce “annunciatrice” (Mark Strand). Non c’è azione in Hopper, ma la stasi è proiettata in quei luoghi dove l’immaginario americano di quell’azione è saturo, in quegli spazi di transito che dovrebbero garantire il movimento e che invece ci vengono restituiti nella loro immobilità: stazioni ferroviarie, pompe di benzina, hotel, strade, navi, treni. Il dinamismo dell’immaginario confligge con la stasi reale, la rende più ferma. Non c’è mai folla in Hopper, ma la sua assenza è proiettata nei luoghi metropolitani della folla, cinema e teatri: New York Movie, The Sheridan Theatre, Two on the Aisle. E quando la solitudine del singolo, dove il prosciugamento del desiderio sembra essersi fatto abitudine, diviene la solitudine in una coppia, lì il quadro si fa “scena”.
Se nelle figure sole l’assenza di desiderio sembra dunque essersi fatta una sorta di “seconda natura”, nelle coppie quell’assenza diventa quasi una condizione per poter stare vicini. La prossimità dei corpi in una stanza è strutturalmente legata alla distanza e indifferenza delle anime. Ognuna isolata nel suo mondo, in molti casi disperatamente distante dall’altro. Come in Excursion into Philosophy o Summer in the City, dove nel primo un uomo, nel secondo una donna, sono seduti sul letto nell’indifferenza o disperazione dei rispettivi partner. In Excursion la donna di spalle, con gambe e fondoschiena scoperti, ignora l’uomo; in Summer è l’uomo, nudo, che affonda disperato il volto nel cuscino nell’estraneità della donna.
Ma è nell’ordinarietà delle situazioni che emerge una sorta di abitudine alla distanza, alla impermeabilità dei mondi. Ne è un esempio magnifico Room in New York (quadro “narrativizzato” da Stephen King in Ombre), dove in un interno borghese, ripreso anche nei codici iconografici del genere, un uomo e una donna, prevedibilmente marito e moglie, sono assorti in loro stessi. L’uomo, sulla sinistra, immerso nella lettura del giornale, la donna a destra suona mollemente il piano. In mezzo, dove passa lo sguardo dello spettatore, una porta di legno chiusa, divide ed isola: «Qui ci viene detto qualcosa a proposito dell’abitudine all’estraniazione, che non solo esiste nelle coppie ma che sboccia e cresce calma, addirittura bella, al loro interno» (Strand 2016, p. 73).
È l’autoisolamento come stile di vita. Un aderire tanto (lettura del giornale) o poco (gingillarsi al piano) a quell’insignificante che si sta facendo, senza prevedere però la possibilità di prenderne le distanze, di fare altrimenti. Nessuna possibilità di immaginare in altro modo lo spazio-tra il “due” della coppia. Cosa che accade invece in un’altra scena, fra le più belle tra quelle in cui risuona un immaginario di genere, in questo caso il noir, Office at Night. Una donna in vestito blu succinto, rovistando in un cassetto dell’ufficio, testa voltata con lo sguardo pudicamente orientato verso il basso in direzione di un uomo seduto al tavolo, concentrato nella lettura delle carte. Quel vestito, quel rossetto, quei tacchi, il leggero voltarsi, portano inscritti il desiderio di uno sguardo, che invece non arriva. L’uomo in tutto il suo grigiore resta piantato sulle sue carte, isolato nel suo mondo, nella sua teca. La linea obliqua di un contatto non si traccia.
Sono dei mondi-acquario quelli di Hopper, luminosi ma chiusi, definiti da forme geometriche nette, finestre e porte a raddoppiare la cornice e a bloccare il movimento potenziale di corpi e cose. E questo emerge ancor più radicalmente nei quadri dove gli spazi sono svuotati di presenze umane: non solo nelle case prossime a strade o ferrovie, ma per esempio in quelle scale vuote dove il movimento ascendente o discendente dello sguardo si ferma su una natura fattasi muro, solidificata, compatta e scura (Stairway). Insomma, il “vuoto” in cui è collocata la figura si radicalizza fino alla cancellazione della figura stessa (come non pensare al finale de L’eclisse di Antonioni?).
Detto questo, sembra ancora rimanere fuori quanto di essenziale e misterioso accompagna la pittura di Hopper. Ciò che ne ha garantito un grande successo. È lo stesso Hopper che ci indica la fonte del mistero: «Come ha spiegato Emerson con impareggiabile chiarezza: “In ogni opera di genio riconosciamo i nostri pensieri rimossi, che ci ritornano in mente con una certa maestosità”» (Hopper 2017, p. 83). Quali sono questi “pensieri rimossi” che vediamo all’opera nell’arte di Hopper, che ne definiscono una sorta di splendido mistero? Citando Renoir, Hopper ci dice che «La cosa più importante del quadro è quella che non si può definire» (ivi, p. 74).
La recente edizione italiana del volume Edward Hopper. Dipinti & disegni dai libri mastri (Jaca Book, Milano 2020) ci può forse dire qualcosa su questo. Ci fa vedere l’opera “decostruendola” in una duplice direzione. Da un lato, mostrando gli schizzi fatti da Hopper, che pur a posteriori (sono una sintesi per i “libri contabili”) mostrano la ricerca della forma giusta per “dire quel che si ha da dire”, e per mostrare – come dice O’Doherty – il “ritorno dell’opera allo status di idea originaria”; è come se il movimento dallo schizzo al dipinto fosse riavvolto dal movimento opposto, quello che riporta il quadro allo “schema” che l’ha generato. Dall’altro, traducendo il quadro in parole che provano a descriverlo. In questo caso sono quelle della moglie di Hopper, Jo, anche lei artista, che per i libri mastri raccoglieva tutti gli elementi necessari a identificare le opere. Ora, questa “traduzione in parole” del quadro elenca solo elementi, figure, colori, senza connotarli, né commentarli, né concatenarli diegeticamente.
Office at Night è così descritto: «Pareti bianche, luce elettrica da soffitto, da lampada su scrivania (paralume verde) e da luce fuori da finestra» (ivi, p. 75). La stessa scena qui ridotta ad elementi minimi messi in serie si rende disponibile ad essere narrativizzata, come per esempio nel racconto che ne trae Warren Moore in Ombre. Insomma, questa polarità di traduzione verbale, descrittiva o narrativa, evidenzia qualcosa. Ci fa vedere come la scena, molto spesso “scena americana”, è minata dall’interno da una costruzione formale composta di elementi distinti ed individuati, elencabili e finiti. Se la “scena” si inscrive in una dimensione immaginaria, con il registro drammatico, melodrammatico, domestico, talvolta patetico che la caratterizza, la composizione non vi aderisce in modo mimetico e trasparente, ma attraverso un lavoro formale (oggetti, colore e soprattutto luce) chiude, spesso raddoppiandola con altre cornici, la scena stessa facendone una “teca”. E ne prende le distanze attraverso un punto di vista laterale che scarta sia dall’adesione empatica che dalla distanza oggettiva. La prospettiva “laterale” sembra essere il contrassegno figurativo di tale scarto, raddoppiato dalle molte figure hopperiane viste di lato, di profilo.
Il quadro più noto di Hopper, Nighthawks, lo testimonia. “Scena americana”: strada, bar, avventori notturni, un uomo solo, una coppia, il barman, una intensa luce diffusa che giunge ad illuminare l’esterno, un incrocio di strade urbane notturne e deserte. Ma è la vetrina, raddoppiamento riflessivo del quadro, che come la teca di un acquario chiude ed isola avventori e scena. E proietta l’immaginario urbano americano anni quaranta su una condizione esistenziale senza tempo (incontro tra solitudini). Ma non basta, c’è un ulteriore livello. Oltre la “scena” e la “teca” c’è l’“a lato” del punto di vista che vede tutto questo, e che forma un angolo acuto col punto di fuga della scena (l’incrocio di strade). Tale lateralità impedisce non solo l’unione adesiva della “scena” (narrazione) e della “teca” (composizione), ma evidenzia la prospettiva di un “fuori” come il vero luogo di formazione del “mistero”. Che ci dice che oltre le codificazioni dell’immaginario e la disperazione dell’esistenza, sta la presa di distanze dall’uno e dall’altra che la forma può operare.
Detto altrimenti, il cuore e il mistero della pittura di Hopper sembrano risiedere nel fissare la “scena” in una “teca” e nel prendere la distanza da entrambe. Nessuna simpatia, nessuna adesione, nessun trasporto verso personaggi e figure, ambienti e paesaggi. Che vengono costruiti per poi essere abbandonati alla loro assoluta assenza di desiderio e di forza. Immaginare una scena (personaggi e ambiente), costruire una teca (esistenze e mondo) e determinare uno scarto da entrambe senza potersene del tutto svincolare, questo sembra il tratto meravigliosamente “misterioso” dell’arte di Hopper.
E se la nostra vita è sempre divisa tra “scena” e “teca” (come il presente scisso tra narcisismo e autoisolamento ci conferma), la sua libertà risiede solo nel passo “laterale”, quello capace di scartare (senza del tutto poterne uscire) sia dalla “scena” che dalla “teca”. È su questa “lateralità” che dobbiamo scommettere, sul “misterioso” punto di congiunzione tra la pittura e la vita.
Riferimenti bibliografici
AA. VV., Ombre. Racconti ispirati ai dipinti di Edward Hopper, Einaudi, Torino 2017.
E. Hopper, Scritti, interviste, testimonianze, Abscondita, Milano 2017.
Id., Dipinti & disegni dai libri mastri, Jaca Book, Milano 2020.
M. Strand, Edward Hopper. Un poeta legge un pittore, Donzelli, Roma 2016.
E. Hopper, Dipinti & disegni dai libri mastri, Jaca Book, Milano 2020.